mercoledì 3 gennaio 2018

pc 3 gennaio - La “profondità strategica” dell’imperialismo italiano nella corsa alla nuova spartizione dell’Africa

Dall’intervista di Limes al viceministro Giro, che riportiamo sotto, viene chiaro alla luce l’indirizzo di fondo dell’imperialismo italiano in Africa. Imperialismo che è attivo anche su tanti altri fronti ma su questo il governo ha un programma particolare fatto di aiuti alle imprese per “internazionalizzarle”, per conquistare e controllare territori sia dal punto di vista strettamente militare, ma soprattutto per quello economico di cui quello militare è al servizio.
Sottolineiamo alcune frasi dell’intervista, mentre ne commentiamo qui alcune che danno il senso della frase del viceministro: “L’Africa è la nostra profondità strategica”. Ciò vuol dire che l’imperialismo italiano, che partecipa a questa nuova “spartizione dell’Africa”, continuerà ad investire moltissimo su questo fronte. Il viceministro si vanta del proprio governo perché è “riuscito a invertire la tendenza all’approccio settoriale, armonizzando cooperazione allo sviluppo, diplomazia, sicurezza e imprenditorialità”.
Che ci facciamo dunque in Africa? Complimentandosi per l’impegno generale degli altri paesi imperialisti Giro dice però chiaramente: “Siamo in competizione economica con gli altri europei nel settore privato, ma ben venga se è indirizzata allo sviluppo dell’Africa.” Questa “competizione”, nascosta sempre dietro lo “sviluppo” del paese, è il normale sbocco della contraddizione tra paesi imperialisti per la conquista dei “mercati” che di tanto in tanto sfocia in aperte guerre interimperialiste.
In Libia, dice Giro: “Vi sono almeno centocinquanta milizie le quali, oltre a usare i traffici per fare economia e sostentarsi, si sono trasformate in Consigli rivoluzionari con un potere locale di cui non intendono privarsi.” Questa frase, insieme a quest’altra domanda e risposta: “La drastica diminuzione dei flussi migratori verso l’Italia – di circa un terzo nel 2017 – è contingente o strutturale? Contingente” (!), rende carta straccia le chiacchiere propagandistiche dell’onnipresente Ministro dell’Interno Minniti che ha sbandierato gli accordi in Libia come risolutivi del “controllo” dei flussi dei migranti!
Ma il viceministro Giro deve continuare a fare propaganda e perciò alla domanda sulle condizioni attuali in Libia e in particolare nella capitale risponde così: “A Tripoli vigono ormai condizioni di vita accettabili.” Un’affermazione così inverosimile che il giornalista è costretto a dire ancora: “Eppure, l’Italia è l’unico paese occidentale ad aver riaperto un’ambasciata nella capitale libica.”
Giro risponde con questa frase di chiusura confermando la “visione” dell’imperialismo italiano sull’Africa: “Il mondo ha uno sguardo rassegnato sulla Libia, simile a quello riservato alla Somalia.” Ma… “Visti gli interessi in gioco e la nostra sicurezza nazionale, l’Italia però non può permetterselo. Perciò abbiamo moltiplicato gli sforzi, nonostante la farraginosità del processo sotto l’egida dell’Onu. Ma l’impulso decisivo deve provenire dai locali. Il futuro della Libia e nelle loro mani.”

“La nostra sicurezza nazionale” è un’affermazione in perfetto stile Minniti che serve solo ad alimentare le “paure” e rafforzare l’apparato repressivo dello Stato contro le masse popolari interne ed esterne. Mentre la frase di chiusura dell’intervista, dopo l’elenco lungo e articolato della presenza imperialista in Africa, prova ancora sfacciatamente ad ingannare chi legge: “Il futuro della Libia e nelle loro mani” (!) Certo, è nelle mani dei libici, del popolo libico, ma solo se questo riesce ad organizzarsi per spazzare via dalla Libia l’imperialismo italiano e ogni altro imperialismo.
‘La nostra profondità̀ strategica in Africa’
Conversazione con Mario GIRO, viceministro degli Esteri.

LIMES Guardando la carta geopolitica dell’Africa da Roma, qual è per noi il centro di quel continente? Qual è il perimetro dell’«Africa italiana», quella che ci interessa più da vicino?

GIRO Le priorità del nostro paese sono la Libia e il suo retroterra strategico. Prima di approfondire quest’area, così importante per la nostra sicurezza e non solo, vorrei però concentrarmi su quelle aree e quei paesi dove vi sono maggiori opportunità di crescita, per noi e per i paesi africani. Non dimentichiamo che nel 2016 l’Italia è divenuta terza fonte di investimenti nel continente, dopo Cina ed Emirati Arabi Uniti. Il passaggio dalla ventunesima posizione del 2014 a quella attuale testimonia gli sforzi che hanno portato società come Enel ad acquisire quote rilevanti del mercato africano tout court. Senza contare la presenza di Eni, fondamentale già prima del 2014 con la scoperta di giacimenti come quelli di Zohr in Egitto e Agulha in Mozambico. Molte imprese si stanno cimentando con il continente. L’incremento portentoso degli investimenti italiani evidenzia come Eni non costituisca un unicum e dunque come le imprese nostrane si stiano internazionalizzando anche in Africa. Con risultati evidenti, malgrado tutte le difficoltà del caso.
LIMES Quali sono i paesi e i settori chiave per noi, in quest’ambito?
GIRO Costa d’Avorio e Kenya. Rispettivamente plaque tournante [centro nevralgico, ndr] dell’Africa occidentale e di quella orientale. Paesi di precipuo interesse economico, e non solo, per l’Italia. Ampliando la prospettiva, sono tre gli ambiti che offrono maggiori opportunità al nostro paese. Quelli delle energie rinnovabili – con l’Italia (ed Enel) leader del settore - delle grandi infrastrutture e dell’agroalimentare. Non dimentichiamo che l’Africa è l’ultimo continente con terre libere coltivabili, oltre 200 milioni di ettari. Nello specifico, ad esempio, dobbiamo essere presenti massicciamente con logistica e infrastrutture nel terminale portuale di Mombasa. Trainato dagli investimenti cinesi, il porto keniano sarà lo hub dell’Asia in Africa, continente che la Cina ha riportato al centro del gioco internazionale. Sarà il crocevia di nuove reti ferroviarie, lungo due direttrici. Una collegherà l’Africa orientale a quella del Nord; l’altro – a cui già lavora la Cina – connetterà le due sponde oceaniche del continente. Un tessuto connettivo al quale assommare la boucle Bolloré: un anello ferroviario che dalla tratta già esistente fra Abidjan e Ouagadougou scenderà in direzione Nigeria, Benin e Togo, connettendo il Sahel alle economie di paesi rivieraschi. Tenendo conto che al centro della boucle Bolloré c’è la Costa d’Avorio, la quale costituisce metà della massa monetaria del franco Cfa occidentale. È al contempo il paese più prospero della regione e quello con il maggior potenziale di espansione economica, assieme al Ghana. Sosteniamo il mantenimento del franco Cfa, il quale – nonostante le critiche di alcuni paesi sulle sue conseguenze inflattive, essendo una moneta unica agganciata all’euro – assicura la stabilità monetaria. Singolarmente, occorre altresì rivedere l’approccio economico alla Nigeria: il livello intergovernativo (govern to govern), utile in ambito energetico, va integrato con quello privato (business to business). La Nigeria è il paese con il tasso più elevato di imprenditori africani. Perciò il settore privato nigeriano deve esser coinvolto e responsabilizzato. È un tema che ho esposto già durante la visita dell’allora primo ministro Renzi ad Abuja nel 2016. Parimenti va monitorato il Sudafrica, malgrado attraversi una congiuntura nient’affatto propizia.
LIMES Che cosa dobbiamo imparare dalla Cina in Africa? E come valutare in questo contesto le nuove vie della seta di Xi Jinping?
GIRO Pechino ha rinnovato lo scramble for Africa [spartizione dell’Africa, ndr] superando il tradizionale paradigma coloniale. Naturalmente, al pari di ogni altro attore esterno, la Repubblica Popolare Cinese persegue in Arica il proprio interesse nazionale. Ma una connessione di interessi è proficua per tutti, a partire dagli africani. Perciò guardiamo positivamente ai nuovi progetti infrastrutturali cinesi. Ai corridoi economici e all’interconnessione crescente tra Asia, Europa e Occidente in generale, che si svilupperà anche attraverso il continente africano. E sosteniamo accordi commerciali quali Ceta, Ttip, Tpp. Anzi, dovremmo pensare a stipularne uno analogo con l’Africa. Prima di tutto dovremmo però superare l’approccio bifronte degli europei e anche di noi italiani all’Africa, ancora percepita come un continente “speciale”. Il Vecchio Continente si pone in un’ottica fintamente ravvicinata, mentre è stato tentato di lasciare l’Africa a sé stessa prima della penetrazione cinese, negli anni Novanta. Dobbiamo pensare l’Africa come ogni altro continente, magari con alcuni problemi peculiari ma con immense opportunità. L’Africa è la nostra profondità strategica.
LIMES Ma quale Africa? E soprattutto. Quali Stati possono essere definiti tali in Africa?
GIRO La struttura statale ha dato prova di resilienza in Senegal, Costa d’Avorio, Ghana, Benin, Nigeria (malgrado i problemi legati al terrorismo nella regione nordorientale), Marocco, Algeria, Sudafrica, Kenya, Tanzania, Namibia, Ruanda, Uganda, Mozambico, Malawi e Zambia.
Gli Stati saheliani attraversano invece una crisi profonda. Dobbiamo guardare la crisi migratoria con gli occhi dei paesi del Sahel, dove i flussi migratori sono commisti a terrorismo, traffici illegali e criminalità internazionale. La percezione generale è che tali paesi traggano profitto dai flussi migratori, mentre in realtà, essi minano la tenuta stessa dello Stato. Il rischio è funzione del nesso tra narcos latinoamericani - i quali sbarcano droga davanti le coste dell’Africa occidentale per poi instradarla su due direttrici, verso l’Asia e l’Europa, lungo le stesse rotte che percorrono i migranti -  e trafficanti di armi, uomini e altre attività lucrose (come il traffico di medicinali illegali). Questi fenomeni si sono globalizzati e interconnessi, sino a costituire una forza alternativa a quella degli Stati. I quali perdono il controllo di territorio e frontiere, soppiantati dal legame tra mafia e terroristi. Sono fenomeni radicati al punto di minare le basi della statualità e minacciano di produrre una pletora di jihadistan. Rischiamo altre Libie. È molto preoccupante, per esempio, l’inculturazione jihadista nel Sahel; nel 2012 ne enucleavo i rischi, quando si crearono i primi nuclei jihadisti nella regione. Specie in contesti ad alta instabilità come in Libia e Ciad. Oggi è possibile l’emersione di un jihad peul o tuareg. Quanto accade nel Nord del Mali è allarmante, non soltanto per la questione dei tuareg. I terroristi non sono stati sconfitti dopo la guerra condotta da Francia e Ciad nel 2012. Si sono dispersi e riorganizzati, facendo leva sul malcontento delle popolazioni locali, quelle tradizionalmente tenute ai margini del processo di costruzione degli Stati unitati postcoloniali. Le popolazioni saheliane sono state protagoniste di un’inculturazione per opera di quelli che erano inizialmente terroristi algerini o mediorientali. È la saldatura tra gli interessi di alcune popolazioni locali e l’offerta jihadista, che si declina in una ricreazione identitaria – radicata sul territorio e dunque molto più pericolosa della presenza di mere cellule terroristiche - di popolazioni bistrattate dai propri Stati. Quali appunto i peul o i tuareg, marginalizzati durante il processo di State-building e ancora oggi.
LIMES Qual è il rapporto tra jihad e traffici? Il jihadismo ne costituisce la copertura ideologica?
GIRO Spesso i terroristi sono anche trafficanti. Il jihadismo si instaura sul territorio, funge oramai più da copertura identitaria che ideologica. È un fenomeno più rischioso dello spostamento di una “setta”, come i combattenti dello stato Islamico di ritorno dal teatro mediorientale, installatisi in Libia e poi spinti verso sud dopo essere stati cacciati da Sirte. Oppure il fenomeno dei foreign fighters che tornano in Tunisia o in Europa. In questo caso il radicamento territoriale e l’inculturazione forgiano un’identità, per quanto posticcia, facendo perno sugli errori dei governi come le politiche di marginalizzazione etnica. E debellare un’identità fatta propria dai locali è un’operazione molto più complessa.
LIMES Lei pensa che sia giusto per Roma guardare alla geopolitica africana soprattutto dalla prospettiva securitaria e migratoria?
GIRO L’emergenza migratoria va affrontata senza farne un’ossessione. Urge innanzi tutto ricostruire lo stato in Libia. Non che quello di Gheddafi fosse un modello virtuoso, ma almeno garantiva stabilità. L’ossessione migratoria deve convertirsi in proattività per evitare che altri paesi - quali Niger, Ciad, Mali, Mauritania, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan – conoscano derive simili a quella libica. Va altresì ridimensionata l’ossessione demografica. La verità è che il continente africano, a eccezione della Nigeria, è ancora sottopopolato. Per stabilizzare i fenomeni migratori occorre anche investire nel sistema scolastico pubblico, mentre abbiamo lasciato che l’istruzione in Africa si privatizzasse. Arginare peculiari forme di radicalizzazione, come in Somalia, dove si costruiscono università islamiche private, tendenzialmente fondamentaliste. E impedire che falliscano le città, oltre agli Stati. Kinshasa e Lagos, per esempio, sono enormi conglomerati nei quali nasce la liaison fra trafficanti di vario genere e migrazioni. Senza dimenticare le campagne, da sostenere con elettrificazione, sviluppo tecnologico e dell’agro-business. La produzione di cibo è interesse nostro e dei grandi investitori internazionali, a partire dai cinesi. Nell’immenso mondo rurale africano va combattuto l’effetto spillover dei fenomeni climatici (come nella regione del Lago Turkana, nel Kenya del Nord o quella del Lago Ciad), delle pandemie e della deforestazione selvaggia.
LIMES L’Italia gode di una qualche influenza nel Corno d’Africa? Quali sono le preoccupazioni maggiori nella regione?
GIRO Su tutte, la mai terminata guerra tra Eritrea ed Etiopia. Malgrado lo status di ex potenza coloniale non ci avvantaggi, abbiamo una relazione stretta con l’Etiopia, la quale si percepisce capitale d’Africa. È uno Stato plurinazionale dalla forte personalità, sede dell’Unione Africana, che intende ergersi a modello, con tutti i rischi e i difetti del caso.
Siamo altresì tra i pochi che dialogano con l’Eritrea, ma non riusciamo a sbloccarne l’impasse con l’Etiopia. Benché moderatamente aperti verso l’Italia, gli eritrei non intendono discutere il dossier etiope, anche perché lamentano la mancanza di un sostegno internazionale – Italia compresa – dopo che la Corte internazionale di giustizia ne ha riconosciuto le ragioni nel contenzioso frontaliero. Con la guerra in Yemen c’è stata un’apertura agli investimenti dei paesi del golfo e alla loro influenza eppure chiudono le scuole coraniche. Forte della propria identità e impermeabilità, l’Eritrea mira a l’edificazione di uno stato laico, una rarità nella regione, anche se consigliamo più moderazione ad esempio nelle relazioni con le religioni. Nel dossier della pace cerchiamo una maggiore flessibilità da parte di tutti.
Permangono irrisolte anche le tragiche questioni del Sud Sudan, dove imperversa una guerra etnica in cui si assiste a una recrudescenza delle violenze. La Somalia, malgrado un’economia funzionante, è in bilico tra le ipotesi unitaria e federale. Quest’ultima ha ripreso piede, giacché i rischi maggiori si concentrano nella zona Sud, in particolare a Mogadiscio, dove è attivo al_Šabāb. Le altre regioni non vogliono rimanerne ostaggio.
LIMES La geopolitica italiana in Africa la fa il ministro dell’Interno?
GIRO Il nostro governo è riuscito a invertire la tendenza all’approccio settoriale, armonizzando cooperazione allo sviluppo, diplomazia, sicurezza e imprenditorialità. Abbiamo riaperto ambasciate e rappresentanze diplomatiche importanti, come quelli di Niamey e Conakry. E abbiamo implementato iniziative in ambito economico, in cooperazione allo sviluppo, connettendole fra loro. Prova ne sia il bando della cooperazione per il settore privato vocato all’Africa. La Libia è un discorso parzialmente a sé stante. La vicenda è stata affrontata, soprattutto negli ultimi due anni, come una questione migratoria e quindi è rientrata nella sfera di competenza del ministero dell’interno. In questi anni abbiamo riorientato la cooperazione allo sviluppo per la creazione di lavoro in Africa, tramite la cooperazione stricto sensu ma anche gli investimenti. È fondamentale proseguire su questo sentiero di sinergia tra diplomazia, aiuti pubblici allo sviluppo e imprenditoria privata. La questione migratoria va affrontata concentrandosi sui paesi da dove originano i migranti. È un lavoro che va sviluppato coinvolgendo pienamente il settore privato, con cultura d’impresa e del lavoro, know how e occupazione. La connessione d’interessi è profittevole per tutti. In tal senso, l’Italia ha vinto la sua battaglia nell’Unione europea, con il Migration compact e l’External investment plan: un novo modo di concepire la cooperazione allo sviluppo.
LIMES Con quali paesi europei collaboriamo più strettamente in Africa?
GIRO Anzitutto con la Germania, mentre scontiamo qualche difficoltà con gli amici nordici, restii a combinare fondi pubblici e privati. Con la Francia abbiamo avuto problemi di posizionamento, in parte, superati, sulla Libia. La grande esperienza che Parigi vanta in Africa occidentale sta diventando appannaggio dell’Europa tutta.
LIMES Si può ancora parlare di Françafrique?
GIRO Soltanto in termini di reti, conoscenze e comunanza culturale. Sono assets che l’Europa sta ereditando. La Françafrique, nella sua concezione tradizionale, non esiste più. È oramai troppo complicato controllare un paese tramite un’élite dirigente impiantata nella capitale. Ne è riprova l’operazione militare francese contro i terroristi in Mali, avviata d’intesa con il Ciad nel 2012. Parigi ha in seguito chiesto e ottenuto il supporto europeo. È altrettanto emblematica l’esperienza del G5-Sahel. Cinque paesi africani – Niger, Ciad, Mali, Mauritania e Burkina Faso – decidono di costituire una forza militare congiunta per contrastare i fenomeni che flagellano la regione, con il sostegno di Francia, Germania, spagna, Italia e altri. Siamo in competizione economica con gli altri europei nel settore privato, ma ben venga se è indirizzata allo sviluppo dell’Africa.
LIMES E’ possibile riedificare uno Stato in Libia?
GIRO Sarà un processo lento, le cui redini spettano ai libici. La vulgata giornalistica dipinge un quadro composto quasi esclusivamente dai due fronti di Sarraj e Haftar – in realtà, lungi dall’essere monolitici. Senza considerare le altre parti del contendere, meno conosciute ma altrettanto determinanti. Vi sono almeno centocinquanta milizie le quali, oltre a usare i traffici per fare economia e sostentarsi, si son trasformate in Consigli rivoluzionari con un potere locale di cui non intendono privarsi. Per ricucire questa trama spezzata, oltre a ricomporre le faglie interne alla Libia, occorre responsabilizzare gli attori esterni coinvolti. Troppi paesi intendono profittare delle contingenze: non soltanto europei ma russi, qatarini, emiratini, egiziani, turchi… un’intesa tra le potenze che esercitano un’influenza sarebbe propedeutica a un accordo tra fazioni libiche. Una conferenza sulla Libia tra relevant powers sconta ostacoli e controversie sugli eventuali partecipanti. Come in occasione del tentativo fatto in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando è stata contestata la presenza del Qatar.
LIMES Perché la Libia attrae un tale volume di interessi?
GIRO Per le sue risorse e soprattutto perché rappresenta un vuoto geopolitico che, in quanto tale, finisce sempre per essere colmato. L’Egitto cerca di riacquisire l’influenza che esercitava in Cirenaica prima della colonizzazione italiana. Italia e Francia, rispettivamente, in Tripolitania – sulla scia dell’apogeo coloniale – e nel Fezzan, regione frontaliera delle ex colonie francesi. Il quadro è intricato dalla pluralità di attori dalle dispute fra élite sunnite. In Libia, esemplificando, si assiste anche a uno scontro sul ruolo dei Fratelli musulmani. Mentre Haftar, una delle anime del negoziato libico, si è presentato ai media occidentali come colui che in solitaria potrebbe unificare il paese. Ma né lui né Sarraj né il consiglio rivoluzionario di Misurata né le milizie di Tripoli possono unificare la Libia da soli o in assenza di una concertazione tra gli interessi delle controparti.
LIMES La nascita di uno Stato in Libia si tradurrebbe nella stabilizzazione dell’area e nell’emersione di un unico referente politico. È pensabile raggiungere il medesimo risultato erigendo un sistema non statuale?
GIRO E’ un piano alternativo sul quale dovranno esprimersi i libici che però non è confortato dall’esperienza della Somalia, alla quale la Libia somiglia per suddivisione strutturale in clan e tribù. Il neoinviato dell’Onu, Ghassan Salamé, sta cercando da tre mesi di aprire un nuovo round negoziale dopo gli accordi di al-Sahirat, i quali hanno prodotto risultati concreti bloccando gran parte degli scontri. Scaramucce a parte, la situazione nel paese si è stabilizzata. Anche nel Fezzan, dove tribù e tuareg hanno smesso di combattersi apertamente.
GIRO Contingente, qualora non si raggiungesse un accordo politico – non imponibile dall’esterno – che porti stabilità in Libia. Non è un caso che l’Unhcr chieda invano ai libici di svuotare i centri di detenzione. La statualità avrebbe portata risolutiva. Le milizie e gli altri soggetti devono concordare gli assetti della Libia futura. Invece, ognuna delle parti cerca di avvantaggiarsi affidandosi a partner esterni. È un gioco molto pericoloso, nel quale i mediatori divengono parti in causa. Da qui la rilevanza di un’intesa tra le potenze influenti nella regione. Un accordo parziale è già visibile e ha impedito, anche grazie all’azione italiana, che in Libia arrivassero armi pesanti capaci di accentuare l’intensità del conflitto. A Tripoli vigono ormai condizioni di vita accettabili.
LIMES 11/2017

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