Pandemia e shock climatici hanno fatto salire i prezzi delle materie prime alimentari già prima dell’invasione dell’Ucraina.
E’ il volto dell’altra guerra imperialista, quella in
particolare contro i popoli oppressi di Africa, Medio Oriente e Asia
L'economia dei paesi oppressi è dipendente dall'imperialismo e la guerra ha approfondito la crisi economica e la loro dipendenza, così come la pandemia e la distruzione dell'ambiente e del clima, causate sempre da questo sistema imperialista.
La crisi del grano è colpa della speculazione! Il cibo, in questo sistema capitalista/imperialista è fonte di profitti sulla pelle delle masse
Rivolte per il pane erano già scoppiate, dall'Africa al Kazakhistan nello Sri Lanka e noi vogliamo che ritornino a preoccupare gli imperialisti e a incendiare il mondo. Non sarà mai possibile risolvere il problema della fame e della carestia in questo sistema capitalistico se non si rovescia alla radice! L’unica soluzione è la rivoluzione proletaria e socialista!
Come ha affermato anche l'esperto di questioni alimentari delle Nazioni Unite alla riunione del Consiglio di sicurezza del 19 maggio 2022: "La guerra della Russia in Ucraina è solo benzina sul fuoco che sta già bruciando" e "quello che abbiamo di fronte non è un evento periodico. Piuttosto è un terremoto"
Ad avere in mano la produzione ucraina ci sarebbero - spiega l’analista Roberto Pecchioli - anche multinazionali in grado di esercitare pesanti pressioni sul governo di Kiev, che dipende finanziariamente dalle condizioni del Fondo Monetario e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, promotori della cessione delle terre agricole ai monopolisti. Tra di essi spiccano il fondo più potente del mondo, Black Rock, mentre altri squali (Monsanto, Archer Daniels Midland e Dupont)
controllano l’allevamento zootecnico, gli stabilimenti di fertilizzanti agricoli, l’infrastruttura commerciale, i silos granari - a partire da quello ucraino di Odessa - e la logistica dei trasporti. La Fao, che certamente non ha simpatie filo russe, ha affermato poche settimane fa che le scorte mondiali di cereali sono sostanzialmente stabili. La Banca Mondiale aggiunge che gli stock sono a livelli record e che tre quarti dei raccolti russi e ucraini sono già stati consegnati prima della guerra. Dunque, il grano è usato come arma economica per realizzare ulteriori profitti.Il
cibo, dunque, sarebbe in mano a un pugno di giganti privati, in grado di
affamare pezzi di mondo. Sempre la Fao lamenta che le quattro sorelle siano
responsabili di buona parte della deforestazione del pianeta e del tracollo
della biodiversità (-75% in dieci anni). A monte, c’è il fiorente mercato delle
sementi, un oligopolio ai cui vertici vi sono Chem China, Bayer-Monsanto,
Corteva e Lima Grain, più Badai (fitofarmaci). Aggiungiamo il potere dei
colossi della distribuzione alimentare come Walmart, Schwartz Group, Carrefour,
Nestlé e presto Amazon e ci accorgiamo che l’intera filiera del cibo è in mano
a non più di dieci giganti. Sopra di loro, i soliti fondi di investimento come
Black Rock, Capital Group, Vanguard Group, Sun Life Financial, State Street.
Non è un caso che perfino i guru miliardari della tecnologia informatica, come
Bill Gates, Jeff Bezos, George Soros, hanno acquistato nel tempo e in ogni
continente vasti territori ad uso agricolo.
la Commissione europea, spinta dai governi e dalla campagna di terrore su un’imminente carestia impostata dalle lobby agricole e dall’industria alimentare, ha esentato gli agricoltori dal vincolo di tenere a riposo il 4 per cento dei terreni. La politica agricola comune (Pac) garantisce sussidi ai produttori che decidono di lasciare queste nicchie incolte a beneficio di uccelli e insetti impollinatori, ma le nuove disposizioni mantengono il sussidio anche se quei terreni verranno spianati per piantarci mangimi per gli allevamenti intensivi. Il tutto pur non correndo alcun rischio alimentare. La messa a coltura dei terreni a riposo pone questioni ambientali. La filiera agroalimentare è responsabile per il 37 per cento delle emissioni gas climalteranti: mettere in produzione un terreno a riposo o incolto significa fare un uso maggiore di fertilizzanti, di diserbanti, di acqua.
da collettiva
L'aumento del prezzo dei cereali è in minima parte dovuto
alla guerra e al blocco in Ucraina. A causarlo sono le scommesse gestite dalla
finanza e i rincari dell'energia. La penuria riguarda Africa, medio e lontano
Oriente, non Italia e Ue. Ma lo spettro di una crisi alimentare (che non c'è)
rischia di aprire la strada in Europa all'agricoltura intensiva e agli Ogm
Navi cariche di grano bloccate nel porto di Odessa. Silos traboccanti di frumento che aspetta di essere distribuito. Ipotetici corridoi per fare transitare carichi di cereali verso i Paesi del Nord Africa. Le cronache dal fronte ucraino si sono arricchite in queste settimane di informazioni e dettagli su un’altra guerra, quella del grano, che minaccerebbe la sicurezza alimentare di mezzo pianeta, terrebbe in scacco la produzione italiana di pane e pasta, e starebbe causando gli aumenti vertiginosi dei prezzi di materie prime e prodotti trasformati.
Ma
le cose non stanno
esattamente in questi termini.
Il granaio d’Europa
Partiamo
dalla prima tesi che si dà per scontata: l’Ucraina è il granaio d’Europa. Non è
così. Era vero agli inizi dell’Ottocento, ma non oggi. E non lo sono neppure la
Russia e tutti i paesi riconducibili all’orbita ex sovietica: non sono
l’ombelico del mondo da un punto di vista del commercio alimentare mondiale. I dati possono aiutarci a
capire.
Russia e Ucraina producono il 14 per cento del grano tenero
mondiale (10+4) e il 4 per cento del mais (1+3), e poco grano duro. Per l’Italia rappresentano un mercato
tutto sommato marginale: da loro importiamo il 3,2 per cento del grano tenero e
il 2,5 del grano duro. Eppure, il prezzo del primo è cresciuto
del 70 per cento rispetto al 2021 e quello del secondo dell’85 per cento, con
effetti che si fanno sentire sul prezzo di pane e pasta. Quindi questi aumenti
dipendono solo in minima parte dal conflitto.
La speculazione finanziaria
“In Italia e
in Europa non c’è un problema di quantità – sostiene Alessandro Volpi, docente
di storia contemporanea al dipartimento di scienze politiche dell’università di
Pisa -. La produzione mondiale di cereali è di 2.800 milioni di tonnellate e i
grandi esportatori, Russia, Canada, Stati Uniti, in parte Australia, la stessa
Unione Europea, sono nelle condizioni di supplire con notevole facilità alla carenza causata dal
blocco della materia prima in Ucraina. Stiamo parlando di 20-30
milioni di tonnellate ferme nei porti. Quello che ha fatto schizzare alle
stelle i prezzi, come ha rilevato anche la Fao, non può essere quel pezzetto di
produzione ucraina”.
Allora qual è il problema? “Sostanzialmente dipende dalla speculazione finanziaria che è iniziata ben prima della guerra – prosegue il professor Volpi – Il mercato dei cereali, come quello dell’energia, vive di un’aspettativa dell’andamento, con vere e proprie scommesse che determinano il prezzo. Se c’è un conflitto, se ogni giorno si ricorda che il grano ucraino è bloccato, se si annunciano ulteriori restrizioni alla produzione, le scommesse saranno al rialzo, sul fatto che i prezzi tenderanno ad aumentare”.
Le scommesse sul grano
È ciò che sta
accadendo in questa fase. I fortissimi rincari, 410-420 dollari a tonnellata è
la quotazione attuale, non sono proporzionali alla penuria di materia
prima. Sono solo
frutto di un’aspettativa futura. “Questi contratti sono i
cosiddetti ‘derivati’:
lo scommettitore li compra oggi a 30 e li rivende domani a 40. Si tratta di
un’enorme quantità di contratti venduti da soggetti che non hanno niente a che
fare con il grano, banche di investimento, fondi hedge. Non è il grande
panificatore europeo o americano, sono soggetti fuori dai circuiti della
produzione che usano i titoli derivati per fare speculazione finanziaria, a
ogni step sempre più raffinata. Una pratica che fino agli anni Novanta non era
consentita su questi beni perché l’Organizzazione
mondiale del commercio non lo ammetteva. Poi le normative hanno liberalizzato il
settore, consentendo l’utilizzo di strumenti finanziari anche per beni come il
grano che alimentano l’intera popolazione mondiale”.
Che cosa rischia di affamare il mondo
Non è
la quantità di produzione che rischia di affamare il mondo, dunque, ma il
livello dei prezzi.
E poi altri fattori: l’improvvisa decisione dell’India di fermare le esportazioni
di grano, che ha portato altri Paesi a tenersi ben stretto quello che hanno in
casa o a procedere con accaparramenti, come sta facendo la Cina, mosse che
hanno fatto salire ulteriormente le quotazioni.
Economie fragili
Secondo
l’agenzia dell’Onu World
Food Programme, in Africa Orientale, dove grano e prodotti a
base di grano rappresentano un terzo del consumo medio di cereali, il 90 per
cento delle importazioni proviene da Mosca e Kiev. Per la Fao, Kazakhstan,
Mongolia, Armenia, Azerbaijan e Georgia dipendono quasi al 100 per cento dal
grano russo, mentre hanno una dipendenza tra il 50 e il 100 per cento
Bielorussia, Turchia, Finlandia, Libano, Pakistan e molti Paesi africani.
L’Egitto comprava dall’Ucraina il 22 per cento del proprio fabbisogno, la
Tunisia il 49, la Libia il 48, la Somalia il 60, il Senegal il 20. Poi ci sono
i Paesi del medio e lontano Oriente: Turchia, Bangladesh, Indonesia, Cina,
Corea del Sud, Vietnam.
Mosca si finanzia la guerra
“La Russia
sta continuando a esportare, anzi ha aumentato le esportazioni, come per il
gas, e lo fa a prezzi più alti: in questo modo si finanzia il conflitto”
precisa Volpi. Un
incremento del 60 per cento per la precisione, da marzo
scorso, cioè da quando è iniziata la guerra, di cereali diretti in Turchia,
Egitto, Libia, Nigeria.
Secondo i calcoli della Fao le persone nel mondo che rischiano di
soffrire la fame saliranno a 440 milioni. Una crisi che viene da lontano e solo
in minima parte è dovuta alla guerra ma che non riguarda l’Italia e neppure
l’Europa.
Nessun commento:
Posta un commento