Le “fate ignoranti” di Torino di Marco Revelli
Giuro
che non volevo credere ai miei orecchi lunedì sera quando ho sentito
a Otto e mezzo, una delle magnifiche sette madamine torinesi
“organizzatrici” della manifestazione in Piazza Castello, Patrizia
Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche
tecniche e ambientali relative alla discussa linea del TAV Torino Lione.
Ha detto proprio così: “posso assolutamente dire che non siamo, né io
né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito
degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera”.
Il
fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici
Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa,
ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e
ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si
sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della
Regione. E ora sappiamo che quell'”entrata nel
merito” con quella
perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei
dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un
atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel
valore metafisico dell’opera. Esattamente all’opposto del movimento
contro cui tutte quelle persone sono state chiamate in piazza, il
movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di
vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici
dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi
e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e
dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua
opposizione .
Se un aspetto ha
colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica –
politologica, sociologica, antropologica -, di quel movimento, è stato
la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica
presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a
cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me
personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi
di Venaus quando incominciai a osservare la Valle, la competenza non
solo degli “attivisti” e dei promotori dei Comitati e delle
manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di
famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle,
pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e
trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il
loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di
sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità
delle acque e sulle polveri sottili. Nessuno di loro si è mai sottratto
al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che
nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle
donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby“, sorta di nuovi
barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla
di Piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa
parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica
intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia
su scala allargata.
Esemplare,
d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza
reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a
proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad
Agorà: “Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui
intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono
comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che
lascino vivere noi.”. Giovanna Giordano detta “Nana” dagli amici,
nominata sul campo da Repubblica “madamina di ferro, informatica e
nonna” , nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini
refrattari – stanno nella loro Valle, dove vorrebbero che li si “lascino
vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli
altri, mentre “noi” – il NOI di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in
città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo
che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo
esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano.
Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”.
Ma si potrebbe anche evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io
sono io e voi…”. In quel “Che lascino vivere noi!” (abbandonando le case
“loro“) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona.
Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su
di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria
rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a
Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo
gusto” proposto come modello estetico assoluto.
Certo,
si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione
un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una
voce dal sen fuggita -, ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in
realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di
buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte
più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da
quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se
stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità
propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa
sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni
dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano
le ragioni – irrilevante. Altro che Cittadini con il senso del dovere
di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo)
su “La Stampa”. Un esempio per tutti: il Presidente della Camera di
Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di
resipiscenza che “La Città si è formalmente espressa sulla Tav, non
credo ci sia molto da discutere”. Sì, proprio così: non crede che ci sia
più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la Città
si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora
un qualche senso dovrebbe voler dire seguendo una qualche procedura di
legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la
deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o
meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino Città No-Tav. E che i
20 o 25 o 30mila di Piazza Castello sono pressoché un decimo dei
torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e
quella Giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche
solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio
di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.
Il
problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante,
per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la
preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante
campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini Stampa e Repubblica,
appartenenti ora il medesimo gruppo finanziario assai interessato
all’Opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce
fuori dal coro, non un dato (*), una documentazione, una valutazione
indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente
argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani
come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme
fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini
chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le
merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già
un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica,
che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che
i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono
in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada. Che supposto che si
facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St.Jean
de Morienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia
non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora
intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di
base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della Valle ma anche di
Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in
territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del
mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri
politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le
ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non
esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla
Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tante decantate merci
dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in
camion per andare verso ovest (dove? mah?)…
E’
assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella
manifestazione sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e
delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due
anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe
assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non
mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in
quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla
promozione dell'”evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta
imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una
città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello
mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale
potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea
vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto -, cioè a un
simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un
mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un
uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti. Fa male vedere che
gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori
orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano
purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o
dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla
creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” –
la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha
gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa
in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il
Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla
finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis,
ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini,
aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli
ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore
finale di tutto ciò.
Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.
di Marco Revelli da https://volerelaluna.it/
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