martedì 22 febbraio 2011

pc quotidiano 22 febbraio - La "verità" dei padroni per il sostegno all'assassino Gheddafi

Questo articolo del quotidiano Il sole 24 ore di oggi è un’autoaccusa dei padroni, una lucida analisi del perché succede quel che succede in Libia, e anche in altri paesi, dal quale si vede chiaramente quanto vero deliberato cinismo ci sia dietro gli affari e dietro le chiacchiere della Marcegaglia, per esempio, quando parla di “etica come fondamento dell’impresa”. Poi aggiunge però che “L’etica è un fondamento dell’impresa anche perché contribuisce a produrre migliori utili”. Infatti, costi quel che costi!

Il titolo dell’articolo, si capisce, tenta di sminuire le responsabilità dei padroni e dei loro rappresentanti politici e dei loro servizi segreti, dato che non è vero che l’“Occidente”, e cioè i paesi imperialisti, hanno tenuto gli occhi chiusi, anzi tutto questo non è che un limpido esempio delle politiche di saccheggio delle risorse dei popoli da parte dei padroni del mondo, dei paesi imperialisti tramite politici locali, che in altri termini si chiama borghesia compradora, di qualsiasi colore essa si vesta.

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Per troppo tempo occhi chiusi in Occidente

22 febbraio 2011

Il crollo della Libia ci coglie di sorpresa per un motivo semplice: l'assoluto appiattimento dei giudizi agli interessi predominanti che hanno impedito un'analisi anti-conformista e veritiera.

Anzi, forse qui si spera che con qualche centinaio di morti Gheddafi riesca a rimanere in sella, perché non c'è in vista una soluzione di ricambio conosciuta. Ieri mattina si svolgevano riunioni febbrili della nostra intelligence in cui ci si chiedeva pensosi chi erano i capi della rivolta. Per augurarsi, poi, che un deus ex machina con un putsch militare rimetta ordine per non sprofondare nell'anarchia.

Per anni ci hanno detto: Gheddafi non si tocca, ci dà il petrolio, ha quote nelle nostre imprese, quindi non se ne deve parlare troppo. In compenso abbiamo ospitato le indecorose carnevalate del Colonnello. La Libia non è l'Egitto o la Tunisia, dicevano in questi giorni a Tripoli e da noi lo hanno ripetuto come un mantra, finendo per crederci. È vero, Tripoli non è il Cairo né tanto meno Tunisi: è peggio, perché la Libia è uno di quegli stati semi-falliti che rischiano di disintegrarsi.

I governi europei hanno lisciato il pelo al Colonnello all'inverosimile per un leader responsabile di attentati come quello di Lockerbie (270 morti). L'Italia ha mollato 5 miliardi di euro perché tenesse a freno i clandestini, un'arma che il regime usa periodicamente per ricattarci. La Gran Bretagna ha riconsegnato ai libici uno degli attentatori al Pan Am 103 in cambio di sontuosi contratti petroliferi. La Francia, a cui Gheddafi negli anni 80 abbatté un volo dell'Uta (156 morti), ha accolto il variopinto corteo di Gheddafi per piazzare armamenti e centrali nucleari.

Gli americani non sono stati da meno. Appena Gheddafi si è riciclato, le major sono accorse a trivellare lo scatolone di sabbia. Per Reagan, che lo bombardò uccidendo una delle figlie adottive, Gheddafi era un «cane pazzo». Poi quando nel 2003 Saddam fu catturato nella buca di Tikrit, Gheddafi pensò che il prossimo bersaglio potesse essere lui, quindi rinunciò astutamente alle armi di distruzione di massa: Washington non aspettava altro per dare il benvenuto a un arabo che si era distinto per aver massacrato gli islamici. Questa era la carta di credito che il raìs esibiva a un Occidente in affanno tra Iraq e Afghanistan.

L'Italia ha dato a Gheddafi una visibilità da rock star. Gli abbiamo perdonato tutto, dall'attentato a Fiumicino del '73, (32 morti), ai missili su Lampedusa, ai finanziamenti al terrorismo. Nel 1971 gli salvammo la pelle facendo saltare il “piano Hilton” per sbalzarlo di sella. Anche lui però ha tollerato le nostre bufale, come quando gli abbiamo venduto 300 tank residuati bellici della Corea, riverniciati per l'occasione. Abbiamo vezzeggiato i figli, facendoli viaggiare in Ferrari, nella speranza che lo sostituissero. Uno lo abbiamo persino fatto giocare in serie A prima che lo beccassero all'anti-doping: per noi raffinate menti calcistiche doveva essere un presagio. Ci siamo insomma comportati in maniera paternalistica con “il beduino di famiglia”, facendolo sedere all'Aquila con Obama alla tavola del G-8. Il rapporto finora è stato, a ben vedere, umiliante per tutte e due le amate e tristi sponde. Speriamo che cambi.

A. N.

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