Il regista siriano freddato in Turchia lavorava
ad un nuovo documentario sulla Siria ai tempi dell’Isis. Prima
di lui altri attivisti di “Raqqa viene massacrata in silenzio”
sono morti in territorio turco, insicuro per i giornalisti internazionali
e locali. Protetta dalla cortina di impunità di Bruxelles, Ankara
reprime le voci critiche. Come quelle di Dündar e Gül.
Ventiquattro minuti, volti e voci, rovine, bandiere
nere, cadaveri: è l’Aleppo al tempo dello Stato Islamico.
A catturarne la sofferenze e il silenzio in un documentario che oggi
fa il giro del mondo è stato Naji al-Jerf, giornalista e regista
siriano di 38 anni. Naji è stato ucciso in Turchia, nella città
di Gaziantep, domenica 27 dicembre. Camminava per strada quando è
stato freddato da un colpo alla testa. Doveva partire il giorno dopo
per la Francia, in mano tutti i documenti per sé e la sua famiglia.
L’asilo politico era l’obiettivo perché lui e i suoi
compagni del gruppo “Raqqa is Being Slaughtered
Silently”
(Raqqa viene massacrata in silenzio) sono finiti da tempo nel mirino
della repressione islamista.
Il gruppo di attivisti per lo più basati nella
cosiddetta capitale del “califfato” è tra i pochi
in grado di dare ancora voce ai civili assediati dall’Isis e,
nel post-Parigi, bombardati dagli aerei occidentali della coalizione
anti-terrore, che quando i riflettori si sono abbassati ha dimenticato
la comunità. Naji raccontava la Siria con la telecamera: il documentario
“L’Isis ad Aleppo”, da lui curato, era uscito solo
una settimana fa su YouTube e subito ripreso dall’emittente araba
al-Arabiya. Seppure ancora nessun gruppo abbia rivendicato l’azione,
è stato ucciso per questo, per i video e per la sua rivista mensile
al-Hentah: colpiva l’Isis dove l’Isis è più
forte, nella propaganda mediatica e nei video fatti girare per la rete.
Stava preparando un secondo documentario, dicono gli amici, e aveva
già ricevuto intimidazioni: telefonate di minaccia alla famiglia
e una bomba trovata dentro la sua auto.
Lunedì a Gaziantep in migliaia hanno partecipato
ai suoi funerali, accanto alla moglie Boshra e alle figlie Emsa e Yam.
Sopra la bara, la bandiera dell’Esercito Libero Siriano, braccio
armato della Coalizione Nazionale, ombrello delle opposizioni moderate
al presidente Assad. L’hanno messa perché nei suoi documentari
Naji attaccava anche il governo di Damasco, contro il quale partirono
nel 2011 le proteste popolari: la gente chiedeva maggiori libertà
politiche, si è ritrovata con una guerra civile manovrata dall’esterno
e lo Stato Islamico in casa. Con Damasco Naji aveva avuto a che fare
direttamente: nel 2012 fu arrestato e torturato, dicono alcuni amici,
prima di scappare in Giordania.
L’omicidio, che molti attribuiscono a Daesh,
segue a quello del 16 dicembre di Ahmad al-Mousa, membro di “Raqqa
is Being Slaughtered Silently”, ucciso a Idlib, città siriana
occupata dai qaedisti del Fronte al-Nusra. Al 29 ottobre risalgono invece
gli assassinii, rivendicati dallo Stato Islamico, di altri due membri
del gruppo, il suo fondatore Ibrahim Abdel al Qader e Fares Hammadi:
il corpo di Ibrahim è stato trovato quasi del tutto decapitato,
quello di Fares in una pozza di sangue. Sono stati ammazzati a Saliurfa,
sud est della Turchia.
Dieci giorni prima era toccato a Jacqueline Sutton,
giornalista britannica della Bbc, trovata morta in circostanze misteriose
all’aeroporto Ataturk di Istanbul. Sullo sfondo resta lo stesso
palcoscenico, la Turchia. Morti di voci critiche, giornalisti, attivisti
che perdono la vita in un paese che aspira ad entrare nell’Unione
Europea, nonostante le palesi violazioni di diritti umani e libertà
di espressione. Perché è vero che ad uccidere Ibrahim
e Fares è stato l’Isis, ma ciò dimostra la facilità
di movimento e penetrazione in territorio turco, permeabile via di passaggio
da e verso la Siria di islamisti sotto gli occhi di Ankara, delle sue
forze armate e dei servizi segreti.
A Diyarbakir, nel sud est turco, un anno fa, gli attivisti
kurdi ci indicavano con il dito i locali noti per essere luoghi di reclutamento
di nuovi adepti del “califfo”: «Se lo sappiamo noi
– raccontavano al manifesto – lo sa anche la polizia turca
ma li lascia fare». Oggi a gridarlo a gran voce sono le organizzazioni
per i diritti umani: «Chiediamo alle autorità turche di
portare gli assassini di Naji al-Jerf di fronte alla giustizia e di
assumere le misure necessarie a proteggere tutti i giornalisti siriani
in territorio turco», ha detto domenica Sherif Mansour, coordinatore
per Medio Oriente e Nord Africa dell’ong indipendente Committee
to Protect Journalists, che a novembre aveva premiato proprio il gruppo
di Raqqa. I trenta membri che restano, per lo più residenti in
Siria, tremano: usano pseudonimi, cercano protezione, ma non nascondo
la paura di poter essere i prossimi.
Di certo protezione non la troveranno nel paese più
vicino, porta per l’Europa. La Turchia del “sultano”
Erdogan non è un luogo sicuro per i giornalisti, né stranieri
né locali. Le violenze commesse contro la stampa indipendente
si moltiplicano, insieme alla repressione di attivisti turchi e kurdi,
dai protagonisti di Gezi Park ai sostenitori del partito di sinistra
Hdp.
Attacchi e raid contro le sedi di giornali ed emittenti
tv, censure, arresti. I casi sono numerosi, ma spesso nascosti dalla
fitta nebbia della propaganda interna. È accaduto a Can Dündar
e Erdem Gül, giornalisti di Cumhuriyet, in prigione dal 26 novembre
con l’accusa di sostegno al terrorismo, spionaggio e divulgazione
di segreti di Stato. La ragione è altra: erano scomodi. Il loro
giornale, di cui Dündar è direttore e Gül caporedattore,
aveva pubblicato reportage che mostravano l’intelligence turca
consegnare camion di armi agli islamisti di al-Baghdadi. Ora rischiano
la pena di morte.
Il giorno di Natale Reporters Without Borders ha fatto
appello alla Corte Costituzionale turca perché liberi i due giornalisti
in attesa della sentenza sulla costituzionalità della loro detenzione,
che secondo gli avvocati viola i la libertà di stampa e di espressione.
Una voce che segue all’appello internazionale firmato da intellettuali
di tutto il mondo e organizzazioni per i diritti umani, ma anche a quella
dello stesso Dündar che in un editoriale pubblicato nei giorni
scorsi dal The Washington Post accusa Bruxelles: l’Unione Europa
sta ignorando le proteste dei giornalisti target delle politiche repressive
di Ankara. Scrive: «Quanto vale la libertà? Meno di tre
miliardi di euro», chiaro riferimento all’accordo tra Turchia
e Ue per bloccare il flusso di rifugiati verso la fortezza Europa.
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