venerdì 3 agosto 2012

pc 3 agosto - Sulla trattativa Stato-mafia... Napolitano si indigna

A 20 anni dalle stragi di mafia di Capaci e via D'Amelio che hanno ucciso i giudici Falcone e Borsellino, in mezzo alle rituali manifestazioni “antimafia” che si svolgono tra maggio e luglio, si è inserita una nuova polemica, che sa di vecchio, tra i magistrati di Palermo e il presidente della Repubblica Napolitano.

Questa polemica era stata anticipata da un'altra scatenata dal giudice Scarpinato che si era detto imbarazzato di partecipare alle ricorrenze “per la presenza talora tra le prime file nei posti riservati alle autorità di personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione dei valori di giustizia e di legalità per i quali Borsellino si è fatto uccidere”. La famiglia Borsellino e l'associazione dei magistrati si sono schierati a difesa di Scarpinato che è stato subito attaccato dal Consiglio Superiore della Magistratura (su iniziativa di un membro del Pdl) che voleva trasferirlo per incompatibilità!

I magistrati di Palermo sono impegnati oramai da anni in indagini sul rapporto tra mafia e politica e ultimamente in particolare sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia: per questo a fine luglio hanno rinviato a giudizio 12 persone tra mafiosi - Bernardo Provenzano, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca; e uomini delle istituzioni che avrebbero fatto da intermediari, Calogero Mannino, il senatore Marcello Dell’Utri e gli ex ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Nell’elenco degli imputati anche Massimo Ciancimino e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Proprio Mancino, preoccupato per la sua posizione nell'inchiesta avrebbe fatto pressioni e telefonato a D'Ambrosio, consulente giuridico del Presidente, da questi tanto apprezzato e compianto (D'Ambrosio è morto qualche giorno fa), e allo stesso Presidente.

Il motivo scatenante del risentimento del Presidente della Repubblica è stato il fatto che è diventata di dominio pubblico una intercettazione telefonica di una conversazione tra gli uffici del Presidente e l'ex ministro Mancino oggettivamente coinvolto in un'inchiesta di mafia.

Il Presidente dice che secondo la Costituzione e le leggi vigenti queste intercettazioni devono essere distrutte perché non si può indagare sul capo dello stato, mentre i giudici, in particolare Ingroia, afferma che non c'è bisogno, sia perché l'intercettazione non era nei confronti del Presidente, sia perché non è stata usata e sia perché le leggi non dicono esattamente quello che afferma il Presidente. L'esito giuridico di questo scontro lo si avrà a settembre dalla Corte Costituzionale presso la quale è stato depositato il ricorso dall'Avvocatura dello Stato a nome di Napolitano.

Questa polemica, tra istituzioni e magistrati, è nuova perché tocca direttamente il capo dello Stato, sa di vecchio perché i magistrati che portano avanti le indagini sulla trattativa stato-mafia ancora una volta (come è stato per Falcone e Borsellino) vengono osteggiati dalle istituzioni e si sentono isolati. L'accanimento con cui ha reagito e su cui insiste il Presidente ha spinto in particolare il giudice Ingroia a dire che se c'è una “ragion di stato”... allora lo si dica e le indagini verranno interrotte! Ingroia ha così preso sul serio la cosa che ha deciso di cogliere l'offerta di un incarico dell'ONU in Guatemala per allontanarsi da Palermo.

Sulla trattativa e i suoi risvolti si è puntata, quindi, adesso l'attenzione di tutti: la Repubblica del 31 luglio riassume bene la questione: «la trattativa non è "supposta" o "ancora da verificare in sede processuale", una corte di assise ha già detto che è stata "indubbiamente" avviata fra il 1992 e il 1994.»

Estrapoliamo alcune frasi dall'articolo che riportiamo in fondo:

“L'iniziativa [della trattativa] fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia". "Dalla disamina delle dichiarazioni di soggetti di così spiccato profilo istituzionale esce un quadro disarmante che proietta ampie zone d'ombra sull'azione dello Stato nella vicenda delle stragi".

In altre parole, per quanto riguarda le uccisioni di alcuni politici “eccellenti”, come Lima, si è trattato di una resa dei conti tra mafia “politica” e mafia criminale, per quanto riguarda i giudici si è trattato di stragi di Stato perché le indagini stavano portando pericolosamente vicino ai nomi di quegli esponenti dello Stato direttamente coinvolti. “Siamo entrati nella stanza della verità... ma siamo al buio” ha detto Ingroia.

20 anni, dunque, e sembra che nulla sia cambiato se ancora una volta dei giudici devono accusare i vertici dello Stato di intromettersi per impedire che si arrivi alla verità...

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«Ci sono documenti che parlano da quasi vent'anni di questo accordo per fermare le bombe. Informative di polizia. Atti acquisiti negli archivi dell'amministrazione penitenziaria. Testimonianze di investigatori dei reparti speciali, di ex ministri, di funzionari del ministero di Grazia e giustizia e - se valgono ancora qualcosa - di mafiosi pentiti. Infine c'è il verdetto di un collegio giudicante - quello di Firenze - che appena qualche mese fa ha condannato una quindicina di boss per le bombe di via dei Georgofili (tra loro i soliti Totò Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Graviano) e poi ha dedicato cento delle cinquecentoquarantasette pagine della motivazione della sentenza esclusivamente al movente degli attentati in Continente e, appunto, alla trattativa. Sono datate marzo 2012. Si legge nella prima di quella cento pagine: "Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia".

«Non è stata solo la procura di Palermo a indagare sui misteri di quella stagione di sangue. L'ha fatto quella di Caltanissetta che ha scoperto un gigantesco depistaggio nell'inchiesta iniziale sull'uccisione di Paolo Borsellino, e ancora sta investigando sulle "anomalie" dell'attentato all'Addaura nel giugno del 1989 contro Giovanni Falcone e sul massacro di Capaci. L'ha fatto la magistratura di Firenze che aveva anche il compito di scoprire i "mandanti altri" di quegli attentati, scavando sullo stesso fronte dei pubblici ministeri palermitani e ascoltando in aula testi come l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino o come l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Scrivono di loro i giudici di Firenze: "Dalla disamina delle dichiarazioni di soggetti di così spiccato profilo istituzionale esce un quadro disarmante che proietta ampie zone d'ombra sull'azione dello Stato nella vicenda delle stragi". E ancora i giudici fiorentini ricordano come fu revocato, subito dopo le bombe, il carcere duro per centinaia di mafiosi, un chiaro segnale "di cedimento alla mafia".

«Le risultanze investigative dei pm di Palermo sono pressoché simili. E alle stesse conclusioni sono arrivati anche i magistrati di Caltanissetta, titolari delle inchieste sulle stragi di Capaci e di via D'Amelio e che hanno svelato il depistaggio messo in opera da apparati dello Stato - il "Gruppo Falcone Borsellino", incaricato con decreto governativo d'indagare sulle bombe che hanno ucciso i due giudici - e che hanno portato qualche mese fa alla revisione del processo Borsellino, allo sbugiardamento del falso pentito Vincenzo Scarantino e alla liberazione di sette innocenti scarcerati dopo diciassette anni con sentenze passate in giudicato.
C'è in sostanza una convergenza investigativa fra le varie procure italiane - e con il coordinamento della procura nazionale di Pietro Grasso - nonostante qualche contrasto inevitabilmente affiorato sulla strategia da seguire in certe fasi delle indagini.

«D'altronde, questa storia della trattativa ha compiuto quasi vent'anni. Per la prima volta quella parola è comparsa in un'informativa dell'11 settembre 1993 inviata dal Servizio centrale della Polizia di Stato alla commissione parlamentare antimafia. Oggetto: "Attentati verificatisi a Roma, Firenze e Milano. Per quanto d'interesse si trasmette appunto riservato concernente gli attentati". Il testo che ne seguiva: "Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di "trattativa" con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l'organizzazione: il "carcerario" e il "pentitismo".. ". E ancora: "Nel corso di riservata attività investigativa funzionari del Servizio hanno acquisito notizie fiduciarie di particolare interesse sull'attuale assetto e sulle strategie operative di Cosa Nostra". Mettere bombe "per intimidire, destabilizzare e creare i presupposti di una "trattativa", per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali".

«Dopo le bombe il 41 bis è stato effettivamente cancellato per centinaia di mafiosi e "alleggerito" per altri. Una nuova legge sui collaboratori di giustizia c'è stata. E intanto è arrivato a governare l'Italia Silvio Berlusconi con il suo fedele amico Marcello Dell'Utri. È in quel momento che gli attentati sono finiti. Ed è questa l'ultima parte dell'inchiesta sulla trattativa dei pm di Palermo: capire perché la mafia non ha seminato più terrore come nei due anni precedenti. I magistrati di Firenze si trovano in qualche modo d'accordo con quelli di Palermo anche su questo punto. Scrivono nelle motivazioni della sentenza sulla strage dei Georgofili: "Non ha trovato consistenza l'ipotesi secondo cui la nuova "entità politica" (Forza Italia ndr) che stava per nascere si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi". Ma i giudici sospettano anche "che una svolta nella direzione politica del paese fosse stata vista dalla mafia come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino". Tutto sommato Cosa Nostra era contenta di come stavano andando le cose in Italia in quell'inizio del 1994, quando Berlusconi si preparava a diventare premier per tre volte in quindici anni.»

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