Traiamo questo scritto dal libro di Maria Antonietta Macciocchi: "DALLA CINA dopo la rivoluzione culturale", che negli anni della Rivoluzione culturale proletaria in Cina fece un lungo viaggio, visitando le fabbriche cinesi e parlando con gli operai.
Non si tratta, quindi di "idee", ma di una dimostrazione attraverso i fatti come sia possibile in una società socialista, portando avanti la rivoluzione in tutti i campi, che gli operai trasformino radicalmente il modo di produzione capitalista, i suoi valori e le concezioni a base dello sfruttamento, della divisione del lavoro e del lavoro salariato.
QUESTO E' AVVENUTO IN CINA, MA PUO' AVVENIRE DOVUNQUE, ANCHE NEL NOSTRO PAESE, se la classe operaia prende il potere attraverso una rivoluzione proletaria
La filosofia in fabbrica
L'ipotesi cinese
Nelle
fabbriche la rivoluzione culturale costituisce l'attacco durissimo a
tutta la scala dei valori insiti nella divisione tradizionale del
lavoro, allo schema organizzativo della vita produttiva, ereditato
dall'industrializzazione capitalistica.
La
lotta tra Mao e Liu Shao-chi si è svolta, forse piú aspramente di
tutto, sul fronte dello sviluppo industriale, come una lotta che
investiva il futuro stesso della Cina.
Liu
Shao-chi sosteneva lo schema classico dell'accumulazione
capitalistica. Egli reputava assurdo sottrarsi alle leggi della
rivoluzione industriale, che comportano un certo tipo di divisione
del
lavoro,
la separazione delle qualifiche e dei compiti, la specializzazione
come molla del progresso, la scala delle responsabilità direzionali
e della gerarchia nella vita produttiva e in quella sociale. Al
vertice di questa piramide manageriale" stavano ovviamente i quadri, i tecnocrati e gli altri specialisti, contraddistinti socialmente dagli alti redditi, e quindi da un livello di vita superiore (case, vacanze, automobili, e magari in futuro negozi particolari dove acquistare il vitto e gli oggetti di consumo). Alla sua base vi era una massa operaia da cui occorreva ottenere il massimo sforzo produttivo, da raggiungersi interessando gli operai alla produzione attraverso aumenti salariali, incentivi materiali, premi, con ritmi e cadenze lavorative sempre piú accentuati.
vertice di questa piramide manageriale" stavano ovviamente i quadri, i tecnocrati e gli altri specialisti, contraddistinti socialmente dagli alti redditi, e quindi da un livello di vita superiore (case, vacanze, automobili, e magari in futuro negozi particolari dove acquistare il vitto e gli oggetti di consumo). Alla sua base vi era una massa operaia da cui occorreva ottenere il massimo sforzo produttivo, da raggiungersi interessando gli operai alla produzione attraverso aumenti salariali, incentivi materiali, premi, con ritmi e cadenze lavorative sempre piú accentuati.
Mao
Tse-tung, fin dal 1960, allorché scrisse La carta del complesso
siderurgico di Anshan, opponeva a tutte le esperienze precedenti di
industrializzazione una nuova audace strada rivoluzionaria: spezzare
fin dall'inizio della società di transizione "non solo
l'assetto giuridico dei rapporti di proprietà del vecchio ordine
sociale, ma anche iniziare fin dalla prima fase di costruzione
socialista la ricerca di rapporti di produzione alternativi rispetto
a quelli dominanti nella produzione capitalistica" (Lisa Foa, Al
ritorno da un viaggio in Cina). I comunisti cinesi sapevano bene che
non è la proprietà statale dei mezzi di produzione che garantisce
la loro gestione socialista, ma che è il sistema di rapporti che si
instaurano all'interno della struttura a diventare decisivo per gli
uomini.
Essi
erano particolarmente colpiti dalla nascita, derivante da quel tipo
di divisione del lavoro, di una casta di tecnocrati specialisti e
competenti, che si sovrapponeva alle masse, umiliandone il ruolo e
l'inventiva, e che finiva per essere loro estranea, come se trattasse
di nuovi padroni.
Per
Mao si era posto invece il problema di scatenare al massimo la
fantasia creatrice degli uomini, il loro senso di fierezza per la
capacità produttiva, non contrapponendoli al tecnico, ma lavorando
sulla stessa linea del fronte, unendo alle capacità specialistiche e
teoriche del quadro la capacità pratica dell'operaio, e sollecitando
la sua proverbiale ingegnosità. A tale proposito va ricordata una
bella riflessione che Che Guevara aveva fatto dopo un viaggio in
Cina: «L'operaio cinese può fare
quello
che fa qualsiasi operaio nel mondo, e in piú quello che può fare
soltanto un operaio cinese." Anche lo studio della filosofia e
lo studio delle opere politiche, immesso dentro le fabbriche, che dà
luogo a un dibattito ininterrotto sul piano teorico e politico,
rappresenta il segno distintivo della fine di una differenziazione
tra trust dei cervelli e lavoratori semplici.
Un
rapporto di produzione alternativo a quello dell'accumulazione
capitalistica
Nel
1958, all'epoca del grande balzo in avanti, allorché lo stesso Mao
aveva elaborato la linea di collettivizzazione nelle campagne, egli
aveva formulato la linea generale per l'industria: "Edificare il
socialismo secondo i princípi, dispiegare tutti gli sforzi; andare
sempre avanti; quantità, rapidità, qualità ed economia." Gli
umili sono i piú intelligenti, la gente nobile la piú sciocca,"
aveva scritto, in una lettera alla fabbrica meccanica agricola di
Tantung, con la coscienza che la Cina poteva contare su un torrente
di energia creativa, se avesse liberato le masse dalla riverenza e
dalla sottomissione ai quadri, alla nuova nobiltà" tecnica. Nel
1960, alla Carta della società siderurgica di Magnitogorsk - vale a
dire al modello di sviluppo industriale sovietico - Mao opponeva
la
sua Carta del complesso siderurgico di Anshan, i cui princípi
conduttori erano i seguenti: “Mettere sempre la politica al posto
di comando; rafforzare il ruolo dirigente del partito; lanciare
vigorosamente dei movimenti di massa; applicare il sistema della
partecipazione dei quadri al lavoro produttivo e degli operai alla
gestione, riformare i regolamenti in ciò che hanno di irrazionale e
assicurare una stretta collaborazione tra quadri, operai e tecnici;
compiere energicamente la rivoluzione tecnica."
Egli
aggiunge che "l'economia è la base, la politica è
l'espressione concentrata dell'economia." Pertanto nella società
di classe non esiste alcuna “organizzazione economica" al
disopra delle classi, la produzione non è mai separata dalla
politica, cosí che Mao conclude: “Il lavoro politico è vitale per
ogni nostro lavoro nel campo economico."
Nel
1966 - all'atto dello scatenarsi della rivoluzione culturale – i
comunisti cinesi rimettono concretamente in discussione, a partire
dall'unità produttiva di base, il ruolo dei dirigenti e dei quadri,
rifiutano la stessa funzione dei tecnici come funzione autonoma
privilegiata e negano ogni separazione tra pratica produttiva e
lavoro manuale. "Uno degli architravi su cui poggia la
rivoluzione
culturale è quello che figura nei sedici punti dell'agosto 1966:
“Fare la rivoluzione e stimolare la produzione”, direttiva che è
sulla bocca, ormai da anni, di ogni operaio o quadro cinese. Essa
consente di capire perché - malgrado la stasi che per qualche tempo
colpi gangli notevoli dell'industria cinese nel corso della
rivoluzione culturale - in Cina non vi è stato il disastro economico
previsto dall'Occidente; anzi, man mano che vinceva la rivoluzione
politica, vinceva
insieme
la rivoluzione nell'industria, e quindi l'incremento produttivo. Il
piano statale del 1970, dovunque siamo andati, era stato in generale
superato o realizzato in anticipo, e la produzione nel 1968-69 era
aumentata del 25-30 per cento. Tuttavia, nel corso della lotta, si
era verificata una spaccatura in due, su opposte linee, degli stessi
operai e non solo dei quadri, una battaglia aspramente combattuta,
all'interno delle industrie come nelle grandi fabbriche di Shanghai e
in quelle di Tientsin, prime due città industriali della Cina. Via
via, però, il revisionismo
di
Liu Shao-chi e dei suoi seguaci (Kao Kang e Jao Shu-shih) veniva
sempre piú chiaramente individuato in questa serie di definizioni e
di parole d'ordine: il revisionismo era “il potere di decisione del
direttore”, “la teoria dell'onnipotenza delle forze produttive",
“il profitto al posto di comando", “il lavoro professionale
al posto di comando", “la tecnica al posto di direzione",
"i premi
al
posto di comando", “la sottomissione degli operai ad un regno
indipendente, quello dei tecnici." Il revisionismo, servendosi
delle imprese industriali, cercava di farne la propria posizione di
forza per reintrodurre il capitalismo: questo il senso della
battaglia svoltasi dal 1960 al 1970 sul fronte dell'industria cinese.
L'altra
componente della linea di Liu Shao-chi era quella del servilismo
all'estero, l'attendismo per l'aiuto tecnico e le macchine straniere,
la cooperazione e l'intervento di altri paesi, e quindi l'ingresso
del capitale straniero che avrebbe fatto arretrare l'econorrìia
cinese, e l'avrebbe subordinata al capitalismo all'imperialismo.
Anche questi sono stati temi larghissimamente dibattuti. Mao anche
qui opponeva l'altra linea, quella di distruggere in germe ogni
dipendenza industriale dall'estero, chiamando i cinesi a “contare
sulle proprie forze", spingendo avanti “1'ardore e
l'iniziativa
delle masse".
Lo
scontro sul fronte industriale cinese, condotto avanti per dodici
anni all'incirca, vede infine vittoriosa, con la rivoluzione
culturale, la scelta alternativa che rimette in discussione, in modo
drastico, tutte le leggi che hanno regolato la vita delle società
industriali.
L'avversione
verso la rivoluzione culturale che si è riscontrata in questi anni
in Occidente appare tanto piú decisa ed estrema in quanto l'ipotesi
industriale cinese la rimette in discussione, non solo, come è
ovvio, nel rapporto giuridico di proprietà dell'antico ordine
sociale, ma capovolge la piramide su cui queste stesse società si
reggono.
Lo
spettacolo che offrono le fabbriche cinesi è per noi, abituati al
ritmo delle industrie capitalistiche, del tutto stupefacente, e in un
primo momento improntata a un certo disordine:
grandi
capannoni appaiono tutti pieni di manifesti a colori, che li
tappezzano da un capo all'altro, pendenti dai fili, oppure affissi
alle pareti, o alle macchine stesse. Sono i dazibao, l'arma tagliente
della rivoluzione" con cui gli operai si esprimono e su cui
scrivono per elaborare questioni politiche, filosofiche, per fare la
campagna contro gli sprechi e gli errori in fabbrica, i piccoli
furti, o le disattenzioni. Dazibao collettivi e dazibao personali. A
fianco della macchina, qualche operaio appoggia il “Renmin Ribao"
cui dà ogni tanto uno sguardo; un ritratto di attore dell'Opera
rivoluzionaria occhieggia sotto il suo vetro, o un foglio su cui
prende appunti per un discorsetto che
ha
in mente. In Cina appare un nuovo tipo di protagonista: l'operaio che
dà peso soprattutto alla politica, e dal primato di questa fa
scaturire l'energia creatrice, questa base costruisce un rapporto di
collaborazione con lo specialista, rapporto che non lo castiga mai ad
ruolo inferiore.
L'operaia
tessile studia filosofia nel lanificio n. 2 di Tientsin (duemila
operai) e come lei studiano 127 brigate filosofiche della fabbrica;
ella mi ha spiegato, con rigore, il senso della dialettica e quello
delle contraddizioni nelle opere teoriche di Mao. Mi ha detto: “Con
la linea di Liu Shao-chi, si diceva che noi operai siamo babbei a
pensare di poter studiare filosofia, che è una scienza per grandi
intellettuali; con la linea di Mao invece ora noi studiamo tutti, ne
traiamo grandi vantaggi applicando la teoria alla pratica nella
fabbrica".
Gli
operai dei cantieri di Tientsin varano navi da 10 mila tonnellate, là
dove i cantieri erano attrezzati per navi da 5 mila tonnellate al
massimo. A Shanghai, le casalinghe, ex sottoproletarie, costruiscono
transistor (circuiti integrati), in una fabbrichetta di un quartiere
periferico. La fabbrica delle macchine utensili di Shanghai - celebre
per la sua università operaia - ha creato macchine di precisione che
raggiungono e superano i piú elevati livelli mondiali. Quantità,
rapidità, qualità, economia. Come calcolare tutto ciò in
statistiche sulla produttività, con una cifra unica? I cinesi
stessi, d'altra parte, ci hanno messo molte volte in guardia sul
valore delle statistiche, che possono essere “manipolate come si
vuole."
L'importante
è quello che si può constatare di persona, entrando nelle
fabbriche. In queste, gli operai non fanno che ripeterci: “Si
diceva che non fossimo capaci, che si fosse degli stupidi senza
livello di conoscenza tecnica sufficiente, e invece guardate quale
problema tec nico abbiamo risolto, che cosa abbiamo fabbricato o
inventato, contando sulle nostre forze, facendo macchine che costano
la metà di quelle straniere, e perfette e forse piú di quelle
straniere talvolta..."
Davanti
a un fenomeno come questo del tentativo organizzare fin dall'inizio
della società di transizione un rapporto di produzione alternativo a
quello capitalista - in una Cina che non è passata per la
rivoluzione industriale capitalistica, abolendo le piramidi
gerarchiche ben note che s'incentrano su un solo uomo responsabile,
dal direttore unico dell'azienda al rettore universitario, rifiutando
la scala a pioli delle competenze e delle mansioni, per realizzare
l'unità tra teoria e pratica, tra capacità tecniche e capacità
produttiva - è sbagliato dire che si tratta di un fenomeno di
volontarismo egualitario, o di spirito fideistico, di nuova
religiosità, come si sostiene dalla nostra parte del mondo.
Dal
rovesciamento dei criteri precedenti, nascono gli organismi
collettivi di gestione nelle fabbriche – i comitati rivoluzionari -
formati sulla base della triplice unione (rappresentanti delle masse
rivoluzionarie, dei quadri rivoluzionari e dell'esercito popolare)
alla quale si intreccia l'altra triplice (quadri giovani, quadri
medi, quadri anziani). I nuovi organismi, definiti del potere rosso,
alleggeriscono l'apparato dirigente “manageriale" in tutto
l'arco delle aziende, cosí come viene alleggerito tutto l'apparato
amministrativo dello stato, dal centro alla periferia. Questa
riduzione risulta, dai nostri incontri, del 75 per cento. Nel fuoco
della critica, sono stati inghiottiti gli organismi sindacali,
definiti strumento dell'economicismo di Liu Shao-chi, e con
caratteristiche non politiche ma rivendicative. In qualche luogo sono
stati rimpiazzati dai consigli di fabbrica, organismi di massa.
Gli
alti salari sono stati uno dei bersagli della rivoluzione culturale,
a causa delle disparità che si erano create: “All'inizio degli
anni Sessanta, non era raro trovare dirigenti, segretari di partito
nelle fabbriche con salari da 300 e piú yuan, e le prime attrici
dell'Opera di Pechino fino a 3000 yuan". Nelle dieci fabbriche
da me visitate i salari vanno da un minimo di 46 yuan ad un massimo
di 110-120 yuan. In generale, la differenza fra un operaio e un
tecnico qualificato appare per ora di 1-2,5 al massimo.
Scrive
Mao: “Le distanze fra i redditi del personale del partito, del
governo, delle aziende, delle comuni popolari, da una parte, e i
redditi delle masse popolari dall'altra, devono essere razionalmente
e gradualmente diminuite e non aumentate. Il personale non deve
essere indotto ad abusare del suo potere e a godere speciali
privilegi".
Questo
fatto è tipico del processo rivoluzionario in atto in Cina, dove si
vuole scartare ogni precipitazione, onde evitare, per esempio, che
l'egualitarismo, anziché essere una struttura portante,
consapevolmente e politicamente vissuta da tutti, si risolva in un
demagogismo egualitario calato dall'alto. Perciò la discussione è
affrontata coinvolgendo tutti i protagonisti.
Intanto,
sono stati totalmente eliminati i premi e gli incentivi materiali. In
Cina, la produzione non solo non ne ha sofferto, ma è anzi
aumentata. Il piano statale, i cui obiettivi sono fissati dagli
organismi superiori, si applica dopo una discussione dal basso, in
cui nessuno esagera, ma ognuno si mantiene piuttosto prudente. In
genere, l'obiettivo fissato viene poi superato, grazie all'intervento
creativo delle masse.
Contro
la nuova "barbarie"
La
Cina, dal punto di vista industriale, si presenta come la faccia
alternativa delle società tecnologiche da noi conosciute.
E
a chi replica che ciò avviene perché la Cina non ha ancora
raggiunto il grado di alta industrializzazione di queste, è facile
ritorcere che, proprio nel momento in cui la Cina si avvia verso
conquiste sempre piú decisive nel campo della tecnica - basti citare
il satellite - essa sceglie la strada della socializzazione della
scienza e della tecnica, della collaborazione tra scienziati d'ogni
tipo con lavoratori forniti di esperienza pratica, non come fattore
caratterizzante di una “società di poveri", ma al contrario
come molla di accelerazione dello sviluppo produttivo e dell'ascesa
economica.
Nell'intraprendere
la propria era industriale, abbordando il futuro, la Cina rovescia lo
schema dell'accumulazione capitalistica nota, con la divisione del
lavoro che ne discende, oltre che la differenziazione tra industria e
agricoltura, con la rapina della prima sulla seconda, o comunque con
la subordinazione delle campagne allo sviluppo industriale. Rifiutare
l'adorazione del “vitello d'oro"
della
tecnica ultrasviluppata significa anche, per la Cina, rifiutare il
modello americano che continua ad essere il piú possente e attraente
del mondo industrializzato. Le specializzazioni “tecnologiche"
hanno per i cinesi non il fascino del "frutto proibito",
ma, al contrario, quello del timore di una nuova barbarie, che pieghi
gli uomini alla macchina industriale, e li renda di questa
schiavi,
che reintroduca la divisione specialistica di competenze come
divisione di classe, che faccia di alcuni dei privilegiati e degli
altri degli sfruttati, anche col sistema degli altissimi, dei medi e
dei bassi salari, che in definitiva distrugga negli uomini ii piú
grande degli imperativi, quello del primato della politica. Questa è
la sfida della Cina. E non quella dell'aggressione e della guerra.
(CONTINUA)
(CONTINUA)
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