Amnesty International firma un rapporto durissimo sui centri di detenzione turchi per migranti. Fra violenze ed espulsioni forzate. Dentro strutture finanziate da Bruxelles
DI FRANCESCA SIRONI
Vengono arrestati. Alcuni anche mentre sono al ristorante, in località di mare. “Migranti illegali”. Tanto basta per essere caricati su un bus, scortati in prigioni lontane migliaia di chilometri e sottratti a qualsiasi comunicazione con l'esterno: i cellulari requisiti, i familiari non possono entrare. Solo una cosa è certa: da lì si può uscire soltanto accettando di firmare la propria espulsione. Il proprio viaggio di ritorno forzato verso la Siria, l'Iraq, l'Afghanistan. La guerra.
Erzurum, Düziçi, Edirne. Sono nomi che iniziano a terrificare i profughi di tutto il Medio Oriente. Sono i nomi dei centri di detenzione analizzati in un rapporto di Amnesty International fondato su interviste, incontri, e materiale audio-video mostrato dai testimoni. Una relazione che rivela nuove, ulteriori, violazioni ai diritti umani compiute nella Turchia di Tayyp Erdogan, dopo quelle denunciate da Human Rights Watch.
Ciò che è più grave, è che queste procedure di detenzione e rimpatrio forzate (e di rimpatrio in zone
di conflitto come la Siria), avvengono sotto l'egida dall'Europa. Sotto il cerchio di stelle nella bandiera blu. Un siriano di 40 anni mostra infatti ai ricercatori di Amnesty, incontrati a Istanbul, l'etichetta ch'era attaccata al letto del centro di Erzurum in cui è stato rinchiuso senza sapere perché e dove è stato costretto per sette giorni in una stanza, da solo, con le mani e i piedi legati: c'è scritto “finanziato all'85 per cento dall'Unione Europea”. «Quando ti mettono una catena ai polsi e alle caviglie, ti senti uno schiavo, non un essere umano», dice, e indicando il cartellino strappato, portato con sé nei suoi viaggi oltre e attraverso il confine: «È sotto questa etichetta che siamo stati torturati».
Sono in molti ad aver portato prove di violenze. In dieci hanno confermato ad esempio il racconto di un uomo: picchiato più volte dalla polizia a Edirne. Ci sarebbe anche una foto: la sua gamba coperta di lividi. Avvocati e attivisti non sono potuti entrare indipendentemente nei centri, anche in quelli presentati dalle autorità turche come “strutture d'accoglienza”. Ma di un'accoglienza da cui non si può uscire. Più simile a una prigione, quindi. In cui si viene rinchiusi solo per il fatto di essere profughi. Di qualunque nazionalità.
Per uscire da questi centri i migranti devono firmare fogli di via. Da cui si avviano procedure di espulsione che li riportano anche in paesi di guerra. «È una violazione delle leggi nazionali e internazionali», ammonisce Amnesty. Che ricorda come queste procedure abbiano colpito centinaia di rifugiati da settembre, esattamente in parallelo ai colloqui con l'Unione Europea che hanno portato all'accordo sul “Piano d'azione” firmato a novembre.
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