LE CITTÀ-FABBRICA DI FOXCONN
Cina, la vita secondo Apple
Primo fornitore mondiale di componenti elettroniche e primo datore di lavoro privato in Cina, al colosso taiwanese Foxconn sta ormai stretto il proprio gigantesco bunker di Shenzhen Longhua. Viaggio in Guangdong e Sichuan, luogo emblematico del suo risveglio industriale.
dal nostro inviato speciale Jordan Pouille*
«È la prima volta che parlo a uno straniero. Conosci Michael Jackson?
Sul mio telefono ho tutte le sue canzoni!». Mezzanotte e mezza, di
fronte all’ingresso di Hongfujin, una divisione di Foxconn dedicata
all’iPod. Nell’umidità notturna di Longhua, alla periferia di Shenzen,
un gruppo di cuochi ambulanti, il fornello a gas fissato al retro del
furgoncino, sono venuti a fare concorrenza alla mensa aziendale. Si
rivolgono alle migliaia di giovani in giacca rosa o nera che, a pancia
vuota, lasciano il proprio posto di lavoro. Alcuni si mostrano
incuriositi e ci avvicinano con fare candido e allegro. Per i clienti
che mangiano al furgoncino di Bo Zhang, una porzione di spaghetti
saltati viene 3 yuan (1).
Da solo, Bo ne prepara almeno mille al giorno. «I capi di Foxconn
preferiscono tenere i lavoratori in fabbrica durante la pausa per il
pasto. Così, appena arriviamo noi, questi bastardi fanno scendere il
prezzo di una portata alla mensa a 1,50 yuan, invece dei soliti 4!»
Bo Zhang è a sua volta un ex operaio di Foxconn, addetto all’officina di
laminazione delle scocche metalliche dei MacBook. Si ricorda di una
sala poco ventilata e rumorosa, del caldo soffocante, della polvere
d’alluminio che ricopriva la pelle e i capelli. All’epoca, non soltanto
gli operai ma perfino i quadri aziendali non avevano alcun contatto con
la gerarchia taiwanese, che pure prendeva le decisioni. Le sue richieste
di trasferimento, cosa poco sorprendente, venivano tutte rifiutate. Ha
lasciato la fabbrica nel giro di un anno, nel maggio 2010. Per poterci
meglio tornare. «Adesso, sono gli operai a darmi da vivere», dice
divertito. E poco male se tra i suoi sgabelli in plastica si aggirano i
ratti e il fumo della fabbrica si mescola all’odore sottile della salsa
di soia.
Attorno al suo ristorante improvvisato non c’è alcuna guardia: solo una
folla di giovani stanchi, che preferisce la convivialità di Bo alla
stretta disciplina che regna all’interno di Foxconn, al di là delle
porte di sicurezza. A quel che dicono, le umiliazioni e le punizioni da
parte dei capireparto sono finite dopo lo scandalo dei suicidi in serie,
nel corso del primo semestre del 2010 (2).
«I dirigenti sono molto più discreti. In effetti, nemmeno si sentono
più. Se uno ha la mente salda, questa vita è gestibile. Io lavoro in
piedi, ma ho una pausa di dieci minuti ogni due ore», ci racconta Yang (3),
21 anni e secco come il tralcio di un vitigno. Il suo compagno Cao Di
si ricorda delle vessazioni del passato: «Se gli obiettivi di produzione
non venivano raggiunti, dovevamo rimanere in piedi davanti a un muro
per sei ore a riflettere sui nostri errori». Il regolamento resta
comunque severo: «Naturalmente, dobbiamo lasciare sempre i telefoni
cellulari all’ingresso, e non possiamo né andare in bagno né bere un
sorso d’acqua durante il lavoro». Bisogna aspettare le pause. Tra tutti e
due, riescono a imballare ottomila iPad al giorno, lavorando dalle 8
alle 19. «A partire – precisa uno con fierezza – da quelli della prima
generazione, nel 2010».
Risse tra guardie e lavoratori
È qui, a Longhua, che il fondatore taiwanese di Foxconn, Terry Tai-ming
Gou, ha costruito la sua prima fabbrica in Cina, nel 1988. Avviluppati
in un bunker di tre chilometri quadrati circondato dai dormitori,
350.000 operai vi lavorano giorno e notte per fabbricare stampanti e
cartucce Hewlett Packard (Hp), computer Dell o Acer, lettori Kindle di
Amazon, Playstation di Sony e tutti i prodotti della gamma Apple; ed è
proprio per far fronte all’insaziabile domanda mondiale di questi ultimi
che Foxconn ha realizzato due impianti supplementari, ancora più
grandi: uno nel Sichuan, per l’iPad, e l’altro, nell’Henan, per gli
iPhone. Nel primo caso, la produzione è stata avviata il 30 settembre
del 2010, nel secondo ad agosto 2011. I nuovi stabilimenti danno lavoro a
circa 200.000 operai ciascuno.
Da stamattina, a Shenzhen, un gruppo di uomini in abito scuro, si sfida,
imperturbabile, a carte, in una sala piena di fumo. Di tanto in tanto, i
giocatori buttano un occhio distratto in direzione dello schermo che
ritrasmette le immagini della telesorveglianza. Gestiscono una decina di
dormitori dalle facciate piastrellate, come ce ne sono dappertutto in
città. I loro sono separati dall’officina B4 della fabbrica Foxconn da
due strade a quattro corsie, percorse a qualunque ora dai camion.
Dall’ultimo piano, attraverso le inferriate delle finestre, si possono
scorgere alcuni giovani nell’atto di impilare dei cartoni di colore nero
e verde – i colori della marca Acer.
Questi amministratori sono incaricati di raccogliere, per conto di un
ricco proprietario, gli affitti di dodicimila operai ammassati in
millecinquecento camere. Lavatrici e distributori d’acqua potabile sono
installati fuori, fra i sacchi dei rifiuti domestici, gettati dalle
finestre e subito sventrati dai cani randagi. Le saracinesche del
pianterreno nascondono una miriade di internet café illegali e sale per
il gioco online a 1 yuan l’ora, aperti ventiquattr’ore su ventiquattro,
dove i giovani operai possono venire a svagarsi.
Poiché, mancando lo spazio, Foxconn non ospita che un quarto della
propria manodopera – in un «campus con piscina olimpica, palestre e
ospedali», dichiarano i comunicati stampa –, la stragrande maggioranza
del personale è costretta a occupare dei dormitori privati costruiti in
fretta e furia, appiccicati gli uni agli altri, su lotti senza nemmeno i
nomi delle strade. Gli operai si trovano così alla mercé di
commercianti di ogni genere e di albergatori avidi, sui quali l’azienda
taiwanese non esercita alcun controllo. Grazie alla telesorveglianza, i
gestori privati sono riusciti a sorprendere qualcuno nell’atto di
gettare un mozzicone per le scale e a inviargli subito una guardia per
coglierlo sul fatto. Sulla base del regolamento affisso in tutti i
corridoi, il malcapitato è passibile di un’ammenda non trattabile di 20
yuan. A Longhua, il mantenimento dell’ordine è prerogativa delle società
di sicurezza private: dei bellimbusti in uniforme di polizia, ma senza
armi né distintivo. Come coloro che sono deputati a sorvegliare, sono
immigrati, reclutati davanti alla fabbrica. Anche la paga è la stessa; a
separarli c’è solo un berretto.
All’entrata di officine, magazzini e dormitori, sono pronti a infliggere
multe da tutte le parti, controllare badge e frugare negli zaini. Una
chiamata d’emergenza alla polizia, e sono loro i primi ad arrivare. La
maggior parte si pavoneggia a bordo di biciclette mountain bike, dalle
sirene rosse e blu fissate al posto del portabagagli. La sera, si
piazzano alle estremità di ogni strada, con tutte le luci accese,
simulando dei blocchi di polizia per poter meglio controllare i flussi. A
volte, fra operai e guardiani scoppiano delle risse, e in questi casi
spetta alla polizia intervenire. «Le forze dell’ordine, quelle vere, si
muovono solo se viene loro segnalato un assembramento anomalo. In tal
caso, si mettono a filmare uno per uno i capi, e questi ragazzini
finiscono per disperdersi», racconta un commerciante. Dai loro
sofisticati pick-up, i poliziotti di Longhua azionano una telecamera
girevole.
La loro ossessione sono i tentativi, ricorrenti nella provincia, di
manifestazioni; mentre, in compenso, sono molto più tolleranti rispetto
agli innumerevoli bordelli camuffati da karaoke o in centri per
massaggi. Altrettanto falsi sono i diplomi, le patenti e le carte
d’identità proposti da diverse pubblicità. Un vero flagello, a detta di
Foxconn: «Non siamo voluti mai ricorrere al lavoro dei minori. Se alcuni
casi si sono verificati, è perché dei lavoratori hanno utilizzato
documenti falsi e si dicevano più vecchi dell’età che avevano», ha già
detto l’azienda. Delle verifiche condotte da Apple nel 2011 hanno
evidenziato la presenza di bambini presso cinque dei suoi fornitori (4).
In questa città-fabbrica, a sedurre gli operai che aspirano a una
riqualificazione, ecco strambe scuole di «formazione continua». È il
caso di Guo Tan, 25 anni, da due anni addetto alla verniciatura delle
scocche dei telefonini Nokia. Suo fratello lavora in una fabbrica di
accendini del Zhejiang; sua sorella a Dongguan (Guangdong), in una
fabbrica di pantofole.
Dopo il Capodanno cinese, ha seguito un corso di «marketing online» in
un istituto che a Longhua ha un’attività ben avviata, che gli prometteva
una nuova carriera e un nuovo inizio: «Mi sono voluto riqualificare
perché passo dagli orari notturni a quelli di giorno ogni mese, talvolta
ogni due settimane, senza preavviso, cosa che mi impedisce di dormire
correttamente». Guo lavora dodici ore al giorno, sei giorni su sette.
Per l’esorbitante cifra di 4.000 yuan, ossia più del doppio del suo
salario di base, ma «pagabili a rate», si è regalato tre ore di corso al
giorno, quattro giorni alla settimana, per due mesi, con il premio
finale di un bel certificato. Il documento però non è un diploma e la
formazione acquisita non è riconosciuta da nessuna delle imprese cinesi
in cui vorrebbe essere assunto. Originario del Guizhou, una delle
province più povere del paese, Guo ha un obiettivo: «Vorrei tornare a
casa con una compagna e abbastanza soldi per mettere su la mia piccola
attività ed essere l’unico amministratore di me stesso. Questo
rassicurerebbe i miei genitori». Costretto a rimettere in sesto i suoi
conti, dovrà restare alla Foxconn ancora per un po’.
Bibite energetiche, peluche giganti e bigiotteria
A Longhua, l’ingenuità della manodopera è pari solo al suo appetito
consumista. Fin dall’uscita dalla fabbrica, gli operai sono immersi in
un universo di tentazioni a buon mercato. I dormitori più vicini alle
uscite della fabbrica (Nord, Sud, Est, Ovest) sono tappezzati di
pubblicità luminose e sonore di telefonini e bevande energetiche. Per la
strada, i ragazzi sono adescati da voci al megafono: offrono loro
peluche giganti, gioielli di bigiotteria... perfino giacche aziendali
Foxconn contraffatte, a 35 yuan cadauna, «se gli capita di perdere
quella fornita dalla direzione il giorno dell’assunzione e che devono
obbligatoriamente portare sei giorni su sette», dice la venditrice. Più
lontano, su Minging Lu, un tatuatore ha installato la sua
apparecchiatura elettrica vicino a un lampione. Nemmeno i nuvoloni di
polvere sollevati dal continuo passaggio dei camion. riescono a
distrarlo. Per 300 yuan, è pronto a tatuare temibili dragoni sul torso o
la schiena degli operai. Quando viene il loro giorno di riposo
settimanale o mensile, se hanno totalizzato abbastanza ore di
straordinario, i lavoratori fanno la fila davanti al parrucchiere o
affittano dei pattini per andare a scaricare la fatica accumulata nella
piazza principale. Nascosti sotto gli striscioni che vantano
l’«armonioso sviluppo» di Longhua, degli altoparlanti diffondono la loro
musica preferita.
Lontano dal baccano, sopra un magazzino di coperte, risuonano gli inni
di un chiesa evangelica, sfuggita forse all’ufficio per gli affari
religiosi di Shenzhen. «Dio vi chiama», si può perfino leggere a
caratteri verdi e rossi sulla finestra del primo piano. Da quando ha
aperto, cinque anni fa, alcuni operai di Foxconn vi vengono a pregare,
piangere e cantare, giorno e notte. Le loro donazioni hanno permesso già
di acquistare un piccolo pianoforte e finanziare gli spostamenti di un
pastore di base a Dongguan. Niente che possa turbare le autorità per il
momento.
Poi, nell’aprile 2011, miracolo! La metropolitana è finalmente arrivata a
Longhua. Ogni otto minuti, un convoglio climatizzato si ferma alla
stazione di Qinghu, in corso Heping Lu, e porta i giovani operai fino a
Lohuo, il quartiere animato di Shenzhen, al confine con Hongkong.
«Ci sono sempre più traffico, tentazioni e insicurezza», riassume Sunny
Yang, un ingegnere di ritorno da una serata di badminton tra amici. Vive
a Longhua con sua moglie e sua figlia di due anni e sopporta sempre di
meno la confusione della città-fabbrica. «Anche se – si sente in dovere
di aggiungere – resta una città ricca di opportunità per i laureati».
Confortante, agli occhi di Yang, è invece l’apparizione nei dormitori di
una popolazione più pacifica: gli anziani, che passano le loro giornate
tranquillamente seduti attorno ai radi campi da gioco, servendosi delle
reti metalliche come stenditoi per abiti... da bambini.
Questi sessantenni non hanno traslocato in mezzo alle fabbriche per
piacere, ma perché i loro «lavoratori ragazzini», operai di Foxconn, li
hanno dovuti chiamare a prendersi cura dei propri figli. Questa è, ad
esempio, l’idea di Lei, 23 anni, originaria dell’Hunan e madre di un
bambino di due anni e mezzo: «Anche i miei genitori erano operai
immigrati nella regione, e il loro hukou rurale [passaporto interno] non
mi permetteva di essere iscritta a scuola lì [gli immigrati non hanno
gli stessi diritti dei residenti, specie per quanto riguarda l’accesso
ai servizi pubblici]. Allora mi hanno lasciato al villaggio. Per tutta
la mia infanzia, non li ho visti che una volta all’anno, per il
Capodanno cinese. Non voglio che mio figlio viva la stessa solitudine.
Voglio fargli avere un’istruzione sul posto, anche a costo di pagarne il
prezzo», afferma la giovane donna, che ci fa visitare la sua modesta
dimora.
Per il momento, in famiglia vivono in tre in una stanza di nove metri
quadrati, per 350 yuan al mese. Appena lo spazio sufficiente per i
materassi, il televisore e il passeggino del piccolo. Il marito di Lei
assembla telefoni fissi Cisco, dodici ore al giorno, sei giorni su
sette. Guadagna bene: fino a 4.000 yuan al mese. Lei ha smesso di
lavorare quando ha avuto il bambino. Adesso è incinta di cinque mesi.
Dopo la nascita del secondo figlio, farà venire i suoi genitori
pensionati e ricomincerà a lavorare, per raddoppiare le entrate
domestiche.
Che ne pensano gli anziani che hanno già lasciato la campagna? «È vero
che ci si annoia un po’ qui, l’aria è inquinata, le strade sporche, non
c’è spazio per coltivare il proprio orto e ci si sente un po’ sotto
sorveglianza con tutte queste guardie», sospira la signora Jiang, 63
anni. Insieme ad altre persone, oggi aspetta un fattorino da Hongkong
per del latte maternizzato d’importazione, «garantito senza melammina».
A Longhua, molte madri e future madri sono ben consapevoli del proprio
corpo e dei loro diritti, circostanza che ha l’effetto di infastidire i
loro superiori in fabbrica. «Quando ho saputo di essere incinta, il mio
caporeparto mi ha fatto aspettare dieci giorni prima di esentarmi dal
passaggio al metal detector. E, quando ho chiesto di cambiare reparto,
ha rifiutato. Ho dovuto convincere un suo superiore», dice divertita una
giovane donna. Incinta di otto mesi, Jun Hao è ora addetta
all’etichettatura delle scatole per computer: «Attacco autoadesivi per
3.000 yuan al mese. Non è forse giusto?»
Dopo il parto, avrà diritto a un congedo per maternità di tre mesi: «Mia
madre non ci ha creduto neanche per un secondo, ma nel contratto c’è».
Nella Cina continentale, alle donne si prospettano novanta giorni di
maternità al 100% del salario mensile medio dell’anno precedente, vale a
dire ventotto giorni in più che a Hongkong. Un obbligo facile da far
rispettare nella funzione pubblica e nelle grandi aziende di stato
cinese, molto meno nel settore privato, riconosce il quotidiano
ufficiale China Daily (5).
Da dove può venire una tale presa di coscienza da parte di Jun? Dalle
ore passate sui forum di discussione femminile, attraverso i computer
degli innumerevoli internet café? C’è da dubitarne, vista la misura in
cui questi luoghi sono di pertinenza esclusiva degli uomini,
ossessionati dai giochi in rete. Forse viene piuttosto dalle campagne
d’informazione condotte da qualche ospedale, come il centro ginecologico
Huaai di Longhua. È qui che, protetti dall’anonimato, le operaie e i
loro compagni vengono fino a tarda sera per raccogliere ogni genere
d’informazione sulla maternità o la contraccezione.
«Tanto più conosceranno i loro diritti, tanto più facilmente faranno dei
progressi, e non solo sui salari (6).
Per Shenzhen è una garanzia di stabilità», dicono in ospedale. Una
precisazione davvero stupefacente: malgrado la decorazione rosa bonbon,
questo istituto di sanità beneficia infatti di un partenariato con
l’Esercito popolare di Liberazione (Epl). La maggior parte dei medici
sono ufficiali. Si rimane sbalorditi di fronte ai pannelli illustrati di
educazione sessuale affissi lungo i marciapiedi, che però un guardiano
ci vieterà di fotografare. Vi si legge: «L’omosessualità è un fenomeno
culturale come il sadomasochismo. Un fenomeno che non è ancora giunto
alla piena maturità in Cina», un modo per dire che la società cinese non
sarebbe affatto preparata ad accettare l’omosessualità.
Quando arrivano con il loro fagotto davanti all’imponente centro di
reclutamento, vicino alla porta Nord, i giovani migranti scoprono gli
slogan di benvenuto: «Realizzare i propri sogni», «Fare fortuna».
Possono contemplare le gigantografie in cui operai euforici sono vestiti
come studenti di un campus universitario americano, con i cappelli
«tocco» sulla testa. Più pragmaticamente, un cartello rosso, ricorda che
«non serve né un titolo né soldi per trovare posto in azienda»: ai
reclutatori non dispiace. Se rimangono senza incarichi, possono sempre
promettere un posto agli scombussolati canditati che scendono dalla
metro, mentendo su salari e orari.
Pixian, solo casa e azienda per gli operai
Ormai, per conservare la propria manodopera, Foxconn deve vedersela con i
padroni delle piccole fabbriche, che non esitano ad affiggere le loro
offerte di lavoro fino alle porte dei dormitori, né ad allinearsi ai
salari in vigore a Longhua. Approfittando dell’ambiente high-tech
dell’area industriale, questi imprenditori vengono per fabbricare i loro
telefoni, destinati ai modesti mercati delle piccole città o delle
campagne cinesi. «Quello che perdiamo in termini di costo del lavoro, lo
recuperiamo sull’unità di prodotto, perché vendiamo direttamente al
consumatore», spiega un uomo d’affari incontrato nel magazzino della
fabbrica Samzong – naturalmente da non confondere con Samsung. Del
resto, anche i telefoni Kpt, ispirati al Blackberry, e gli Ying Haifu,
simili ai Nokia, sono prodotti a Longhua. Probabilmente nelle stesse
fabbriche «in affitto» pubblicizzate negli annunci dipinti sui muri.
Lasciamo Shenzhen Longhua e il suo universo spietato con il sentimento
che, al di là dei loro rigidi orari di lavoro, Foxconn non abbia più
molta presa sui suoi soldatini dell’elettronica. Tempo libero, sonno,
formazione, spiritualità, alimentazione, potere d’acquisto e
spostamenti: sono tutti domini che gli attori esterni sanno sfruttare,
spesso in maniera predatoria, a volte benevola.
Raggiunto al telefono, Louis Woo, portavoce dell’azienda, conferma
questa tendenza senza condannarla: «Non possiamo più controllare questa
nuova generazione di operai che ha scelto di vivere e realizzarsi
insieme agli altri ragazzi. Sappiamo ormai che la loro ossessione non è
più quella di tornare a casa. Anche se non disdegnano di stare più
spesso con le loro famiglie, vogliono vivere, consumare e realizzarsi in
mezzo a quelli come loro, fra ragazzi».
Forte di questa lezione, il produttore taiwanese ha scelto di proseguire
la sua espansione altrove, verso l’interno del paese, in province
sicuramente distanti dai grandi porti mercantili ma anche ricche di
territori vergine in cui è possibile ripensare un complesso industriale
dalla A alla Z, e dove gli amministratori locali gli stendono tappeti
rossi.
Come a Pixian – a più di duemila chilometri da Shenzhen –, alla
periferia di Chengdu (provincia del Sichuan), dove Danone imbottiglia la
sua acqua Robust e Intel fabbrica i suoi processori. Il 16 ottobre
2009, ossia ancora prima dell’ondata di suicidi del primo semestre 2010,
viene siglato con le autorità del Sichuan un impegno d’investimento
congiunto. Il cantiere prende avvio il 25 luglio 2010, mentre a produrre
si comincia il 30 settembre. Ma, sette mesi più tardi, si verifica
un’esplosione mortale, dovuta a un difetto strutturale del sistema di
ventilazione, secondo un’inchiesta del New York Times, che descriveva
nei particolari le condizioni di lavoro degli operai di Chengdu (7).
Foxconn vi produce ormai dodici milioni di iPad a trimestre, vale a dire
i due terzi della sua produzione totale, ripartiti fra tre officine e
cinquanta linee di produzione spalmate su un perimetro di quattro
chilometri quadrati.
Qui non ci sono né rumorosi bordelli né pacchiani karaoke, né pubblicità
luminose né fabbriche di telefonini contraffatti o chiese evangeliche:
gli operai si spostano docilmente in una città-fabbrica nuovissima,
asettica, di architettura neostaliniana. Strade a doppio senso e tre
carreggiate collegano le massicce officine A, B, C alle porte dei
dormitori 1, 2 e 3. Il servizio navetta, di giorno come di notte, è
garantito dagli autobus articolati della città di Chengdu – a lenta
andatura, in modo da sfuggire agli autovelox. Con betoniere, camion di
trasporto merci e auto della polizia, sono gli unici veicoli che si
vedano circolare a Pixian.
Questo complesso industriale appena nato, costruito in tempi record –
settantacinque giorni – da Jiangong, una società controllata dalla città
di Chengdu, si colloca in una nuova zona franca, esente dunque
dall’imposizione fiscale. Il trasferimento di Foxconn viene descritto
nella stampa locale come «il progetto numero 1 del governo del Sichuan».
Solo per la bella faccia di Ming Gou, le autorità hanno costruito sei
nuove strade, due ponti, 1,12 milioni di metri quadrati di superficie
abitabile per gli operai. Hanno speso 2,2 miliardi di yuan in indennità
di espropriazione per diecimila famiglie, i cui quattordici villaggi
sono stati rasi al suolo nell’agosto 2010 (8).
Le nuove officine Foxconn non sono nient’altro che austere costruzioni
bianche perforate da migliaia di piccole finestre oscurate. Si stendono
lungo due strade dai nomi evocativi: Tian Sheng lu («Cielo Vittoria») e
Tian Run lu («Cielo Profitto»). Attorno alle fabbriche non è stata
sistemata alcuna rete antisuicidio, come c’è a Longhua. La manodopera,
più giovane, è sicuramente peggio pagata – il salario base è di 1.550
yuan contro i 1.800 di Shenzhen –, ma è in gran parte del posto e può
fare visita alla famiglia più facilmente.
«Culturalmente, Chengdu non ha niente a che vedere con Shenzhen, che è
una città composta esclusivamente di immigrati. La nostra fabbrica di
Longhua conta per esempio un 20% di giovani provenienti dall’Hunan e un
10% dal Sichuan. Ma qui, i lavoratori del Sichuan sono tra loro e sono
quindi più rilassati. E poi la gente del Sichuan è nota per il suo
calore umano. Ci sono talmente tante sale da tè», si entusiasma Louis
Woo, portavoce di Foxconn. Che i suoi operai trovino però il tempo di
andare lì a svagarsi non è sicuro.
Secondo le testimonianze raccolte sul posto, le autorità locali si
incaricherebbero loro stesse del reclutamento – una prova di quanto a
Chengdu abbiano preso sul serio questo progetto. A ciascun villaggio
della provincia del Sichuan vengono anzi imposte delle quote di
lavoratori da fornire a Foxconn. «Ho accettato l’offerta del capo del
partito del paese in cambio di un’agevolazione amministrativa: ha fatto
accelerare le mie pratiche di matrimonio con la mia compagna, originaria
di una provincia vicina. Ma non si tratta di lavoro forzato. Posso
licenziarmi quando voglio, senza che il nostro paese smetta di ricevere
le sovvenzioni dal governo della provincia», dice Yang, addetto ai
magazzini.
Perfino gli studenti di informatica sono stati mobilitati per fare i
loro stage alla Foxconn. «Questi metodi sono provvisori e corrispondono a
una fase iniziale dello sviluppo. Gli operai non ci conoscono e non
verrebbero da sé a fare la coda al centro di reclutamento. Ecco perché
bisogna andarli a cercare», dicono alla Foxconn. Nell’azienda, il
turnover è elevato. Ventiquattromila operai (cioè quasi il 7% della
manodopera ogni mese) a Shenzhen Longhua, afferma il Daily Telegraph (9).
A Chengdu potrebbero essere molti di più: «Quando alcuni amici hanno
hanno deciso di andarsene, un direttore della risorse umane ha chiesto
loro di aspettare. Doveva gestire già quarantamila lettere di
licenziamento», ci confida un lavoratore.
Battezzati «Gioventù gioiosa», ma riempiti di guardie, i dormitori di
Pixian hanno fino a diciotto piani. Ragazze e ragazzi sono separati.
Queste strutture si trovano ripartite tra i quartieri di Deyuan,
Shunjiang e Qingjiang. Ciascun complesso di dormitori è dotato di mensa,
un supermercato senza alcolici in vendita, internet café, distributori
di biglietti, tavoli da ping-pong e campi da badminton. Ciascuna
camerata ospita da sei a otto persone – per un affitto mensile di 110
yuan – e dispone di una sala con cabine doccia e bagni. Per far
risparmiare tempo ed energie ai lavoratori, a recuperare il bucato è
un’impresa di pulizie.
Apprezzatissimo dai giovani operai di Pixian, l’internet café offre un
arredamento curato, aria condizionata e comode poltrone. Gli schermi dei
computer ostentano il logo Foxconn. Il prezzo della connessione
raddoppia dopo un’ora, inducendo gli operai a non trattenersi troppo a
lungo. Ad avere diritto di cittadinanza sono solo negozi in franchising
simili a quelli delle grandi città, come Family Mart. «Una volta fuori
dalla stanza o dalla fabbrica, la vita diventa piuttosto cara», si duole
Cheng, la cui giornata è regolata come uno spartito musicale.
«Mi alzo alle sei, prendo l’autobus alle 6.40 e inizio la mia giornata
in fabbrica alle 7.30. Siccome lavoro fino alle 20.30, arrivo a casa
solo alle 21.10. Così mi rimane un’ora da sfruttare prima dello
spegnimento delle luci». Fuori, i venditori ambulanti di spaghetti e
spiedini giocheranno tutta la notte al gatto e al topo con i poliziotti
alla guida di macchinine per campi da golf.
È lo stesso genere di paesaggio che hanno realizzato nella periferia di
Chongqing, a trecento metri da Chengdu. Foxconn trasferisce qui una
parte del suo reparto stampanti Hp di Shenzhen. La produzione stenta a
mettersi in moto, e già le navette dell’università di Chongqing
conducono la marea di studenti requisiti per uno stage obbligatorio in
fabbrica. Probabilmente si uniranno ai diecimila operai del reparto Hp
di Shenzhen che hanno accettato di tornare nella loro provincia natale,
come Pan Fang, 22 anni, e i suoi amici. La loro nuova stanza conta otto
letti numerati e otto sgabelli. La prima impressione è positiva: «Qui
l’aria è meno inquinata, e Foxconn ci ha fatto installare l’acqua calda,
il climatizzatore e anche un televisore». Sanno già che il loro lavoro
sarà lo stesso: assembleranno seicento stampanti al giorno ciascuno. E
sperano che anche il loro salario seguirà...
note:
* Giornalista, Pechino.
(1) 1 yuan = circa 0,12 euro.
(2) Tra gennaio e maggio 2010, tredici giovani operai hanno tentato di mettere fine alla propria vita; ci sono riusciti in dieci. Si legga Isabelle Thireau, «I “cahiers de doléances” del popolo cinese», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2010.
(3) Alcune tra le persone incontrate non hanno voluto dare il loro nome, spesso per timore di rappresaglie.
(4) «Apple Supplier Responsibility Report. 2012 progress report», Apple.com
(5) «“Soft welfare” needs supervision», China Daily, Pechino, 26 aprile 2012.
(6) Dal 2009, il salario base dei 350.000 operai di Longhua – esclusi premi e straordinari – è raddoppiato, passando da 900 a 1.800 yuan.
(7) «In China, human costs are built into an iPad», The New York Times, 26 gennaio 2012. L’inchiesta ha indotto la Apple ad aderire all’organizzazione non governativa Fair Labor Association.
(8) Nanfang Zhoumo, Canton, 10 dicembre 2010.
(9) «“Mass suicide” protest at Apple manufacturer Foxconn company», The Daily Telegraph, Londra, 11 gennaio 2012. (Traduzione di Fran. Bra.)
* Giornalista, Pechino.
(1) 1 yuan = circa 0,12 euro.
(2) Tra gennaio e maggio 2010, tredici giovani operai hanno tentato di mettere fine alla propria vita; ci sono riusciti in dieci. Si legga Isabelle Thireau, «I “cahiers de doléances” del popolo cinese», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2010.
(3) Alcune tra le persone incontrate non hanno voluto dare il loro nome, spesso per timore di rappresaglie.
(4) «Apple Supplier Responsibility Report. 2012 progress report», Apple.com
(5) «“Soft welfare” needs supervision», China Daily, Pechino, 26 aprile 2012.
(6) Dal 2009, il salario base dei 350.000 operai di Longhua – esclusi premi e straordinari – è raddoppiato, passando da 900 a 1.800 yuan.
(7) «In China, human costs are built into an iPad», The New York Times, 26 gennaio 2012. L’inchiesta ha indotto la Apple ad aderire all’organizzazione non governativa Fair Labor Association.
(8) Nanfang Zhoumo, Canton, 10 dicembre 2010.
(9) «“Mass suicide” protest at Apple manufacturer Foxconn company», The Daily Telegraph, Londra, 11 gennaio 2012. (Traduzione di Fran. Bra.)
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