di Enzo
Pellegrin
A
dieci anni dal crollo finanziario del 2007, è ancora molto in voga l’idea che i
“responsabili della crisi” siano da individuare principalmente negli “abusi” del
sistema finanziario globale. Le banche avrebbero stritolato l’economia reale e
la “buona” produzione con l’economia casinò. La crisi della piccola e media
impresa sarebbe direttamente riconducibile al preteso “signoraggio” della
finanza.
Questa
visione semplicistica della crisi ha grande cittadinanza nella vulgata della
piccola e media borghesia spinta ai margini del processo produttivo e sovente
espulsa dal mercato a seguito di una crisi di liquidità. Tale visione acquista a
volte tratti pseudomitologici, ed in questa veste attecchisce anche in larghi
strati di classi subordinate e sprovviste del potere sui mezzi di produzione.
Queste ultime sono spesso portate a sposare le visioni della piccola e media
borghesia, dell’imprenditorialità autonoma, dell’aristocrazia salariale ed
impegatizia: “sono le banche che hanno rovinato l’economia reale”. Questo
concetto è spesso associato ad una visione idealistica dell’economia. La si
descrive come la faccia buona rovinata dalla faccia cattiva, simboleggiata dalla
finanza. L’ “economia reale” era quella che produceva ed aveva successo nel
mondo, quella che assumeva lavoratori idealizzati in una sorta di “famiglia
produttiva”, in cui tutti beneficiavano della ricchezza e dell’ascensore
sociale.
Insomma
un’età dell’oro rovinata dalla malvagità e la cupidigia dei capitalisti
finanziari.
Una
simile visione attecchisce persino in coloro che identificano la patologia
dell’ultima crisi
capitalista nel “neoliberismo” (termine col quale spesso superficialmente si comprende ad un tempo le politiche di austerità, ma anche la finanziarizzazione dell’economia).
capitalista nel “neoliberismo” (termine col quale spesso superficialmente si comprende ad un tempo le politiche di austerità, ma anche la finanziarizzazione dell’economia).
E’
una visione comoda, perché permette di dividere in due il nostro moderno sistema
produttivo.
Da
una parte un sistema di produttori reali che generano ricchezza, e così facendo
generano benessere ed occupazione per i propri dipendenti, innovazione
tecnologica, nuovi e straordinari beni di consumo che facilitano la vita
dell’uomo.
Dall’altra,
una serie di speculatori finanziari, i quali “non producono nulla”, fanno solo
figliare il denaro, mandano in fallimento l’economia “reale” per i propri
profitti finanziari.
E’
una divisione comoda, ma totalmente fasulla.
Sistema
produttivo e finanziario del capitalismo non sono aspetti diversi del medesimo
processo produttivo. Non solo l’uno non può esistere senza l’altro (la data di
nascita del capitalismo viene fatta convenzionalmente risalire alla fondazione
della Borsa di Anversa nel 1531), ma la stessa finanziarizzazione dell’economia
è un processo che deriva direttamente da quel modo di produzione capitalistica
identificato come “reale”.
Tuttavia,
il capitalismo, sia quello reale che quello finanziario, vivono grazie alla
produzione di un saggio di profitto: investo un capitale perché ne ritorni un
capitale più grande. Il tasso di aumento è definito da Marx “saggio di
valorizzazione del capitale o saggio di profitto”.
Come
enuncia il filosofo di Treviri (Capitale libro terzo cap. XV), il meccanismo del
saggio di profitto genera contraddizioni intrinseche: “ il saggio del
profitto, è lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione
del capitale ne costituiscono l’unico scopo), la sua caduta rallenta la
formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo
sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la
sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale
contemporaneamente a un eccesso di popolazione”.
Marx
altresì afferma che nelle società capitalistiche il saggio medio di profitto va
incontro ad un calo tendenziale. In sostanza, nel momento in cui l’impresa
introduce un nuovo metodo di produzione per aumentare la produttività del lavoro
con riduzione dei costi, ottiene un profitto straordinario. Ciò spingerà anche
le altre imprese concorrenti a seguirla sulla stessa strada con aumento della
produzione nel medesimo settore concorrente. Per effetto di questo meccanismo i
prezzi subiranno una successiva riduzione, in proporzione ai costi, e i profitti
torneranno al livello di partenza.
Si
afferma che tale meccanismo comporti una mutazione nella “composizione organica”
del capitale. Di regola, i nuovi metodi e l’innovazione tecnologica comportano
un aumento del capitale costante (macchinari, stabilimenti, merci) nell’intera
struttura economica rispetto al capitale variabile, costituito dai salari pagati
ai lavoratori. Di qui la diminuzione del saggio medio, diminuzione che
generalmente viene contrastata dal capitalista, spesso con la riduzione dei
costi del capitale variabile (ristrutturazioni e delocalizzazione che comportano
licenziamenti e maggiore sfruttamento della forza lavoro più ricattabili sul
pianeta), ma che a lungo andare avrà il sopravvento. (1)
Dal
momento che il saggio di profitto costituisce la forza motrice della produzione
capitalistica, il suo calo mette in pericolo il processo di accumulazione del
capitale ed il sistema entra in una crisi generale.
L’obiezione
abituale che viene portata a questa teoria sta nell’individuazione reale della
tendenza. Secondo gli oppositori, da almeno venticinque anni, nei Paesi ad alta
industrializzazione, per non parlare dei Paesi emergenti, il saggio del profitto
sarebbe comunque in aumento, secondo dati statistici via via evidenziati.
E’
così vero?
Secondo
V. Giacchè, (Stagnazione
secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto, su Marx XXI) “Se
esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è senz'altro
riscontrabile. Nel periodo che va dal 1973 al 2008, il saggio di crescita del
prodotto interno lordo pro capite […] è stato all’incirca la metà del saggio di
crescita registrato negli anni 1950-1973. […] La crescita mondiale negli anni
Novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti, e il
decennio successivo si è chiuso con la peggiore crisi mondiale degli ultimi
ottanta anni. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto ad un
ritmo inferiore al 4 per cento; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto ad
un ritmo superiore al 4 per cento, ed è quasi sempre risultato molto inferiore.
Dopo il 2008, […] la crescita del pil nei cosiddetti paesi emergenti non è
riuscita a compensare il brusco calo, e poi l’affannoso e stentato recupero nei
paesi a capitalismo maturo.”
La
tendenza compare anche in analisi non certo concilianti, come quella di Achilli
sul PIL dell’Italia, “da una personale stima sui dati Istat, […] evidenzio che
il saggio lordo di profitto deflazionato segue un andamento effettivamente
decrescente, con il valore che passa dall'11,3% nel 1970 al 6,6% nel 2009 (fig.
2). Ma tale discesa è in parte alimentata da componenti del risultato lordo di
gestione, come le rendite, che sono strutturalmente in calo (anche se incidono
marginalmente). I dati statistici, quindi, sembrano supportare una tendenza di
lungo periodo verso il calo tendenziale del tasso di profitto, ma è evidente che
il suo ritmo è troppo lento per poter far pensare ad un crollo del capitalismo
in un futuro prevedibile.” (R. Achilli, Il
declino tenenziale del saggio di profitto in Sinistrainrete).
Se
qualcosa può essere ricavato dall’analisi sul lungo periodo di questi dati è la
conferma che il saggio di profitto è ben lungi dall’aumentare, considerando i
parametri globali medi dell’economia. I fenomeni di calo del saggio di profitto
possono essere contrastati in un singolo settore, in un Paese, in una certa
dimensione economica, ma si producono inesorabilmente continuando a riprodurre
il meccanismo delle crisi e delle stagnazioni, perché i fattori di contrasto del
calo possono generare crisi e soprattutto disoccupazione, sfruttamento ed
impoverimento della forza-lavoro.
Quali
sono i primi fattori di contrasto al calo del saggio di profitto?
Essi
interessano sempre la forza lavoro.
Un
primo modo consiste nel maggior sfruttamento del lavoro. Nelle epoche
passate, ciò avveniva attraverso l’aumento delle ore lavorative a pari salario.
Nel mondo moderno, ciò avviene di regola attraverso l’intensificazione delle ore
di lavoro, al fine di ricavare, a parità di costo, la massima produzione
possibile. Ciò è spesso affiancato a pesanti ristrutturazioni sul piano
dell’occupazione. Un esempio attuale è dato dalle ristrutturazioni che avvengono
nella grande distribuzione organizzata (GDO). A seguito della riduzione di
organici, la manodopera utilizzata per gestire e porre in vendita la stessa
quantità di merci è minore. I ritmi di lavoro saranno intensificati e più
stressanti, comportando un carico di lavoro maggiore per ogni addetto. Gli
addetti saranno portati a lavorare più intensamente mediante l’agitazione del
ricatto occupazionale, di ristrutturazione in ristrutturazione. Nel campo della
GDO, è sovente utilizzato anche l’antico metodo dell’aumento delle ore
lavorative a parità di salario. Vi sono una serie di lavoratori c.d.
“forfettizzati” i quali percepiscono mensilmente una somma forfettaria che copre
- indipendentemente dal loro numero - tutte le ore di lavoro straordinario
effettuate (con poche eccezioni). Questi lavoratori saranno spinti col ricatto
ad essere presenti in azienda il maggior numero di ore possibili. L’azienda
guadagnerà sulla quota di straordinario non pagato eccedente il loro forfait.
Col passare del tempo, la riorganizzazione del lavoro (con meno addetti)
usufruirà anche di lavoratori precari esterni all’azienda, per la messa in
vendita delle merci, la loro esposizione, la loro promozione (merchandising).
L’azienda ed il caporalato delle agenzie di intermediazione lavoro lucreranno
sulla corresponsione di un salario ormai giunto - in alcuni casi - al di sotto
del livello necessario a riprodurre le proprie condizioni materiali di vita. Si
pensi al giovane lavoratore precario esternalizzato addetto al caricamento
banchi notturno: i salari netti sono spesso di poco superiori a 700 Euro per 38
ore, con punti di 500 Euro per 20 ore, somme del tutto insufficienti anche per
un affitto.
Tutto
ciò avviene già nell’economia capitalistica reale.
Un
secondo modo avviene attraverso la riduzione del capitale pagato per i
salari.
La
riduzione del costo del lavoro è spesso avvenuta sull’onda di ristrutturazioni,
licenziamenti, crisi di settore e ricontrattazione di salari, erodendo la quota
destinata al lavoratore. Nel capitalismo globalizzato, i licenziamenti e
l’aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, le migrazioni e la
possibilità di delocalizzazione delle strutture produttive hanno aumentato la
quota dell’esercito industriale di riserva, quella quota di lavoratori
disoccupati, sottoccupati, parzialmente occupati, disponibili ad accettare
condizioni di lavoro sempre più basse. Questo consente al capitalista di
disporre di una forza lavoro pagata sempre meno, con condizioni di
subordinazione a lui sempre più favorevoli (contratti precari, forfettizzazione
degli straordinari, bassi salari, numero limitato di giorni destinati al riposo
pagato). Ciò avviene spesso dislocando le unità produttive nei paesi con
migliori condizioni per il capitalista. Tale fenomeno ha consentito al
capitalista di comprimere il salario ad una grande quantità di lavoratori sino a
condizioni inferiori a quelle di sussistenza. Il che avviene quando un salario
non consente neppure di poter riprodurre in modo dignitoso od autonomo le
proprie condizioni di vita. Questo non succede solo nelle fabbriche-schiavitù
del sud del mondo, ma anche nel cuore dei paesi avanzati. Il salario del
lavoratore precario di cui prima si discuteva è insufficiente per il pagamento
di un affitto, delle spese mediche, del vitto. Spesso si vive con simili salari
solamente perché si fa affidamento sul contributo economico dei familiari. Se il
salario è compresso al di sotto della quantità di denaro necessaria per la
sussistenza e la riproducibilità dell’esistenza, esso è pagato addirittura al di
sotto del suo “valore”, in senso marxiano. (2). Ciò avviene nell’economia
“reale”.
Un
terzo modo di contrastare il calo del saggio di profitto consiste nella
destinazione di parte del capitale alla speculazione finanziaria.
Una
delle funzioni del settore finanziario è quella di fornire al capitale in
crisi di redditività alternative di investimento a redditività maggiore. Il
calo del saggio di profitto in un settore dell’industria può essere compensato
dall’operatore mediante la destinazione di parte del capitale alla speculazione
attraverso strumenti finanziari.
Non
di sola speculazione vive però la dimensione finanziaria. L’esercizio del
credito è spesso uno strumento per allontanare gli effetti di una crisi di
sovrapproduzione. I settori di produzione industriale hanno beneficiato
dell’ampia concessione del credito al consumo per mantenere e allargare le
quote di ordinativi, così come la conseguente redditività dei loro fatturati
ha consentito loro di rifinanziare le proprie situazioni debitorie. Lo sviluppo
e l’estensione del credito al consumo e del credito immobiliare ha consentito
altresì di contrastare gli effetti negativi dati dalla riduzione del reddito
della forza-lavoro. Per avere un mondo in cui i lavoratori vengano pagati
poco e continuino a consumare si sono spinti gli stessi lavoratori ad
indebitarsi largamente.
Ciò
ha condotto in primo luogo ad un aumento in valore assoluto del capitale
impiegato nel settore finanziario. A partire dagli anni novanta, soprattutto nei
paesi capitalisti avanzati, i profitti della finanza crescono in modo
vertiginoso, arrivando a sovrastare i profitti della produzione. L’esempio
limite è quello di Stati, come il Regno Unito, che hanno attratto una grande
dimensione di operazioni finanziarie in virtù dello status di paradiso fiscale
della city londinese. Nel 2008, il settore finanziario nel Regno Unito
realizzava l’80 per cento dei profitti totali.
Il
problema rimane: l’indebitamento non può essere sostenuto a lungo termine e
all’infinito ed è sensibile alla base di valore reale che sta all’inizio della
catena di indebitamento-finanziarizzazione.
In
breve e semplificando, in caso di calo dei valori e dei profitti reali, esso
finisce per fondarsi sempre più su ricchezza virtuale cartacea “inesigibile” e
che porta all’emissione di obbligazioni e mutui che divengono spazzatura perché
non hanno più alcuna garanzia di essere rimborsati: per ciò solo, nel mondo
finanziario, questi titoli e questi crediti perdono ogni valore.
La
bolla dei mutui subprime evidenzia non solo l’insostenibilità di questo
meccanismo, ma anche come questa “economia tossica” o “virtuale” è strettamente
legata, interdipendente e funzionale a quella che viene considerata “economia
sana” o “reale”, perché è un meccanismo necessario di contrasto del calo del
saggio di profitto.
Anche
una lettura capitalistica (come quella che viene data negli atenei dei paesi
avanzati, vedi ad es. Cusseddu, Baranes, La cartolarizzazione e l’esplosione
della crisi finanziaria, http://dipartimenti.unich.it/pers/rinaldia/file/La%20Cartolarizzazione.pdf)
dei meccanismi della bolla subprime evidenzia questa interdipendenza e questo
legame necessario tra finanza tossica e produzione capitalistica.
Proprio
nel periodo 2001-2005, la Federal Reserve degli USA promosse una politica
monetaria basata sul basso costo del denaro per l’espansione del credito al
consumo. Ciò avrebbe consentito, da un lato, di proporre mutui a basso costo
anche al consumatore finale ed alle famiglie, in relazione a beni che
diversamente non avrebbero potuto acquistare. L’emissione di mutui a basso
costo, a condizioni di molto favorevoli in quel periodo (lunga scadenza, tassi
variabili e quindi in quel periodo molto bassi e con possibilità di
rifinanziamenti anche nel breve periodo) rese molto appetibile l’indebitamento
da parte delle famiglie. Vennero concessi e rifinanziati mutui anche a debitori
non affidabili per la loro storia creditizia negativa (subprime lending).
In particolare, nel mercato immobiliare, i mutui appetibili e facili generano
un’esplosione della domanda di case che “gonfia” i prezzi degli immobili nel
periodo dal 2001 al 2005.
I
tassi variabili dei mutui costringevano spesso le famiglie ad una rinegoziazione
per consentire di continuare a pagare le rate. Le banche, nel periodo della
“bolla dei prezzi”, rifinanziavano volentieri i mutui, vuoi perché questo
allungava periodo di rimborso e il computo delle somme dovute ad interessi, vuoi
perché in caso di insolvenza potevano soddisfarsi sull’immobile il cui valore
era a volte divenuto anche più alto di quello dedotto in mutuo. Quando iniziano
i problemi? Quando la “bolla” dei prezzi immobiliari inizia a sgonfiarsi. Vale a
dire quando, nonostante l’iniezione del credito al consumo, nonostante le
facilitazioni dei mutui, nonostante i nuovi investimenti di capitale compiuti
dai costruttori nell’edificazione di nuovi immobili, la domanda di case viene
meno, per la saturazione del mercato. Il tasso di profitto dell’economia reale
non riesce a mantenersi tale ed il prezzo degli immobili inizia a calare, fino
ad un vero e proprio crollo. Col crollo dei prezzi degli immobili, crolla anche
il prezzo delle case ipotecate per mutui ormai di gran lunga superiori al valore
dell’immobile dato in garanzia. Le banche sono costrette ad interrompere il
meccanismo di rifinanziamento e le famiglie che hanno contratto i mutui si
trovano nell’impossibilità di adempiere alle rate. L’insolvenza di questi mutui
arriva nel 2007-2008 anche a tassi del 50%. Le conseguenze sui mercati
finanziari sono immediate: non appena cessa il flusso di denaro garantito dalla
restituzione delle rate (o dal rifinanziamento non più concesso dalle banche) i
titoli obbligazionari garantiti da quei mutui (mortgage-back securities)
registrano perdite di valore nel mercato pari al 70, 80% in meno di un anno. I
crediti di quei mutui erano stati “cartolarizzati sul mercato mondiale”
attraverso l’emissione di obbligazioni garantite da quei mutui e da quelle case.
e scambiate sui mercati finanziari di tutto il mondo.
Se
il tuo debitore vale quattro lire, anche il tuo credito vale quattro lire, anche
se sulla cambiale c’è scritto duemilioni.
Così,
nelle casse delle banche di tutto il mondo si trovavano obbligazioni la cui base
reale era un immobile od un debitore che valevano due lire. In parte sono
rimaste in quelle casse, in altra parte sono state vendute a piccoli
risparmiatori, imprenditori ed altri creditori.
La
diffusione di titoli “tossici” ha generato una crisi finanziaria di livello
globale che ha attaccato anche i debiti sovrani, ha condotto i governi a
concedere denaro pubblico per il salvataggio delle banche, ha costretto gli
stati più indebitati a politiche di austerità, tagli alla spesa e tutto ciò che
ancora si verifica sul panorama finanziario globale.
Il
tutto era però nato dalla necessità di compensare il calo dei tassi di profitto
mediante la facilitazione del credito al consumo. Economia reale ed economia
finanziaria sono state sono e saranno assolutamente concorrenti ed
interdipendenti nella generazione di siffatti meccanismi. “Da una parte infatti
la cartolarizzazione, permettendo di ricorrere ai mercati finanziari per
finanziare l’erogazione dei mutui, è stata alla base dell’espansione del settore
immobiliare (con aumento della domanda e offerta di case), rappresentando così
il canale di congiunzione principale tra il settore immobiliare e il settore
finanziario. In maniera ancora più centrale attraverso tale processo il
primary market dei mutui, pur rimanendo prettamente nazionale, si è
legato indissolubilmente al secondary market della finanza, che non
conosce confini nazionali e coinvolge operatori provenienti da tutto il mondo,
con il risultato di rendere il mercato dei mutui indirettamente globalizzato.
Questa interdipendenza tra i due mercati si è tradotta in una esposizione di
tutto il sistema finanziario globale ai rischi connessi al mercato “locale” dei
mutui. In altre parole la cartolarizzazione ha di fatto trasferito i rischi
legati a un crescente indebitamento e a un sempre minore credito dei debitori ai
piccoli risparmiatori in tutto il mondo” (Cusseddu, Baranes, La
cartolarizzazione e l’esplosione della crisi finanziaria, http://dipartimenti.unich.it/pers/rinaldia/file/La%20Cartolarizzazione.pdf).
Dove
sta quindi il buono e il cattivo?
L’economia
capitalista non è un metodo di risoluzione dei problemi e dei bisogni
umani.
Essa
è in primo luogo volta al conseguimento di un profitto, dietro l’investimento
del capitale di ogni singolo operatore che vi partecipa. Come più sopra ci
ricordava Marx, ciò che spinge il medesimo operatore ad investire il proprio
capitale per acquistare forza lavoro, impianti di produzione, è la redditività
che sorge dall’impiego di tali capitali. Dai dati storici sopra delineati,
abbiamo constatato che il perseguimento del profitto soggiace al problema del
suo calo tendenziale, che di volta in volta viene “contrastato” con vari mezzi,
tra cui i meccanismi di compressione dei salari (che innescano altre crisi ed
altri cali) e la finanziarizzazione dell’economia (che a sua volta innesca
meccanismi di crisi ancora più gravi).
Tutti
questi meccanismi di compensazione per trattenere la redditività del profitto
hanno generato povertà o crisi del sistema finanziario.
Una
prova indiretta della correttezza del meccanismo del calo tendenziale del saggio
di profitto è ben esemplificata da Michael Roberts, il quale acutamente fa
notare che “un calo nel tasso di profitto non porta direttamente ad una crisi
finché la massa dei profitti può aumentare. Come ho dimostrato nel mio libro, è
stato precisamente quando la massa dei profitti ha smesso di salire che la
Grande Recessione è nata. Nel mio blog del 19 gennaio, La massa dei profitti
e la crisi economica, ho portato più prove a favore di questo argomento di
Marx con gli ultimi dati dagli Stati Uniti.” (M. Roberts, Sovrapproduzione e
crisi capitalistica, http://www.resistenze.org/sito/os/ec/osechd30-019152.htm)
.
Se
ciò che segue alle crisi generate dai tentativi di compensazione dei tassi di
profitto è il persistere della stagnazione della massa dei profitti, la crisi
capitalistica deve per forza rivolgersi alla distruzione del valore del capitale
esistente: “Solo questo potrà far ripartire di nuovo il capitalismo (per un po'
di tempo), ma a spese di tutti noi. Così è svelata la contraddizione intrinseca
del capitalismo. Solo la sua abolizione può fermare il ciclo di espansione e
crollo.” (M. Roberts, op .cit.).
Dove
sta dunque la differenza tra capitalismo “buono”, perché “produttivo” e
capitalismo “cattivo” perché finanziario, avventurista, scommettitore, quando il
secondo non è altro che il necessario concorrente del primo?
Qual’è
la differenza tra capitalismo e capitalismo tossico, quando entrambi funzionano
allo stesso modo?
Ciò
che rimane di veramente tossico è quella ingenua o falsa narrativa che li vuole
differenti e per ciò solo suppone il capitalismo controllabile o
riformabile.
Note
__________
(1)
Come si produce il saggio di profitto nella teoria del Capitale? Mediante
l’impiego del capitale in un processo produttivo.
4Il
capitale che viene impiegato per questo scopo si divide in capitale costante e
capitale variabile. Il capitale costante dal punto di vista materiale è
l'insieme dei mezzi di produzione: mezzi di lavoro, materie prime, materie
ausiliarie, ecc.
Il
capitale variabile è dal punto di vista materiale, la quantità di lavoro
necessaria per l'uso dei mezzi di produzione. Dal punto di vista del valore
marxianamente inteso, esso coincide con la somma dei salari.
Nel
processo produttivo, il capitalista si appropria di una forza-lavoro che non
retribuisce e sfrutta per generare profitti: questa forza lavoro non retribuita
produce un valore aggiuntivo della merce prodotta, detto plusvalore: «Il
plusvalore consiste proprio … nell'eccedenza della somma complessiva di lavoro
incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce
contiene» (Il Capitale, libro III, p. 68).
Il
capitalista impiega forza lavoro. La forza lavoro è venduta dal lavoratore come
merce sul mercato del lavoro. Questa forza lavoro ha la caratteristica
principale di produrre valore. Il suo
valore è dato dalla quantità di lavoro che è necessaria per la sua riproduzione
e per la sua conservazione. Se questo valore viene raggiunto in quattro ore di
giornata lavorativa all’interno del processo produttivo, tutte le ore ulteriori
che il lavoratore mette a disposizione, formeranno a vantaggio del capitalista
una quantità di lavoro ulteriore (pluslavoro) che si tradurrà in una quantità
ulteriore di prodotto (plusprodotto) che a sua volta genererà una quantità di
lavoro ulteriore (plusvalore)
Il
plusvalore è dunque il valore del pluslavoro, cioè del lavoro compiuto in più
dal lavoratore oltre a quello che corrisponde al valore del salario.
Il
saggio di profitto e’ il rapporto tra il plusvalore e la somma del capitale
costante e del capitale variabile.
Poniamo
l’esmpio della produzione del The. Il capitalista inglese impiega per produrre
in un mese un capitale costante (pari a linea di produzione, materie prime e
ausiliarie) pari a 500.000 euro, oltre ad un capitale variabile di 500.000 euro
in salari. Mediante l’impiego di questo capitale, egli produce un valore in The
pari a 1.500.000 Euro, beneficiando di un plusvalore pari a 500.000 Euro in
rapporto ad un capitale costante e variabile pari a 1.000.000 di Euro. Il saggio
del plusvalore calcolato rispetto all’impiego del capitale variabile (500.000
Euro) sarà del 50%, mentre il saggio di profitto calcolato sulla somma del
capitale costante e variabile, sarà allora del 50 %, 500.000 Euro
Il
saggio di profitto è però soggetto ad un calo tendenziale, quale legge
fondamentale dell’economia capitalistica.
La
caduta tendenziale del saggio medio del profitto è anche una delle cause
principali che, in tempi relativamente lunghi, determinano le crisi.
Il
miglioramento delle tecniche produttive, inteso sia in senso stretto che nel
senso più generale di messa a punto di nuovi impianti, comporta un relativo
aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile.
Se
la concorrenza nella produzione del The costringe il capitalista a rinnovare i
suoi impianti e ad aumentare la produttività del lavoro, fermo restando il grado
di utilizzazione della forza-lavoro, si avrà una diminuzione relativa del
capitale variabile che scenderà per esempio a 200.000 Euro (per una
ristrutturazione aziendale, una ricontrattazione a ribasso dei salari), mentre
il capitale costante salirà a 800.000 Euro La somma sarà quindi ancora di
1.000.000 Euro, il saggio del plusvalore sarà ancora del 50%, calcolato però su
un capitale variabile di 200.000 Euro, per cui il profitto sarà espresso dal
saggio di 200.000/(800.000+200.000) 0 20%, evidentemente minore del saggio del
50 % prima indicato sullo stesso capitale.
Qualora
il produttore del te voglia ottenere un profitto uguale pari a 500.000 Euro,
“dovrà impiegare un capitale complessivo maggiore, cioè dovrà aumentare in
qualche modo la produzione: questa è la causa delle crisi di sovrapproduzione e,
nel contempo, una delle contraddizioni fondamentali del modo di produzione
capitalistico. Ciò perché da ogni crisi il capitale «esce completamente
rinnovato»; in concreto l'innovazione consiste, accanto ai molteplici effetti
collaterali, in un aumento del capitale costante a spese del capitale variabile
(Crisi
economica, Salario).”
(http://www.resistenze.org/sito/ma/di/di/mddis0.htm).
(2)
Cfr. nota 1: Il capitalista impiega forza lavoro. La forza lavoro è venduta dal
lavoratore come merce sul mercato del lavoro. Questa forza lavoro ha la
caratteristica principale di produrre valore. Il suo
valore è dato dalla quantità di lavoro che è necessaria per la sua riproduzione
e per la sua conservazione. Se questo valore viene raggiunto in quattro ore di
giornata lavorativa all’interno del processo produttivo, tutte le ore ulteriori
che il lavoratore mette a disposizione, formeranno a vantaggio del capitalista
una quantità di lavoro ulteriore (pluslavoro) che si tradurrà in una quantità
ulteriore di prodotto (plusprodotto) che a sua volta genererà una quantità di
lavoro ulteriore (plusvalore).
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