giovedì 30 maggio 2013

pc 30 maggio - L'interesse nazionale... è l'interesse della borghesia contro l'interesse del proletariato

Interesse nazionale”, con questo titolone si apre l'editoriale del sole24ore del 28 maggio scorso. 

Che cos'è questo “interesse nazionale” definito anche “interesse generale” o interesse del “sistema paese” che viene sbandierato da padroni e dai politici in tutte le salse? Prova a spiegarcelo, ancora una volta, questo editoriale del quotidiano della Confindustria – l'associazione che raccoglie i padroni delle principali industrie – che riproduciamo qui sotto.

Secondo questo editoriale i padroni rimproverano al governo scarsa attenzione all'“interesse generale” perché questo non si impegna a salvaguardare il destino industriale del paese che rappresenta la terza economia d'Europa e che nel sistema manifatturiero impiega quasi dieci milioni di addetti. Questo sistema manifatturiero del capitalismo italiano, che viene definito a trazione familiare, è messo in serio pericolo dalla crisi e deve essere difeso per salvaguardare anche la sovranità nazionale che viene definita specchio dell'economia reale.
Ma come mai si è arrivati a questo punto? A malincuore il giornalista deve ammettere (quando ormai è davanti agli occhi di tutti) che “agli imprenditori si rimprovera, talvolta a ragione, di non rinnovare i loro impianti, di non scommettere sul futuro, di avere la vista corta.” E “dimentica” di aggiungere che hanno vissuto di sussidi statali per miliardi, di vero e proprio assistenzialismo, di vera e propria delinquenza.
Quindi si ammette che il declino industriale del paese è opera degli stessi capitalisti e naturalmente della borghesia che ne rappresenta gli interessi; che in Italia ci sono ancora quasi dieci milioni di operai (mentre per anni tutti hanno parlato della scomparsa della classe operaia per negare la legittimità delle sue lotte e rivendicazioni; in questo momento in cui la classe operaia non si sta mobilitando come in passato i padroni parlano senza remore dell'importanza dell'industria, dimenticando che quando si rimette al centro l'industria si rimettono al centro gli operai) e che adesso gli obiettivi di crescita del settore manifatturiero, sarebbero decisivi anche in termini di mantenimento della coesione sociale. E ancora “se non si danno risposte si rischia il declino irreversibile economico e politico...”
Cosa può fare l'Italia, allora, si chiede retoricamente l'editorialista, e dopo aver elencato casi assurdi come quello dell'Ilva, le colpe vengono scaricate sullo Stato: “quando i dati sulla giustizia civile e penale, risaputi ormai fino alla noia ma non per questo diventati ancora un'emergenza politica nazionale, indicano che l'Italia in tutte le classifiche internazionali figura nelle posizioni di coda, c'è assai poco da discutere.”
Ma a che cosa si riduce tutta questa invettiva e questi paroloni sull'interesse generale? Quali sono le richieste che seguono a queste grandi parole? I soldi! Tutta l'enfasi sui pericoli dell'economia e le minacce sulla coesione sociale, per avere prima possibile i soldi che la pubblica amministrazione deve alle imprese!
Rimandiamo ad un altro momento la critica a tutte le chiacchiere legate a questa retorica padronale... nel frattempo il circolo di proletari comunisti di Palermo attraverso lo studio del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels ha già visto che la borghesia sfrutta, distrugge, imbarbarisce la società e si arricchisce spudoratamente naturalmente nell'interesse generale!
Il prossimo incontro del Circolo sul Manifesto del Partito Comunista è previsto per venerdì 31 alle ore 17
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L'interesse nazionale

In un Paese come l'Italia che rappresenta la terza economia d'Europa e che nel sistema manifatturiero impiega quasi dieci milioni di addetti, un serio confronto sul suo destino industriale dovrebbe essere all'ordine del giorno, nell'interesse generale. Perché qui sta storicamente la chiave della sua fortuna nel mondo. E perché qui, cioè nel posizionamento del capitalismo italiano a prevalente trazione familiare, è riposta in fondo una grande quota della nostra sovranità nazionale. Quella effettiva, specchio dell'economia reale.
Si tratta di una discussione non semplice, che chiama in causa l'intera classe dirigente, compresa quell'imprenditoria, industriale e no, che accanto a innumerevoli capitoli di straordinario successo ha scritto anche pagine ingloriose. Ma dopo vent'anni di stagnazione di cui cinque, gli ultimi, di crisi violenta, chiudere gli occhi di fronte alla questione industriale, giocando di rimessa o sperando nei miracoli delle imprese già battistrada sui mercati globali, significa auto-condannarsi ad una prospettiva di irreversibile declino. Economico e politico.
Dovrebbe suggerire qualcosa il fatto che gli Stati Uniti, troppo spesso dipinti per anni come una potenza ormai in disarmo industriale, abbiano ricentrato la loro strategia sull'industria, mettendosi in testa di competere in termini di produttività non solo con la Germania o il Giappone, ma anche con i Paesi emergenti. E financo la sonnolenta Europa, scopertasi a fare i conti con 20 milioni di disoccupati, si è ora convinta ad alzare il tiro, ponendosi obiettivi di crescita del settore manifatturiero, decisivo anche in termini di mantenimento della coesione sociale.

Cosa può fare l'Italia? Per cominciare, prima ancora di scrivere sulla carta irrealistiche previsioni sulla crescita del Pil alle condizioni date, dovrebbe porsi delle semplici domande. Ad esempio, in quale Paese del mondo industrializzato si sarebbe potuto registrare un caso come quello Ilva di Taranto, il gigante della siderurgia ex pubblica, ottavo nel mondo, stritolato da un complesso pluriennale di responsabilità e silenzi sul quale alla fine (rincorrendo giudiziariamente la famiglia proprietaria Riva) è la magistratura a decretare di fatto la possibile chiusura dello stabilimento più grande del Mezzogiorno? Ed è possibile che la terza economia d'Europa non conosca ancora l'ammontare dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese?
Che questo problema sia stato lasciato marcire per anni e che ora, in pieno credit crunch e in costanza di un rapporto banca-impresa che non gira, per i 40 miliardi promessi in due anni non si sappia con certezza quando entreranno in pista per la crescita? In Italia è proprio l'incertezza il primo nemico degli investimenti, italiani o esteri che siano. Agli imprenditori si rimprovera, talvolta a ragione, di non rinnovare i loro impianti, di non scommettere sul futuro, di avere la vista corta. Ma quando i dati sulla giustizia civile e penale, risaputi ormai fino alla noia ma non per questo diventati ancora un'emergenza politica nazionale, indicano che l'Italia in tutte le classifiche internazionali figura nelle posizioni di coda, c'è assai poco da discutere. Investire dove la presenza dello Stato significa iper-regolamentazione e insieme mancanza del rispetto del diritto da parte dello Stato stesso, diventa un atto di fede, non una scelta razionale.
Razionale può essere invece rivolgersi altrove. Magari solo pochi chilometri oltre i confini nazionali, ma in altri mondi (come documenta il Sole 24 Ore a pagina 4 a proposito della Svizzera) dove burocrazia più semplice e fisco meno oppressivo attraggono anche piccole e medie imprese e insieme grandi marchi della moda. La deindustrializzazione è anche questa: silenziosa e comoda, a portata di mano. Tendenza che s'accoppia a quella per la quale i Paesi forti "emergenti", oltre quelli storici, guardano all'Italia (dove le imprese soffocano perché a corto di credito bancario ed in pochi anni è stato perduto un quarto della produzione industriale) come ad un mercato dove fare shopping a prezzi di saldo. Scelta che in questi casi, magari in vista di sviluppi diversi, supera anche le perplessità sulle incertezze del diritto made in Italy.
La questione industriale ha molte facce. L'unica cosa che l'Italia non può permettersi è negare l'evidenza dei fatti, visto che la realtà è sotto gli occhi di tutti.




Il sole24ore 28 maggio 2013

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