mercoledì 4 agosto 2021

pc 4 agosto - Licenziata perché incinta: il tribunale condanna l’azienda multinazionale alla riassunzione e a pagare un risarcimento

L’arroganza del fascismo padronale si vede dalle dichiarazioni scritte nella sentenza che parla di ritorsione e che condanna la multinazionale: “Il datore di lavoro però non si aspettava la tenacia della lavoratrice nel portare avanti la vertenza.”

“Pensava, annotano i giudici, di poter chiudere bonariamente come fatto «in altre sedi dislocate sul territorio nazionale dove era risultato sufficiente procedere al trasferimento e al licenziamento di altre neo mamme per poi addivenire ad accordi transattivi con le stesse». (il manifesto di oggi).

La multinazionale ha utilizzato come sempre una serie di notizie false: “«Gli affari dell’azienda non vanno benissimo, non puoi lavorare più qui, ti mandiamo a 257 chilometri di distanza».”

Ma nella sentenza c’è scritto «Che tanto fosse avvenuto in ragione della sopravvenuta maternità della ricorrente era dimostrato anche dai floridi risultati economici conseguiti nel periodo di interesse proprio presso la filiale di Cosenza, che smentivano in radice il giustificato motivo oggettivo»…

"L’Istituto Helvetico Sanders - conclude il manifesto - pensava che l’Italia non fosse un paese per mamme. Da oggi dovrà ricredersi." Purtroppo coloro che si devono ricredere sono proprio i giornalisti del manifesto perché questo paese avanza nel moderno fascismo, di cui il fascismo padronale è parte, e non sarà una sentenza, per quanto positiva in questo caso, a cambiarne il corso!

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Licenziata perché mamma, la Corte la reintegra: «Fu una ritorsione»

Lavoro. La storia di Sara Guerriero: prima l’azienda l’aveva trasferita a 250 chilometri di distanza, poi l’aveva cacciata. Per il tribunale d'Appello di Cosenza si è trattato di un licenziamento ritorsivo e discriminatorio. Una sentenza destinata a fare giurisprudenza 

Lavoratrici in un'azienda italiana

La maternità è da sempre «un guaio per la produzione», canta la Banda Bassotti, un ostacolo al profitto, un problema per le aziende. E per Sara Guerriero il trasferimento da Cosenza a Salerno era scattato dopo aver dato alla luce un bambino. Una coincidenza?

«Non è mai troppo tardi», recita uno spot dell’Istituto Helvetico Sanders, l’azienda di cui la neo mamma era dipendente. Gli comunicarono che a causa della crisi doveva trasferirsi da Cosenza a Salerno. Un ricatto vero e proprio, un provvedimento discriminatorio per il suo status di madre. In effetti non è mai troppo tardi per perdere il posto di lavoro nell’Italia neoliberista. E se un giudice di prime cure decide che devi essere richiamata in sede, pazienza. L’azienda ti trasferisce lo stesso.

È stata una battaglia infinita, lunga ed estenuante, quella di Sara, a colpi di cause, denunce, lettere di trasferimento, accorate richieste di mediazione. E poi la campagna stampa, i servizi delle Iene, gli inviti in Rai. «Gli affari dell’azienda non vanno benissimo, non puoi lavorare più qui, ti mandiamo a 257 chilometri di distanza». Prendere o lasciare. Lei non solo non ha lasciato ma ha combattuto.

E alla fine ha vinto. E i «guai» per Farmasuisse Srl e Sanders cominciano proprio da oggi: una sentenza della sezione Lavoro della Corte di Appello di Catanzaro, presieduta dal giudice Emilio Sirianni (consiglieri Rosario Murgida e Antonio Cestone), ha condannato a una pesante indennità risarcitoria la multinazionale elvetica e ha ordinato l’immediato reintegro della lavoratrice cosentina, patrocinata dall’avvocato Giuseppe Lepera. Guerriero fu prima trasferita e poi di fatto estromessa dall’azienda, subito dopo aver messo al mondo un bimbo. «Il suo licenziamento è ritorsivo e discriminatorio», sentenzia ora la Corte.

La giovane lavoratrice, sebbene in tanti anni di servizio fosse stata impeccabile e professionale, appena divenuta mamma fu posta di fronte a un ricatto: accettare il trasferimento a 250 km dalla sede originaria o essere licenziata. Sara si ribellò, raccontò tutto a il manifesto, che nell’edizione del 3 marzo 2017 pubblicò la sua vicenda. La solidarietà fu massiccia.

«Posso ritenermi fortunata – spiega – perché la mia non è una famiglia monoreddito, quindi ho potuto attendere da disoccupata il tempo necessario per ottenere giustizia. Ma penso a tantissime colleghe che non vivono la stessa condizione e si vedono costrette a subire in silenzio o accettare formule compromissorie forzose».

La storia di Sara è narrata in La spettabile F., scritto da Luca Scarpelli, e pubblicato da Edizioni Erranti nel 2020. Il libro ricostruisce la vertenza in tutte le fasi, rivela i contraccolpi psicologici, squaderna il dramma umano di una donna privata del posto di lavoro nel momento più delicato della propria esistenza. Dal romanzo traspare la volontà di riscatto, la scelta coraggiosa di ribellarsi, la consapevolezza che tale gesto stimolerà tante altre donne a non sottomettersi.

Il gelido linguaggio burocratico con cui l’azienda comunicava l’esubero della segretaria Guerriero, inquadrata nel 4 livello Ccnl studi professionali, «per un processo di riorganizzazione finalizzata a ridurre i costi legati alle sedi operativa in modo da far sì che il numero degli operatori sia confacente alle effettive esigenze aziendali ed ai reali volumi di attività /redditività e alle scelte imprenditoriali adottate per l’organizzazione delle attività di sede e il contenimento dei costi», celava dunque una cinica volontà «discriminatoria», «ritorsiva» e «vendicativa».

I giudici dell’Appello riformando la sentenza di primo grado rimarcano che la scelta aziendale di sopprimere un posto di lavoro nella sede di Cosenza non era frutto di legittima scelta imprenditoriale. «Che tanto fosse avvenuto in ragione della sopravvenuta maternità della ricorrente era dimostrato anche dai floridi risultati economici conseguiti nel periodo di interesse proprio presso la filiale di Cosenza, che smentivano in radice il giustificato motivo oggettivo», scrivono i giudici catanzaresi.

Un provvedimento che farà giurisprudenza, che tira una linea sul modo di fare impresa a danno delle lavoratrici madri. «A ulteriore dimostrazione del solo intento vendicativo alla base della decisione aziendale di espellere la lavoratrice, vi era anche il clamore mediatico che la vicenda aveva suscitato sin dal secondo trasferimento e, a seguire, dopo il licenziamento». Il datore di lavoro però non si aspettava la tenacia della lavoratrice nel portare avanti la vertenza.

Pensava, annotano i giudici, di poter chiudere bonariamente come fatto «in altre sedi dislocate sul territorio nazionale dove era risultato sufficiente procedere al trasferimento e al licenziamento di altre neo mamme per poi addivenire ad accordi transattivi con le stesse». L’Istituto Helvetico Sanders pensava che l’Italia non fosse un paese per mamme. Da oggi dovrà ricredersi.

https://ilmanifesto.it/licenziata-perche-mamma-la-corte-la-reintegra-fu-una-ritorsione/

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