La Corte suprema libera gli
attivisti arretati
Varavara Rao
“Il dissenso è la valvola di
sfogo della democrazia. Se si proibisce il dissenso, allora la pentola a pressione
può esplodere”. Così, ieri, il giudice della Corte suprema indiana D.Y.
Chandrachud ha sintetizzato in un’udienza speciale l’intervento della massima
corte indiana a difesa dei cinque attivisti per i diritti umani arrestati
martedì per ordine delle autorità del Maharashtra.
ACCOGLIENDO la petizione lanciata da un nutrito gruppo di
intellettuali indiani, la Corte suprema ha sospeso la traduzione in carcere
degli attivisti in favore dei domiciliari fino al prossimo 6 settembre, quando
il governo del Maharashtra e la polizia di Pune dovranno presentarsi in aula e
chiarire una volta per tutte la natura delle accuse mosse contro Sudha
Bharadwaj, Gautam Navlakha, Vernon Gonsalves, Arun Ferreira e Varavara Rao.
L’ipotesi degli inquirenti,
ovvero che i cinque avessero incoraggiato gli scontri intercomunitari tra dalit
e marathi dell’inizio dell’anno, sembra già scricchiolare in assenza di prove
concrete a carico degli accusati. Un copione che ricalca l’assurda vicenda di
altri cinque attivisti per i diritti umani dei carcerati, dei dalit, dei
tribali indiani – “adivasi” - e di chi
lotta per la salvaguardia dell’ambiente in India, arrestati con la medesima
accusa il 6 giugno. I cinque, inizialmente accusati di incitazione all’odio
intercastale in quanto “maoisti”, in mancanza di prove a sostegno dell’accusa
si sono visti costretti a rispondere dell’accusa di complotto ai danni del primo
ministro Narendra Modi, obiettivo – secondo le autorità del Maharashtra – di un
attentato “alla Rajiv Gandhi” in via di definizione (Rajiv Gandhi, primo
ministro e figlio di Indira Gandhi, fu assassinato nel 1991 dalle Tigri del
Tamil).
A SOSTEGNO di questa tesi, nei mesi scorsi, emersero alcune lettere
in cui la trama dell’attentato si dipanava con dovizia di dettagli circa reperimento
dei fondi necessari e collegamenti tra varie anime del terrorismo nazionale e
transnazionale. Le lettere, arrivate chissà come nelle redazioni dei principali
telegiornali pro governo Modi e ampiamente discusse in prime time senza contraddittorio,
secondo gli accusati sono documenti falsificati per screditare chi si oppone al
governo. L’arresto degli attivisti ha scosso la comunità dei progressisti indiani,
che si sono subito mobilitati per tenere alta l’attenzione sul caso.
Arundhati Roy, scrittrice e attivista,
in un’intervista al quotidiano The Hindu ha dichiarato: “Ciò che sta succedendo
è causato dalla volontà di liberarsi della democrazia e trasformare questo Paese
in uno Stato hindu. Oggi, potenzialmente, la faccenda è più seria che ai tempi
dell’Emergency. Oggi è lo stesso Stato a incoraggiare problemi di ordine
pubblico con le minoranze, con i dalit, i cristiani, i musulmani, con le
persone di sinistra, con chiunque dissenta, attraverso i propri lacchè nei
media, i propri vigilantes assassini e chi diffonde parole d’odio. Chiunque non
è d’accordo con una particolare ideologia viene criminalizzato, incarcerato o assassinato
da oscuri killer di destra”.
ROY NON E’ LA PRIMA a fare riferimento agli anni dell’Emergency,
quando l’allora prima ministra Indira Gandhi, tra il i1975 e il 1977, sospese i
diritti civili imponendo una dittatura di 21 mesi, arrestando decine di
migliaia di oppositori. Secondo molti attivisti indiani, il fantasma dell’Emergency
- o di una “Emergency non dichiarata”, cioè senza sospensione dei lavori del
parlamento – già aleggia sulla più popolosa democrazia del mondo.
Secondo Roy, gli arresti
simultanei degli attivisti mostrano “la paura del governo di perdere il proprio
mandato, una paura che li sta mandando nel panico”. Le prossime elezioni nazionali
si terranno in India nella prima metà del 2019.
Il Manifesto 30 agosto 2018
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