Ma l’articolo che
prendiamo in considerazione – quello dell’8 maggio scorso - è utilissimo per
fare il quadro complessivo della situazione attuale nel settore sia in Italia,
che per riflesso anche a livello internazionale.
Già il titolo vuole
essere abbastanza forte, d’impatto: “Scossa violenta che spazza
l’autosufficienza produttiva”. Per sintetizzare, la scossa è quella del passaggio
dal motore a scoppio (termico) a quello elettrico, passaggio considerato
mortale.
Si tratta di “una
transizione tecnologica e concettuale, strategica e di mercato verso
l’elettrico che sta modificando la natura stessa del fare auto, in tutto il
mondo. E che, in Italia, non è stata ancora bene recepita nella sua
forza disarticolante: almeno questo si intuisce vedendo le policy di corto
respiro approntate dall’Esecutivo Draghi (tutte a favore dell’acquisto
dell’elettrico e dell’ibrido nei concessionari, nulla pro innovazione e
produzione nella transizione tecnologica dell’Italia delle fabbriche)…”
che addirittura “… appare coerente con la tradizione di quindici anni di
Governi dalle più diverse ispirazioni che nulla hanno fatto quando Fca è
migrata all’estero fiscalmente e societariamente e, soprattutto, quando ha
investito poco sulla base produttiva nazionale e nulla sull’elettrico.”
Quindi, mentre la
Fca, ora Stellantis, sempre di proprietà da oltre 100 anni degli Agnelli/Elkann
spreme plusvalore da operaie e operai e incassa miliardi di profitti più i
miliardi a fondo perduto statali, i governi (sempre con i soldi della
collettività) avrebbero dovuto preparare pure le infrastrutture necessarie ad
agevolare la capacità di concorrenza mondiale dei padroni. D’altronde solo i loro
governi e questo si aspettano. Coerentemente, quindi, continua il giornalista,
se “L’Europa è fragile.” dice “L’Italia è fragilissima.”
Il suo
“ragionamento”, che è di fatto in contraddizione con le accuse, parte dal fatto
che tutto sommato in questi decenni la globalizzazione in questo settore ha
avuto un peso relativo e che addirittura si era quasi all’autosufficienza
nella capacità di produrre auto: “Nell’industria dell’auto la globalizzazione
ha sempre avuto una intensità relativa: inferiore, per esempio, a
quella dell’elettronica, dell’informatica, degli elettrodomestici e del tessile.”
I valori di questa autosufficienza sarebbero i seguenti: “Sia la Cina (94% del fabbisogno) e l’India 89%). Sia gli Stati Uniti (85%) il Giappone (quasi il 100%), l’Italia (poco più dell’80%) e la Germania (80%).” Questo “un minuto prima della deglobalizzazione post-Covid e degli effetti ancora da cogliere nella loro pervasività della guerra in Ucraina”.
Quindi saremmo arrivati
a questo da una autosufficienza che negli anni, per quanto riguarda il
motore a combustione classica “ha trovato un suo equilibrio all’interno di
ciascun Paese”, ma “assorbendo beni elementari e materie prime
dall’estero e trasformandoli in semilavorati ‘in casa’, dando peraltro la
possibilità ai carmakers di costruire relazioni con le filiere dei Paesi
vicini.” Questa è “globalizzazione”, cioè integrazione dei mercati,
produttivo e di trasporto, a livello mondiale! Ma quale autosufficienza!
Per cercare conferme
al suo discorso il giornalista chiama in causa altri economisti come “Paul
Krugman in “Geography and Trade” (1992)” che invece lo smentisce: “La
globalizzazione, per l’auto, ha sempre avuto una cifra da ‘Region’, nel senso
assegnato a questa parola” da Krugman, e cioè: “il singolo Paese inserito in
piattaforme produttive di caratura continentale.” Appunto.
Ma per l’autore,
questa specie di paradiso produttivo e cioè “un assetto sostanzialmente
stabile, senza linee di frattura” è stato interrotto “con l‘eccezione
della ultima crisi dei microchip, concentrati per l’80% a Taiwan.”
E siamo tornati
alla globalizzazione, anzi come dice l’esperto alla “… crisi della globalizzazione”
che, secondo lui, sarebbe cominciata con l’ascesa della Cina, “…
proseguita con l’allungamento delle distanze nei trasporti e nella logistica
provocate (anche) dal Covid e accentuata dall’impatto della guerra in Ucraina
su ogni minima particella elementare di qualsivoglia equilibrio…”
A questo si
aggiunge quello che sarebbe in grado di rompere tutto il modello esistente e
cioè l’elettrico, contro il quale cominciano le bordate pesanti, perché
l’elettrico “… disarticola esattamente questa morfologia internazionale
dell’auto. L’elettrico è il risultato di due tendenze, che sarebbe
interessante prima o poi capire nelle loro dinamiche intrinseche: la scelta
di politica industriale della Cina pro elettrico e la decisione
dell’Unione europea di abbracciare il paradigma ecologista bastato
sull’elettrico nella maniera più estrema, senza considerare le nuove
tecnologie che hanno effetti inquinanti molto contenuti (non solo i diesel di
ultima generazione, ma anche l’idrogeno e i nuovi promessi carburanti sintetici) e adottando
un modello univoco di sviluppo dove il costo finanziario e ambientale della
produzione di energia dipende però da mille variabili, differenti da Paese a
Paese.”
Una complicazione
in più in tutto questo, e non di poco peso, viene dal fatto che “le materie
prime all’origine dell’elettrico – le terre rare – sono in misura
preponderante controllate dalla Cina. O perché la Cina le ha nel suo
territorio. O perché si trovano nel sottosuolo di nazioni africane e
asiatiche che ora sono nella sua orbita.”
E, in questo senso,
ogni Paese si sta attrezzando per rispondere alla concorrenza internazionale!
“Non a caso, - dice il giornalista - per preservare i giacimenti di litio
un Paese come il Messico, che ha una significativa vocazione [sulla vocazione
torniamo un’altra volta, ndr] manifatturiera e automobilistica, ha scelto
pochi giorni fa di nazionalizzare le miniere. La nuova criticità dei nuovi
minerali vale per tutti i comparti che, appunto, hanno nelle loro
giunture tecno-manifatturiere e nei loro prodotti le terre rare, che
sono presenti ormai ovunque nell’industria internazionale. Ma vale
ancora di più per l’automotive.”
Per quanto riguarda
l’industria in Italia, la carenza di materiali arriva al 25%: “Secondo le stime
di Assolombarda in Lombardia un’industria su 4 ha impianti e materiali
insufficienti per produrre: nel pre covid era 1 ogni 100”.
Ciò significa che
“L’autosufficienza dei beni intermedi viene dunque messa a rischio
radicalmente.” E torniamo alla globalizzazione obbligata! Che comprende
anche il “sapere fare”! “… imprenditori e ingegneri, tecnici e operai – non
hanno il sapere fare. Perché il sapere fare dell’elettrico è differente.
E, in questo, [e torna ancora l’accusa al governo, ndr] appare
discutibile la scelta del Governo Draghi. Il quale, in tempi di spesa
pubblica robusta e abbondante, ha orientato tutte le risorse sulla ripresa
degli acquisti finali nei concessionari (a valle) e non sulla evoluzione del
tessuto produttivo (a monte). Il Governo ha promesso un fondo da 8,7
miliardi di euro fino al 2030. Peccato che gli 1,95 miliardi di euro
previsti dal 2022 al 2024 (650 milioni all’anno) vadano tutti in incentivi
all’acquisto, nemmeno una lira, invece, è prevista per la transizione
tecnologica – ricerca e innovazione, nuovi impianti e conversione delle linee –
della filiera dell’auto italiana. Non proprio una visione lungimirante.” Quasi
9 miliardi in una botta sola! Più “lungimirante” di così verso i
capitalisti-imperialista italiani?
I riflessi di tutto questo sugli operai vengono calcolati nella perdita di 600 mila posti! Ma anche questo visto alla maniera dei padroni che parlano invece di “Lavori ‘trasformati’. Una stima di Bcg [Boston Consulting Group] dice che la transizione verso l’auto elettrica spazzerà via 600mila posti ‘tradizionali’ e ne creerà altrettanti nei nuovi ambiti”. Una frase, falsa nel suo contenuto, che vuole essere una “consolazione” per gli operai e un sostegno alle “preoccupazioni” del governo e dei sindacati confederali sulla continua perdita di posti di lavoro!
Nessun commento:
Posta un commento