Come cambia l’economia dopo la pandemia? Ne parliamo con F. Schettino
Francesco Schettino è un economista, docente All’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli e all’Università Popolare Antonio Gramsci di Roma. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni ed è stato uno dei maggiori collaboratori della pregevole rivista marxista La Contraddizione. Anche questo giornale ha ospitato alcuni suoi articoli. Dopo quelle rivolte a Domenico Moro e Alan Freeman, anche a lui, che ringraziamo per la disponibilità, rivolgiamo alcune domande in merito alla fase che si va sviluppando a seguito della pandemia.
Domanda (D). La pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi economica e l’ha inasprita. Per noi, però, la pandemia è intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale per cui essa non può essere considerata l’unica responsabile dei problemi economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa crisi?
Risposta (R). Senza ombra di dubbio non si tratta di una nuova crisi. In altre parole, la Covid-19 ha agito da amplificatore della crisi da sovrapproduzione che già nel 2008 era esplosa in tutta la sua violenza - pur traendo origine almeno all'inizio degli anni
70. Del resto sarebbe sufficiente leggere i rapporti delle istituzioni internazionali - FMI in primis - che tra la fine del 2019 e l'inizio dell'anno in corso, vedevano il 2020 come l'annus horribilis considerando gli spaventosi passaggi a vuoto già avvenuti sui mercati finanziari statunitensi - e dunque mondiali - alla fine di settembre 2019.D. La pandemia ha messo in evidenza alcuni grandi limiti della produzione snella e dell’internazionalizzazione dei processi produttivi. Pensi che questa crisi possa indurre le grandi aziende ed i loro governi a rivedere questo modello?
R. Molto
improbabile. Il mercato è mondiale e la tendenza al monopolio è
amplificata in momenti di crisi. È naturale che i piccoli produttori
soccombano dinanzi alla marcia inarrestabile dei too big to fail.
L'internazionalizzazione non è più una scelta strategica ma uno
stato di cose dettato proprio dallo sviluppo del capitale mondiale
nella fase imperialistica attuale.
D.
Pur con
differenze tra gli Stati, il sistema mondiale continua ad essere di
tipo capitalistico. Pertanto, gli imprenditori non possono che
affrontare la crisi scaricandola sui lavoratori e innescando un
processo di centralizzazione che vede i grandi capitali fagocitare i
più piccoli. Quale ti sembra la strategia dei grandi gruppi
transnazionali per recuperare profitti e quali le misure
concretamente adottate per realizzarla?
R. La
conflittualità in fasi di crisi si inasprisce in doppio senso. Tra
capitali e tra capitale e lavoro. La prima si svolge con lo scontro
tra grandi capitali o anche nel dominio del grande sul piccolo (e la
conseguente acquisizione). Quindi, per recuperare profitti, in una
fase in cui con difficoltà il plusvalore si trasforma in profitto
proprio per l'eccesso di sovraproduzione, da una parte si investe in
capitale fittizio (ossia speculazione, bolle finanziarie) dall'altra
si deregolamenta il mercato del lavoro per ottenere quote maggiori di
plusvalore, radice del profitto.
D.
Come giudichi
la reazione dei lavoratori che vivono in questo paese, dei loro
sindacati e dei partiti che dovrebbero rappresentarne gli interessi?
R. Se
parliamo di confederali e partiti presenti in parlamento, direi
proprio nulla. Se vediamo i sindacati di base e piccoli movimenti,
qualcosa si muove speriamo nella direzione auspicata.
D.
Pensi che sia
vincente una strategia che unifichi le rivendicazioni dei lavoratori
dipendenti con quelle delle altre classi, inclusa la piccola
borghesia, che stanno pagando il prezzo di questa crisi?
R. Ovviamente;
ma le modalità con cui farlo sono ben lungi da esser scovate, specie
se si considera che la classe dei lavoratori dipendenti è sempre più
disgregata e priva di coscienza di classe, appunto.
D.
La crisi ha
fatto tornare all’ordine del giorno un modello capitalismo dove lo
Stato non ha più soltanto il ruolo di controllore ma anche quello di
imprenditore, anche se in Italia e in molte altre nazioni lo Stato
pare svolgere prevalentemente una funzione assistenziale verso il
capitale, socializzandone le perdite. Come giudichi questa svolta?
R. Non
si tratta di una svolta. È una forma, con poco stile, di Keynesismo,
stampella a chiamata del capitalismo. Lo stato che agisce come
capitale non cambia nulla nella logica del sistema.
D.
Tra le misure
adottate da vari governi c’è il reddito di emergenza (o come lo si
vuole definire). Noi pensiamo sia una risposta indispensabile per chi
ha perso fette importanti di salario durante la chiusura delle
attività ma non può essere la strategia da perseguire anche dopo
l’emergenza, quando bisognerà puntare a creare posti di lavoro e a
ripartire equamente il lavoro attraverso la riduzione dell’orario.
Tu che ne pensi?
R. Condivido.
D.
Draghi ha
proposto di rispondere all’emergenza in atto trasformando il debito
privato in debito pubblico e anche le istituzioni europee non sono
più così intransigenti e hanno allentato di gran lunga la stretta
verso i paesi indebitati. Finita l’emergenza sarà possibile tenere
sotto controllo i conti pubblici e a quali costi per i lavoratori?
R. Socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Questo è il mantra delle istituzioni, oltreché di chi le movimenta, i capitalisti. Ovvio che tra qualche anno pagheremo in maniera salata il conto di questo indebitamento crescente.
D. Dato per scontato che tu condivida con noi la necessità di superare il modo di produzione capitalistico, necessità divenuta ancora più impellente alla luce delle nuove problematicità emerse a seguito del Covid-19, ci poniamo la questione di affrontare alcuni nodi della crisi attuale, pur nell'ambito dell'attuale sistema capitalistico, in un senso che vada verso una maggiore equità e soprattutto verso un accumulo di forze per poter resistere all'attacco del capitale e prospettare soluzioni di tipo socialista. Secondo te esistono modi di affrontare l'emergenza, di rilanciare le attività produttive e di potenziare i servizi pubblici in alternativa all'indicazione di espandere il debito pubblico e di socializzare quello privato?"
R. Non bisogna illudersi. La macchina del debito pubblico è la più grande leva dell'accumulazione capitalistica, come ricordava Marx. In tale maniera i privati divengono i principali azionisti dello Stato e ne detengono, ove necessario, ancor di più le redini. È un sistema che alimenta profondamente il capitale e lo tiene in piedi favorendo le classi dominanti e, dunque, determinando delle perdite incalcolabili e spesso irrecuperabili per i lavoratori e le altre classi sfruttate. Proprio per questo, se il sistema non si cambia, misure alternative non hanno senso. Quello che ha invece molto più senso è cercare di capire come si forma il debito, creare delle commissioni di audit in modo da esercitare un controllo popolare sulla spesa pubblica e su come quote di salario attraverso la tassazione vengono trasferite tout court proprio attraverso l'agire dello stato capitalista. Creare coscienza di quello che accade e non farsi sopraffare da quella che giustamente Engels chiamava "superstizione dello Stato" è fondamentale. Stato vs mercato è infatti una finta dicotomia tutta interna alle teorie borghesi come se il socialismo potesse calcolarsi a percentuali di intervento pubblico nel sistema di capitale. Se così fosse, del resto, dovremmo ammettere che il ventennio fascista ha rappresentato l'esempio di socialismo più avanzato della storia d'Italia. Una evidente aporia.
Pertanto, riuscire a entrare nelle maglie del sistema del debito, mostrare che molti miliardi che vengono regalati sotto forma di interesse – e pertanto detratti da quote di salario indiretto ossia di scuola, sanità e servizi pubblici in generali – senza che talvolta siano legittimi proprio i contratti precedentemente stipulati (si veda ad esempio quel che sta accadendo in merito in America latina) è di fondamentale importanza perché mostra quel che c'è dietro il "non ci sono i soldi"; "i parametri dell'Europa non ce lo permettono": una grandissima accumulazione di capitale che va oltre il consueto meccanismo di sfruttamento e di accaparramento di quote di plusvalore nel processo produttivo e di profitto in quello complessivo.
Infine, mi preme sottolineare come possiamo e dobbiamo riprendere in mano strumenti della nostra tradizione come quello della pianificazione del sistema economico che può e deve rappresentare una vera alternativa all'anarchia del capitale.
D. Nonostante l’emergenza, è durata mesi a livello Ue la trattativa sui meccanismi, l’entità, le modalità e i tempi di restituzione o meno degli aiuti agli stati membri. È adeguata la risposta europea alla gravità della situazione? È opportuno mettere in campo la rivendicazione di un’uscita dell’Italia dall’Ue (e quindi dall’euro)?
R. Secondo me parlare dell'uscita da Ue o dall'Euro non ha senso ora come non l'ha mai avuta neanche prima (non approfondisco ma ho scritto diversi articoli sulla questione). L'apparente incapacità delle istituzioni è il riflesso di una classe dominante europea falcidiata da conflitti molto pesanti.
D. Ci sono paesi che hanno adottato politiche economiche coerenti con gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari?
R. Direi di no, sebbene le scelte della Repubblica popolare cinese - per quanto molto complesse da comprendere sino in fondo - continuano a stimolare molto il dibattito.
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