I padroni e il
governo fascio-populista Di Maio-Salvini precipitano l’Ilva in una
nuova fase acuta della crisi che mette ulteriormente in discussione i
posti di lavoro, salari, diritti degli operai, il piano di
trasformazione dell’Ilva e il piano di bonifica e risanamento
ambientale dei quartieri popolari aggrediti dall’inquinamento.
La fabbrica resta
intanto in mano ai commissari, continua il suo processo di degrado
delle condizioni di lavoro, di sicurezza che mettono quotidianamente
a rischio di infortuni e morte.
Ripartiamo dalla
storia concreta più recente.
Da anni questa
fabbrica è nelle mani dello Stato, è gestita dai governi tramite i
commissari; dal 2017 essa è stata virtualmente ceduta ai nuovi
padroni indiani dell’ArcelorMittal; da mesi è in corso una
trattativa romana, intorno al piano della Mittal che è fondato su
10mila operai assunti, 4000 scaricati e gli operai dell’appalto con
un futuro prevalente di licenziamenti e cassintegrazione permanente.
A questo la Mittal ha aggiunto una novazione contrattuale che,
tramite le vigenti leggi, fino al jobs act, comporta tagli di salari
e di diritti acquisiti. Sul piano ambientale, invece, l’unica cosa
è l’avvio
effettivo della copertura dei parchi minerali, di cui
strada facendo si sono espresse disponibilità ad accelerare i tempi
di realizzazione; quasi niente sul fronte di un’ampia bonifica,
ambientalizzazione della fabbrica con nuove tecnologie, nuovi
impianti e massimo irrigidimento delle misure a tutela della
sicurezza in fabbrica.
A questo piano vi è
stata finora solo una chiara risposta alternativa, quella proposta
dallo Slai cobas per il sindacato di classe, fondata su non solo
esuberi zero, salvaguardia dei salari e dei diritti per tutti i
lavoratori, ma anche utilizzo pieno degli operai dipendenti, tutti
assunti Mittal, per tutti i lavori di bonifica interna, primato della
sicurezza, con una postazione ispettiva, Asl/Ispettorato del lavoro,
permanente in fabbrica, salvaguardia dell’appalto, distinguendo tra
appalto permanente che deve avere condizioni di salario e sicurezza
paritari a quelli degli operai Ilva e la conservazione del posto di
lavoro attraverso un meccanismo che con senta il travaso degli operai
da una ditta dell’appalto all’altra; l’applicazione di un nuovo
contratto siderurgica più adeguato alle condizioni effettive di
lavoro degli operai Ilva e un massiccio prepensionamento – 25 anni
bastano, avevamo detto – che avesse la funzione di salvaguardare
soprattutto la salute e risarcire gli operai prime vittime delle
morti da lavoro, inquinamento.
Infine, una
riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Avevamo chiesto fin
dall’inizio, noi e solo noi, che tutto questo andasse in quello che
abbiamo chiamato “decreto operaio”, unica forma per vincolare
qualsiasi governo, qualsiasi padrone che acquisisse l’Ilva,
qualsiasi trattativa sindacale.
Tutti i sindacati in
fabbrica, quelli confederali e poi l’Usb divenuto una sorta di 4°
sindacato con la stessa logica dei sindacati confederali – ci sono
numerosi esempi a dimostrazione di questo che via via noi abbiamo
denunciato – non hanno fatto propria questa piattaforma nel suo
insieme e hanno partecipato invece al teatrino inscenato da padroni,
governo, istituzioni, commissari, ecc.
Era chiaro che
questo “decreto operaio” poteva essere solo frutto di una lotta
dura, prolungata e generale, che lo imponesse a qualsiasi governo, a
qualsiasi ministro. Su questo non solo i sindacati in fabbrica non ci
hanno seguito, ma non è emersa neanche tra le fila operaie una
giusta ribellione e autorganizzazione. I sindacati confederali ora
divisi ora uniti hanno partecipato ad un’eterna trattativa; la
Fim/Cisl di Bentivogli si è legata mani e piedi al governo con
l’asse Calenda/Bentivogli; la Uilm, sindacato maggioritario, non ha
fatto assolutamente nulla per cambiare lo stato delle cose, anzi è
stata decisiva per mantenere la fabbrica in stand-by, in stretta
alleanza coi commissari; la Fiom dai tempi di Landini è
sostanzialmente un sindacato inutile con un piede in due staffe;
l’Usb ha nascosto dietro gli strilli sulla “nazionalizzazione”
una ricerca ossessiva di partecipazioni ai Tavoli, per fare
esattamente quello che hanno fatto gli altri, certo, ogni tanto si è
alzata dal tavolo, scontrandosi in particolare con Calenda, ma per
legarsi mani e piedi ad Emiliano che ha usato la vicenda Ilva nel
quadro della lotta all’interno del PD nella vicenda nazionale.
All’esterno della
fabbrica l’ala ambientalista ha avuto una sola posizione, la
chiusura della fabbrica, l’attacco agli operai, posizioni che nel
contesto attuale non potevano che servire i piani di divisione di
padroni e governo e l’accerchiamento degli operai. Il braccio degli
ambientalisti nella fabbrica sono stati i ‘Liberi e pensanti’ che
nulla hanno fatto né in fabbrica né fuori per difendere realmente
la condizione operaia e per lavorare all’unità tra operai e masse
popolari, unica arma da opporre a padroni, governo e Stato. Anzi, non
è vero che non hanno fatto nulla, sono stati “cavalli di troia”
per la penetrazione nella fabbrica di un movimento estraneo ai
lavoratori, alla loro lotta, il M5S che ha usato il “doppio
linguaggio”, tipo degli ingannapopolo, di dire di volere la
chiusura, mentre a Roma si alleava con il partito legato a Riva e
agli industriali dell’acciaio del nord.
In questo stato
delle cose tutti hanno lavorato in quella che abbiamo chiamato “la
tempesta perfetta”, ognuno per suo conto per arrivare allo stesso
risultato.
Che solo la lotta,
la piattaforma operaia, il decreto operaio poteva contrastare e
scongiurare.
Con la formazione
del nuovo governo i nodi sono tornati al pettine.
Di Maio ha preso in
mano la questione per trasformarla in quella che in queste ore viene
chiamata “caos calmo”.
La prima cosa che Di
Maio ha smentito, da bravo ingannapopolo, che i 5stelle al governo
vuole la chiusura dell’Ilva, con buona pace di chi gli ha fatto la
campagna elettorale e l’ha sostenuto, ambientalisti, piccola
borghesia e media borghesia locale e una fetta degli operai che si
sono prestati all’inganno. Quindi ha aperto al demagogo
reazionario, Emiliano, con la cosiddetta “verifica della gara
d’appalto”, per buttarla chiaramente in caciara.
Ma anche su questo
le cose non stanno come dice Di Maio. Le osservazione dell’Autorità
Anac – stranamente molto rapida e limitate a problemi di procedura
– non cambiano la sostanza del problema. La cordata AcciaItalia ha
accettato tutto di questa procedura, non ha mai fatto alcun ricorso,
né ha fatto alcuna obiezione; lo slittamento dell’asta è stato
concordato tra AmInvestco, AcciaItalia e governo; lo slittamento
delle scadenze intermedie non ha avuto alcuna influenza nella gara
d’appalto. L’unica differenza riguardava la possibilità del
rilancio da parte di AcciaItalia, a quanto pare dell’ordine di
50milioni di euro, e su questo durante la gara, a quesito del
governo, nessuno ha fatto obiezioni, Anac compresa. Mentre è
totalmente falso che le condizioni poste da AcciaItalia fossero
migliori di quelle di ArcelorMittal, in materia di esuberi, diritti e
salari dei lavoratori, gli occupati erano meno, non erano
riconosciuti gli scatti di anzianità né il pregresso, i soldi per
il piano ambientale erano di meno, compresi quelli per la copertura
dei parchi minerali; della cordata AcciaItalia faceva parte Arvedi
che è l’industriale immediatamente dopo Riva distruttore di
salute, ecc.
Quindi, Di Maio
inganna e ciurla nel manico su questo.
Sanno bene lor
signori che l’annullamento della gara ha solo un’alternativa, No
una nuova gara che avverrebbe in condizioni ancora più disperate,
data la crisi del mercato e degli impianti, ma la nazionalizzazione.
Tutti questi mesi hanno già dimostrato ampiamente che l’azienda
nerlle mani dello Stato e del governo è andata peggio su tutti i
terreni rispetto allo stesso periodo di Riva.
Il M5S non ha mai
dichiarato in tutti questi anni di volere la nazionalizzazione della
fabbrica, bensì la sua chiusura. Ma anche la nazionalizzazione non
cambierebbe assolutamente i tremini della questione, nell’attuale
situazione l’azienda nazionalizzata, per stare nel mercato
mondiale, nella fase di protezionismo e guerra commerciale scatenata
da Trump, dovrebbe anch’essa stare alle leggi di questo mercato, di
questa guerra: più lavoro, più sfruttamento, meno operai, taglio
dei salari, taglio della sicurezza e una quantità di denaro dello
Stato – che poi sono i lavoratori e i cittadini che pagano – che
nessun governo nello Stato capitalista è in grado di mettere in
campo per il risanamento.
Il problema, quindi,
torna alla casella iniziale, e i lamenti attuali dei sindacati sono
patetici e si muovono lungo la logica di “salvare il salvabile”,
sempre e comunque sulla pelle degli operai e con piani ambientali e
di bonifica assolutamente insufficiente e inadeguati – mai i
sindacati hanno portato ai Tavoli un loro piano di
ristrutturazione/ammodernamento degli impianti, con uso delle
tecnologie più avanzate per renderli meno nocivi.
La “soluzione” è
sempre quella dell’inizio: lotta generale ad oltranza,
autorganizzazione, piattaforma operaia, decreto operaio.
Se l’Ilva – come
dicono tutti – è così importante, la classe operaia può imporre
il suo programma!
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