Pubblichiamo stralci di un articolo dal sito Resistenze.
Riteniamo, però, che questo articolo, sia pur utile, non colga la fase attuale della politica del nuovo (vecchio) Ministro Brunetta, espressa in particolare in dichiarazioni televisive. Essa, nel confermare chiaramente le linee di "produttività", "aziendalizzazione", adeguamento della contrattazione a questa logica, afferma pubblicamente una linea che finora era fatta ma non detta e rivendicata: basta concorsi, basta burocrazia... ma all'insegna di che e per quale scopo? Perchè i dipendenti della PA "li scelgo io".
Questa è la politica più pericolosa, che vuole far rientrare, questa volta "legittimamente", il clientelismo, il nepotismo, la concorrenza tra dipendenti/il ruffianamento per la carriera.
Da Resistenze
Brunetta, i sindacati e il nuovo accordo per la Pubblica Amministrazione tra aziendalizzazione del servizio pubblico e colpevolizzazione del singolo
Domenico Cortese e Luca Giovinazzo | lordinenuovo.it
Un governo nato sotto la tediosa e sgradevole retorica della "competenza" non poteva non porre tra i primi punti all'ordine del giorno l'ennesimo appello per una Pubblica Amministrazione "riformata", "rinnovata" e "produttiva"...
Oggi questa è la strada che si intende ancora perseguire e, nonostante qualche cambiamento lessicale nei proclami, si preannunciano contratti peggiorativi per i dipendenti pubblici e una sempre maggiore delega al privato dei servizi essenziali, accompagnati da un falso impegno per l'efficienza del sistema.
Vediamo i principali punti che l'accordo tra il Ministro per la Pubblica Amministrazione del
governo Draghi e i sindacati confederali prevede, analizzandoli passo per passo.Il punto principale del patto per la PA tra governo e sindacati, oltre all'aumento degli stipendi (107 euro medi mensili ai dipendenti pubblici e statali e 334 euro ai dirigenti pubblici), concerne i rinnovi contrattuali relativi al triennio 2019-2021, che interessano oltre 3 milioni di dipendenti pubblici, e annuncia il confluire dell'elemento perequativo delle retribuzioni all'interno della retribuzione fondamentale. L'elemento perequativo, si ricorda, è un'aggiunta in busta paga che serve per sostenere le retribuzioni dei lavoratori di aziende non interessate dalla contrattazione di secondo livello e che non godono di importi aggiuntivi rispetto alla paga base. I primi dettagli da notare, e che potrebbero non essere evidenti dalla descrizione dell'accordo, è che praticamente - annullando l'elemento perequativo - si depotenzia o si annulla la facoltà di usare uno strumento di equità tra i lavoratori, cosa che va a braccetto con la disparità che si crea fisiologicamente tra beneficiari o meno del welfare contrattuale che viene promosso dal patto, come vedremo nelle righe seguenti. Inoltre, i 107 euro mensili di aumento annunciati costituiscono una media tra i diversi settori, il che potrebbe celare anche qui un peggioramento effettivo dell'equità retributiva...
Per comprendere il reale impatto e mettere in prospettiva il significato politico di questo punto occorre, innanzitutto, ricordare che in diversi anni di blocco del turnover (che esiste in vari gradi da inizio anni 20003) la Pubblica Amministrazione ha subito la perdita di oltre 300 mila posti di lavoro con sanità, ricerca ed enti locali che sono stati i settori più colpiti dai tetti di spesa e dalle regole dell'austerità, fattori che hanno portato a contenere la spesa per il personale. Come ha rimarcato lo stesso Brunetta, solo tra il 2019 e il 2020 sono stati persi 190 mila dipendenti, mentre nei prossimi 3 o 4 anni sono previste 300 mila uscite. Tuttavia, non è previsto un esplicito aumento numerico di personale dai nuovi patti...
Anche per quanto riguarda gli aumenti delle retribuzioni occorre mettere le cose in prospettiva: il blocco del rinnovo dei contratti partito nel 2010 è costato il mancato incremento in busta paga di almeno 212 euro lordi al mese... I confederali farebbero bene, dunque, a dosare il loro trionfalismo...
Un passaggio centrale del patto, come accennato, si focalizza sull'efficienza, la modernizzazione e sulla necessità di fondare la PA sulla produttività. Si parla, soprattutto, di merito e orientamento ai risultati come criteri per le premialità retributive, nel solco del modello di gestione privatistica della stessa PA...
Il pericolo intrinseco in tutti i discorsi di tal sorta è, innanzitutto, che il premio produttività a chi "raggiunge gli obiettivi" nella Pubblica Amministrazione, con l'abbassamento relativo delle retribuzioni, sostituisca sempre più quello che un tempo era il normale stipendio. Si tratta, in generale, di una graduale e subdola legittimazione culturale del cottimo, un sistema pericolosissimo...
Per smascherare la retorica della produttività nella Pubblica Amministrazione bisogna, innanzitutto, comprendere che se la PA oggi si può definire "inefficiente" (ovvero incapace di offrire i servizi di cui la popolazione necessita) ciò avviene per almeno tre motivi, che hanno a che fare ben poco con la presunta "pigrizia" dei dipendenti pubblici e molto col fatto che gli enti statali sono gestiti come un'azienda il cui unico scopo è "razionalizzare", si legga "tagliare indiscriminatamente", la spesa. Questo, soprattutto negli ultimi anni, si è tradotto in:
Poco personale negli uffici (l'Italia è il paese avanzato con il rapporto più basso tra dipendenti pubblici e popolazione, senza contare che essi sono il 14% degli occupati, la metà che nei paesi del nord Europa)
Personale pubblico più anziano con età media di 51 anni7 (anche qui vantiamo un bel record a livello europeo). Ciò a conseguenza del blocco del turnover e dell'innalzamento dell'età pensionabile.
Pochi investimenti in tecnologia e innovazioni, derivanti dalle "esigenze" di risparmio a breve termine sopra descritte...
Sotto questa prospettiva, la proposta malcelata di una retribuzione a cottimo nel settore pubblico si rivela pericolosissima. Se, infatti, la retribuzione a tempo è stata quella maggiormente negoziata dalla contrattazione collettiva storica un motivo c'è, ed è l'imputare al datore di lavoro il rischio del rendimento e della produttività del lavoro. Questa forma di remunerazione è stata, nel passato, la preferita dalle organizzazioni sindacali perché garantisce tendenzialmente parità retributiva ai prestatori inquadrati al medesimo livello e perché sottrae il lavoratore a quel continuo "stress da esame" che altre forme quali, appunto, il cottimo o la retribuzione di produttività implicano. Quando si determina la maggior parte o la totalità del trattamento economico in base al tempo di lavoro si sottrae questa quota di retribuzione a qualsivoglia rischio, in considerazione del fatto che il lavoratore subordinato svolge la sua prestazione nell'ambito di un'organizzazione produttiva predisposta da altri e sotto le altrui direttive.
In altre parole, con il cottimo (o il "premio produttività") il lavoratore o la lavoratrice sa quando inizia ma non quando finisce, tanto non è lui/lei a decidere cosa è fattibile e cosa no. E se non si adatta ai ritmi schiavisti è, eventualmente, licenziato/a...
Come questa pandemia ha tristemente svelato, per anni non si è provveduto a formare il personale per essere al passo coi tempi, sia per mancanza di fondi che per volontà delle amministrazioni stesse, esponendo così il dipendente pubblico alla gogna mediatica, facendo pagare ad esso le ire dei cittadini. Fa sorridere, in effetti, la legge 15 del 2005 dove "si incentiva" la PA all'uso della "telematica" (e in linguaggio giuridico incentivare non è una proposta ma una sorta di imposizione), alla luce del fatto, ormai evidente, che hanno in realtà contribuito alla "modernizzazione delle abitudini" dei dipendenti più 15 giorni di lockdown che 15 anni di (mancata) applicazione di quella legge. I dipendenti pubblici, nell'era Covid, si sono letteralmente reinventati un lavoro in pochi giorni, con notevoli difficoltà dettate da un sistema ancora non pronto ad un totale passaggio all'uso della "telematica".
Questa mancanza di investimenti reali nella modernizzazione delle mansioni (che, in mancanza di aumenti sostanziali degli stanziamenti per la PA, continuerà) è uno dei motivi per cui la questione delle "performance" dei dipendenti pubblici è esclusivamente utilizzata per mettere gli stessi in competizione per una fantomatica produttività che risulta discriminatoria nei confronti di alcune figure professionali. Per comprendere il motivo della poca sensatezza dei criteri di "produttività", dettati dalle linee di massima generali e dalla contrattazione locale, basta fare alcuni esempi. Si sentono infatti folli richieste arrivare dai vari uffici per valutare le performance: dal contare le email giunte e mandate da un ufficio, al dire quante telefonate si effettuano ogni giorno o, nei casi di dipendenti coinvolti nella gestione di portali telematici di biblioteche ed enti simili, contare quanti like riceve un post o la pagina gestita, o quante volte gli utenti rispondono ad un post, o le persone che si recano allo sportello. Tutto ciò dovrebbe fare riflettere sul senso di un richiamo alla produttività in ambienti dove si "produce" ben poco ma si offre un servizio la cui risultanza e i cui connotati, come accennato all'inizio, dipendono dal contesto sociale e dagli investimenti nel lungo periodo nel sistema intero...
Nessuna grande sorpresa, visto che da tempo i maggiori sindacati hanno accettato l'offerta di convertire aumenti salariali in prestazioni di welfare contrattuale, senza considerare che i vantaggi più consistenti sono per i datori di lavoro che possono azzerare il cuneo fiscale sulle somme erogate ai lavoratori e dedurre le spese dal reddito d'impresa.
Per il lavoratore sia privato che pubblico, invece, l'agevolazione è solo apparente per almeno tre ragioni: innanzitutto con un aumento salariale, oltre a disporre di una maggiore liquidità, il lavoratore godrebbe di maggiori oneri riflessi tramite la liquidazione e la pensione contribuendo, parallelamente, ad un maggior gettito fiscale per la finanza pubblica; in secondo luogo, aderendo ad un fondo sanitario (al prezzo di un mancato aumento salariale) il lavoratore finisce per pagare due volte per le stesse prestazioni, perché continuerà a sostenere con la fiscalità generale il diritto a ricevere l'assistenza sanitaria pubblica (o più probabilmente si finirà per definanziare questa, dando sempre più potere a chi deve fare profitto); infine, della somma versata al fondo il 40-50% non può tradursi in servizi perché variamente assorbito da gestione amministrativa11, fondo di garanzia o oneri di ri-assicurazione e da eventuali utili della compagnia assicurativa.
Il Patto, in conclusione, è dunque funzionale ad un modello di Pubblica Amministrazione sempre più simile ad un privato, con la stessa dinamica di allargamento delle disuguaglianze tra lavoratori e tra fruibilità dei servizi nei diversi luoghi del Paese. Servizi sempre più paragonati ad una merce la cui produttività dipenderebbe da criteri quantitativi e astratti completamente inapplicabili ad un sistema di servizi di interesse pubblico...
Domenico Cortese e Luca Giovinazzo
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