Le elezioni amministrative e secondariamente i referendum del 12 giugno hanno avuto caratteristiche specifiche e rappresentano un test minore della situazione politica generale.
In esse non erano in discussione i grandi temi che toccano i proletari e le masse popolari, il carovita, la mancanza di lavoro e una condizione di vita, dalla sanità alla scuola, dalla casa ai trasporti, che comunque è in rapido peggioramento per la crisi generale aggravata dalla pandemia - peraltro ancora in corso e che in parte ci viene nascosta – e che ha avuto poi nella guerra in Ucraina un salto di qualità i cui effetti sono annunciati ma ancora lontano dall’essersi manifestati in tutta la loro pesantezza, con l’eccezione dell’aumento della benzina e dei prezzi conseguenti, bollette, ecc.
Questo non vuol dire che queste elezioni non hanno un’influenza politica più generale, che non va esagerata ma neanche trascurata.
Sul piano dei dati non è difficile orientarsi e tutti i giornali li espongono diffusamente.
Il governo Draghi da queste elezioni ne esce indebolito, perché il partito dominante della sua coalizione, al di là delle dichiarazioni di Letta e del gioco dei numeri, ha perso nelle due grandi città principali, e nel panorama nazionale la situazione è più o meno la stessa.
Il socio politico del PD, il M5S ha continuato il suo crollo verticale che lo trasforma in un partito sovradimensionato in parlamento e nel governo.
Dentro la grande coalizione, i due partiti di centro destra, di Salvini e Berlusconi, hanno
perso; all’esterno della coalizione preme la Meloni che richiede di far cadere il governo, sia ai suoi alleati di coalizione che sono nel governo sia aumentando le proprie pretese che su alcuni punti, vedi la guerra, significano essere parte di un appoggio esterno influente.Questa sconfitta parziale alimenta la crisi del governo e le sue contraddizioni interne, indebolisce il suo peso in un parlamento che è pur sempre docile, e, legato al massiccio astensionismo di cui parliamo a parte, mostra un approfondirsi comunque del distacco tra masse e governo e un indebolimento del consenso a Draghi.
Da questo punto di vista, noi che vogliamo la caduta di questo governo, potremmo quasi considerare positivo l’esito elettorale. Ma come proletari e comunisti non facenti parte del teatrino politico e dei commentatori da giornali o da bar, dobbiamo vedere l’altro polo della situazione.
Nessuna forza di carattere progressista e democratico coerente, che guardasse alle richieste dei lavoratori, sia pure molto timide, o che fosse di chiara opposizione alla guerra, si è sostanzialmente presentata alle elezioni, e là dove qualcuno ci ha provato, non avendo collegamenti reali con le lotte né radicamento sociale effettivo, non ha ottenuto alcun risultato.
Quindi, perchè dovremmo essere contenti?
Alcuni pure nel nostro campo si dichiarano o strillano addirittura all’astensionismo. Noi che pure tali siamo stati in queste elezioni non essendoci nessun altra possibilità, sosteniamo da mesi una posizione differente.
A noi di registrare il distacco tra Stato, Istituzioni e masse, o, come si dice, tra politica e cittadini, interessa sempre meno. Finora tutto questo non ha portato ad alcun risultato, né sul piano dell’azione del governo e dei partiti e meno che mai nell’alimentare la lotta di classe, il protagonismo delle masse. Questa sorta di “rivoluzione passiva dal basso” che l’astensionismo dovrebbe rappresentare, è solo un fenomeno principalmente di sfiducia, rabbia, ma sostanziale passivizzazione delle masse.
Non c’è neanche una coincidenza tra operai, proletari in lotta con azioni d’avanguardia e campo astensionista.
E pur affermando che la lotta e non il voto è la strada da seguire, dobbiamo dire con chiarezza che oggi è il tempo non della passività, ma della ribellione, dell’organizzazione. Che solo la ribellione proletaria, l’organizzazione proletaria, la ricostruzione di un partito proletario, di un fronte unito e di una risposta forte e con la forza agli attacchi sociali, politici e alla repressione, alla marcia guerrafondaia, servono a cambiare le cose, ad invertire la tendenza e a lavorare per risultati concreti e un radicale cambiamento.
Questo voto dimostra che poco di tutto questo è presente nell’attuale situazione.
Dobbiamo avere fiducia nelle masse e guadagnarci con l’azione quotidiana la fiducia delle masse, coltivare gli embrioni di lotta e organizzazione e unirli ed estenderli. Ma sempre avendo chiaro lo stato delle cose in materia di livelli di coscienza e rapporti di forza.
Circa i risultati nelle città, al di là del dato comune che più o meno è già indicato nell’analisi generale, esistono specificità.
Su questo evidentemente la città più importante è stata in queste elezioni Palermo, dove si sono visti sfumare come neve al sole gli anni dipinti come progressivi e trasformativi della giunta Orlando, un misto di populismo e buon senso che ha schivato di aggredire i problemi reali su tutti i campi, e ora lascia il campo ad una giunta reazionaria e mafiosa che certo è peggio. Una giunta che ha raccolto tutto il consenso possibile di un sistema non intaccato.
Ma anche se si tratta di una giunta, diremmo vecchia, sponsorizzata piuttosto ufficialmente da Cuffaro e Dell’Utri, non vuol dire che è vecchia e statica, e che il ruolo economico, politico, culturale e strategico di Palermo, della Sicilia e delle forze borghesi, medio e piccolo borghesi che ne compongono il ceto economico politico, non siano pronte a immettersi nelle grandi trasformazioni che a Palermo come a Napoli premono e intorno alle quali la borghesia ha bisogno di unirsi e non frammentarsi in bande e far tornare le stagioni eclatanti dei magistrati uccisi, ecc. ecc.
Il costo più alto che i proletari e il movimento operaio e comunista paga è l’avanzata deindustrializzazione, la riduzione della classe operaia e del suo peso sociale e politico che lascia le forze democratiche e progressiste, che pur a Palermo esistono, prive di orientamento e in mano ad oscillazioni e confusioni che richiedono un’attenta lotta/critica/trasformazione di parte proletaria. Certo, a fronte di questo le lotte proletarie in corso sono assolutamente insufficienti e lo stato dei centri sociali è sostanzialmente comatoso; ma questo deve essere visto come una sfida e un’opportunità, un impegno necessario per costruire organizzazione politica autonoma, fronte di classe e espansione di settori di nuovo proletariato, nuovi poveri che di certo Palermo e la Sicilia è tuttora piena e di cui è latente la ribellione.
A Taranto si è consolidata una giunta con un nuovo blocco di interessi, industriali, turismo, parassitismo culturale, di carattere assolutamente trasversale, subordinata politicamente al populismo reazionario e bari-centrico di Emiliano che marginalizza e riduce a percentuali secondarie le grandi istanze presenti in città che si muovono intorno alla vicenda Acciaierie/inquinamento, e che sono insieme al dominio della Marina Militare gli aneli della lotta di classe e gli elementi di centralità nazionale di questa città.
Il voto del 12 giugno mostra a tutti con chiarezza che altra è la strada da perseguire, e che i nostri compagni a Taranto stanno perseguendo.
Sempre di più il problema non è essere “contro la Giunta” ma contro la borghesia, lo Stato e il governo, per la lotta di classe e il potere operaio e popolare.
proletari comunisti
15 giugno 2022
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