Mara Cagol |
(Da Il Manifesto) - L’altra metà della lotta armata - di Vincenzo Scalia - presentazione del Libro "Sebben che siamo donne" di Paola Staccioli.
Una brutta presentazione che speriamo non prefiguri un libro equivoco (non l'abbiamo ancora letto) che non fa onore alle compagne delle BR e dei gruppi combattenti, la cui scelta della lotta armata viene ridotta ad una "sfida agli uomini sul terreno della pratica rivoluzionaria", una scelta in cui le donne sarebbero portatrici di "tensione individuale e sensibilità sociale" in contrasto con le "logiche da mucchio selvaggio che prevalevano tra la componente maschile" - cose mai dette dalle compagne durante la loro militanza e false, che vogliono solo sminuire la loro scelta ideologica, politica.opuscolo del MFPR |
La scelta ritrova dignità di lotta rivoluzionaria solo quando si denuncia la repressione assassina dello Stato.
Infine, vengono banalizzate le differenze, divisioni tra "movimenti e gruppi", lì dove si trattava e si tratta di profonde questioni strategiche, teoriche, politiche e di prassi, su cui le comuniste e i comunisti rivoluzionari che ritengono tuttora sempre più necessaria la lotta armata come guerra di popolo e la violenza rivoluzionaria come "levatrice" - come diceva Marx - di una nuova società, per passare dalla preistoria alla storia dell'umanità, devono fare un bilancio serio per riprendere le lezioni positive e criticare le lezioni negative, e per cui invece non serviva allora e non serve oggi il discorso "siamo tutti dalla stessa parte della barricata".
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Franca Salerno |
"Saggi. «Sebben che siamo donne» di Paola Staccioli,.. l'autrice sceglie di raccontare le storie delle attiviste di organizzazioni rivoluzionarie, molte delle quali cadute nella militanza... Una scelta pregnante di significati profondi, in quanto emergono le loro vicende esistenziali, che, come sottolinea l’autrice nelle pagine iniziali, scelgono di sfidare gli uomini sul terreno della pratica rivoluzionaria...
La soggettività femminile che le pagine ci restituiscono è permeata da un intreccio tra tensione individuale e sensibilità sociale radicalmente diversa dalle logiche da mucchio selvaggio che prevalevano tra la componente maschile, risultando in un agire implicitamente femminista, in quanto non subalterno a logiche di genere...
La lettura dominante degli anni settanta, che riduce la lotta armata e il movimento antagonista ad un attacco criminale allo Stato democratico da parte di un pugno di fanatici disadattati, perde terreno man mano che la narrazione incalza. I poliziotti sparano a sangue freddo, anche davanti alle mani alzate in segno di resa. I giudici adottano strategie di indebolimento e di repressione basate su un agire vessatorio. Lo Stato non è tanto di diritto, ma gronda di legislazioni premiali, carceri speciali, reparti speciali... Le dietrologie e le cacce alle streghe su cui si sorregge la lettura dominante sul «terrorismo», escono fortemente indebolite da questo libro.
Infine, all’autrice va riconosciuto un merito che, a sinistra, non è del tutto scontato. Le storie che emergono dal libro non riguardano militanti di una specifica organizzazione piuttosto che un’altra. L’elemento femminile, il carattere collettivo delle vicende, si pongono come una possibilità di ricomporre le fratture interne ai movimenti sociali radicali...
Questo aspetto rappresenta un nodo fondamentale per il futuro sviluppo di movimenti o gruppi che vogliono mettere in discussione l’ordine sociale e politico esistente. Una società divisa in classi, nota l’autrice, non potrà mai avere una memoria condivisa. Una tesi ovviamente condivisibile. Il problema, tuttavia, si pone, in tutta la sua gravità, quando la memoria non viene condivisa tra chi ha lottato dalla stessa parte della barricata e ha patito la stessa sconfitta e i medesimi soprusi...".
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