L'editoriale del Corriere della Sera di domenica 13 giugno chiarisce, non certo solo per conto della Fiat ma per l'insieme della borghesia imperialista italiana, la portata dello scontro. Perlomeno sul piano “economico” dato che sul piano istituzionale generale il punto di riferimento è la proposta e l'azione per modificare la Costituzione nell'art. 41 che riguarda il potere delle imprese.
Scrive Dario Di Vico: quello che “si prospetta (è) un vero quesito, il sistema italiano delle relazioni industriali imperniato su contratti nazionali e Statuto dei Lavoratori è... irrimediabilmente datato... impedisce di crescere... fa finta di non vedere che in Italia operano già centinaia di lavoratori asiatici in condizione di schiavitù...”. Si dice chiaro, quindi, che partendo da questa constatazione occorre portare a queste condizioni la condizione operaia nelle fabbriche italiane.
Prosegue Di Vico: “Le relazioni industriali centralizzate dimostrano di non essere attrezzate a far fronte alla nuova emergenza, la disoccupazione. Nei prossimi mesi conosceremo un po' di ripresa ma non avremo occupazione in più... crescere e occupazione non sono più sinonimi, hanno divorziato, i posti di lavoro persi non verranno recuperati e la ristrutturazione delle imprese taglierà gli addetti”. Dario Di Vico parla come un “marxista puro” e spiega le leggi del capitale nella crisi e considera quindi, contratti nazionali, Statuto dei Lavoratori e più in generale la Costituzione ormai un ostacolo all'affermazione della dittatura del capitale nella crisi. Di qui l'esigenza generale di una dittatura tout court, il moderno fascismo padronale e statale.
E che di questo si tratti a Pomigliano, lo dice in forme esplicite: “E' in questo contesto nel quale va collocato il rebus di Pomigliano, la scelta che sta di fronte al sindacato di consentire una deroga ai “sacri principi”. L'attacco alla Fiom che segue nel suo articolo viene spiegato, poi, non come abolizione del sindacato ma nuovo ruolo in effetti del sindacato stesso che “rimetterebbe al centro la qualità della manodopera e del prodotto made in Italy”. Il sindacato neocorporativo in sintonia con l'attuale fase di dittatura del capitale.
Ma qui Di Vico aggiunge un utile rilievo che chiunque si sta occupando di Pomigliano dalla parte della Fiom e in generale del movimento operaio non coglie abbastanza. Questo sindacato non nasce ora nell'accordo Pomigliano ma è già operativo da tempo nelle fabbriche del nostro paese e che chiunque lotti effettivamente sulle posizioni del sindacalismo di classe nelle fabbriche conosce già bene; cioè quel sindacato unitario come sempre, ben al di là delle chiacchiere e contese dei vertici dei dirigenti Fim e Uilm e dei parolai Rinaldini, Cremaschi.
Scrive Di Vico che quest'accordo non è la morte del sindacato, dato che si realizzano già accordi di questo tipo: “se ne parla troppo poco, ma sono stati raggiunti a livello decentrato molti accordi innovativi, numerose intese che guardano coraggiosamente al domani, senza paura di sporcarsi le mani...”.
E questo “sindacalismo innovativo” ha fatto da base e da riferimento dell'attuale salto di qualità del fascismo padronale e del neocorporativismo, tanto che – scrive ancora Di Vico: “E' proprio in virtù di queste esperienze condivise, il Min. Sacconi ha potuto annunciare a Santa Margherita Ligure che il nuovo Statuto dei Lavori prevederà esplicitamente la possibilità di derogare alla legge 300 in presenza di un intesa tra le parti”.
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