In questo capitolo 23° Marx analizza l’aumento del capitale e come questo
influenza il destino della classe
operaia.
“Il fattore più importante di questa indagine”, dice, è la “la composizione del capitale e le
variazioni che essa subisce nel corso del processo d’accumulazione.” E, spiega,
anche se questa composizione del capitale rimane la stessa, durante la crescita
del capitale c’è, comunque, una crescita
di domanda di forza-lavoro.
Che cos’è la composizione del capitale? Il capitale
è composto, come abbiamo visto nel corso di tutta l’analisi, da una parte che
si chiama capitale costante e da
un’altra parte che si chiama capitale
variabile, e tra queste due parti c’è sempre una proporzione (per esempio,
considerato secondo il suo valore,
un capitale di 1000 può essere suddiviso in 500 in capitale costante – i mezzi
di produzione - e 500 in capitale variabile – la forza lavoro, somma complessiva
dei salari; oppure in 600 e 400, 800 e 200 ecc.)
In senso materiale, cioè per produrre concretamente, questa composizione è tra mezzi di produzione e forza-lavoro vivente; anche queste due
componenti stanno in un certo rapporto tra loro.
Quindi, dice Marx “Chiamerò
composizione del valore la prima e composizione tecnica del capitale la
seconda.” E fra queste due “esiste uno stretto rapporto reciproco” che si
chiama: “composizione organica del
capitale.” Ogni capitale singolo dice Marx ha una sua composizione e la media di tutti i capitali singoli fa
la “composizione del capitale sociale
di un paese”. E questo viene analizzato nelle pagine che seguono.
Perché
è fondamentale sapere cos’è la composizione organica del capitale?
Perché dall’aumento del capitale e quindi da come si dividono le due parti che
lo compongono dipende la sorte della
classe operaia!
Man mano che aumenta il
capitale, e abbiamo visto che questo succede con il normale ciclo produttivo,
perché una parte del plusvalore viene reinvestito nella produzione, aumenta anche la forza lavoro. Con la
scala allargata l’accumulazione aumenta continuamente e può richiedere un
aumento ulteriore di operai che potrà “superare la loro offerta, e quindi potranno aumentare i salari.” Storicamente,
dice Marx “Lamentele in proposito si fanno sentire in Inghilterra durante tutto
il secolo XV e durante la prima metà del XVIII.” Ma, è bene precisare, e questo
Marx lo fa più volte, che “Le circostanze più o meno favorevoli in cui i
salariati si mantengono e si moltiplicano non
cambiano tuttavia nulla al carattere fondamentale della produzione
capitalistica.” Insomma non è un
salario più alto, se e quando può succedere, che cambia il modo di produzione! Questo fenomeno dell’aumento
dei salari, e delle sue conseguenze, si
può vedere adesso in Cina e in
alcuni altri paesi asiatici a grande
sviluppo industriale.
Perché come “la riproduzione semplice riproduce
costantemente lo stesso rapporto capitalistico, capitalisti da un lato e
salariati dall’altro, la riproduzione su
scala allargata ossia l’accumulazione riproduce il rapporto capitalistico
su scala allargata, più capitalisti o
più grossi capitalisti a questo polo e più
salariati a quell’altro.” Capitale e
classe operaia sono due facce della stessa medaglia. Il capitale non esiste
se non sfrutta l’operaio che è costretto a vendersi. Questa “servitù nei
confronti del capitale” che viene “solo
nascosta” perché l’operaio è “libero” di scegliersi il capitalista individuale
cui vendersi di volta in volta, “costituisce effettivamente un elemento
della riproduzione dello stesso capitale. Accumulazione
del capitale è quindi aumento del proletariato.” Qui in una nota Marx
chiarisce, in polemica con alcuni
economisti dell’epoca, cosa intende per “proletario” (per proletario dal
punto di vista economico non si deve intendere se non l’operaio salariato che produce e valorizza capitale ed è gettato sul lastrico non appena sia
diventato superfluo per i bisogni di valorizzazione del capitale.)
Il fatto che con
l’aumento del capitale aumenta anche il proletariato, dice Marx, l’economia
classica (A. Smith, Ricardo), lo aveva capito benissimo tanto da incorrere
nell’errore, che è stato riportato nel capitolo precedente, di pensare che “tutta
la parte capitalizzata del plusprodotto” venisse consumata dagli “operai
produttivi, ossia con la sua trasformazione in salariati addizionali.” Invece,
nonostante gli errori, alcuni borghesi ed economisti di allora, con il “cinismo
naturale” che li contraddistingueva, avevano chiaro da dove venisse la loro ricchezza: “Il lavoro del povero è la miniera
del ricco» diceva uno, e un altro: “sarebbe più facile vivere senza denaro
che senza poveri, giacché chi farebbe il
lavoro?.” E ancora: “Se qua e là qualcuno della classe infima si eleva, in
virtù di un’assiduità straordinaria e di
uno stringere la cintola, al di sopra delle condizioni in cui è cresciuto,
nessuno deve ostacolarlo; ma è interesse
di tutte le nazioni ricche che la
gran maggioranza dei poveri non sia mai inattiva, e che pur tuttavia spenda costantemente quello che intasca...
Coloro che si guadagnano la vita con il
loro lavoro quotidiano, non hanno
nulla che li stimoli ad essere servizievoli se non i loro bisogni che è saggezza alleviare, ma sarebbe follia curare.” Sarebbe
follia curare i bisogni della classe operaia! Non è questa la politica di tutti
i padroni e dei loro governi? Ancora: “in una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa
di poveri laboriosi.”, “è necessario
che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera.” Perché il
sapere aumenta e moltiplica “i nostri desideri”, “non è il possesso della terra
e del denaro che distingue i ricchi dai poveri, ma il comando sul lavoro”.
Quanto più aumenta il
capitale, tanto più si estende il
rapporto di dipendenza della classe operaia. Certo, continua Marx, man mano che cresce il plusprodotto
degli operai, una parte maggiore rifluisce ad essi sotto forma di salario “cosicché
possono ampliare la cerchia dei loro godimenti, arricchire il loro fondo di
consumo per vestiti, mobili ecc. e costituire piccoli fondi di riserva di
denaro. Ma come il vestiario, l’alimentazione, il trattamento migliori e un
maggiore peculio non aboliscono il rapporto di dipendenza e lo sfruttamento
dello schiavo, così non aboliscono quello del salariato.” Un aumento del
salario “significa effettivamente soltanto che il volume e il grosso peso della catena dorata che il salariato stesso
si è ormai fucinato, consentono una tensione allentata.”
Questo succede perché la differenza specifica del modo di
produzione capitalistico, la sua legge
assoluta è “La produzione di
plusvalore o il fare di più”. E
in questo senso anche quando il salario
cresce, ciò significa solo che cala
la quantità di lavoro non retribuito. Ma nel sistema capitalistico il lavoro non retribuito non può mai
abbassarsi fino al punto “in cui minaccerebbe il sistema stesso.” Anche
quando l’operaio lotta per un salario migliore “il padrone resta sempre padrone” diceva già pure Adam Smith.
E, infatti, il capitale
ha le sue contromisure automatiche,
quando il salario cresce in maniera “sproporzionata” e fa diminuire
l’accumulazione. Mentre diminuisce questa accumulazione, diminuisce anche la quantità
di capitale investito, per cui servono meno operai e il salario si abbassa di
nuovo, insomma “Il meccanismo del
processo di produzione capitalistico elimina dunque esso stesso gli ostacoli
che crea.”
Questi movimenti propri del capitale in più o in
meno, si riflettono sulla quantità di operai impiegati di volta in volta:
quando il capitale aumenta rapidamente “rende
insufficiente la forza-lavoro sfruttabile”, e sembra che ci sia capitale eccedente che non trova operai.
Quando il capitale diminuisce sembra che ci siano più operai di quanto sia
necessario. Questi movimenti del capitale al capitalista e al suo economista appaiono invece come movimento proprio
della popolazione lavorativa.
“Per usare un’espressione
matematica” dice Marx: la variabile
indipendente è la grandezza
dell’accumulazione e quella
dipendente è la grandezza del
salario, non viceversa.
L’economia classica pensa
che ci sia una “legge naturale” della popolazione e Marx risponde così: “La
legge della produzione capitalistica, che sta alla base della pretesa «legge
naturale della popolazione», si riduce semplicemente a ciò, si tratta: “solo del rapporto fra il lavoro non
retribuito e quello retribuito di una medesima popolazione operaia.”
2. In questo secondo punto Marx analizza ancora gli
effetti della crescita,
dell’accumulazione del capitale, della sua concentrazione sulla classe operaia.
Abbiamo visto che il capitale non sta mai fermo. Cresce costantemente grazie
alla produttività sociale del lavoro
che diventa “la leva più potente
dell’accumulazione”, afferma Marx, e cambia
costantemente la composizione organica del capitale.
E in che senso cambia la
composizione? Con l’aumento gigantesco dei mezzi di produzione. Per mettere in
moto questi mezzi serve adesso relativamente meno massa di lavoro, cioè diminuisce il fattore soggettivo, gli operai, a paragone dei suoi fattori
oggettivi, le macchine. E questo si
rispecchia anche nella composizione del valore
del capitale, nell’aumento della parte costitutiva costante, ci vuole un
capitale in denaro più alto, a spese della sua parte variabile, meno soldi
spesi per l’acquisto di operai.
Gli effetti sulla classe
operaia creati dal movimento dei capitali vengono modificati e accelerati anche
da altri fenomeni: dalla concentrazione
e dalla centralizzazione dei
capitali.
Si ha concentrazione quando il capitale cresce
e si accumula nelle mani di ogni
capitalista individuale. Dice Marx, “Ogni capitale individuale è una
concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrispondente comando su un esercito
più o meno grande di operai.” E questo
succede ai tanti capitalisti individuali “i quali sono contrapposti l’uno
all’altro come produttori di merci indipendenti ed in concorrenza fra loro.” La concorrenza, che viene condotta rendendo
più a buon mercato le merci, infuria tra i capitalisti e soprattutto tra quelli
più piccoli. Questa guerra “termina
sempre con la rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte
passano nelle mani del vincitore, in parte scompaiono.” Durante questa guerra,
inoltre, alcuni capitali già formati passano nelle mani di altri capitalisti, c’è
“l’espropriazione del capitalista da
parte del capitalista”, dice Marx, e molti capitali minori si trasformano
in capitali più grossi. “Il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare
una grande massa, perché là in molte mani va perduto … È questa la centralizzazione vera e propria a
differenza dell’accumulazione e concentrazione.”
Questa centralizzazione dei capitali viene
ulteriormente accelerata da “un’arma
nuova e terribile nella lotta della concorrenza”, il sistema del credito. Il sistema del credito, continua Marx, “ai
suoi inizi s’insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione,
attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse
maggiori o minori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti
individuali o associati.” Quindi concorrenza
e credito sono “le due leve più potenti della centralizzazione.” “Oggi, dice Marx, quindi la reciproca forza
d’attrazione dei capitali singoli e la tendenza alla centralizzazione sono più forti che mai nel passato.” Oggi,
diciamo noi, questo fenomeno che gli economisti borghesi chiamano “fusione e
acquisizione” ha raggiunto livelli inimmaginabili.
“In un dato ramo d’affari
la centralizzazione raggiungerebbe l’estremo limite solo se tutti i capitali
ivi investiti si fondessero in un capitale singolo. In una società data questo
limite sarebbe raggiunto soltanto nel momento in cui tutto il capitale sociale fosse riunito nella mano di un singolo
capitalista o in quella di un’unica
associazione di capitalisti.” Nella Cina reazionaria di oggi è successo
proprio questo, il controllo totale sulla produzione, sull’esercito di operai,
e sui relativi profitti, ne ha fatto una potenza capitalistica mondiale.
Marx spiega anche perché la
funzione della centralizzazione è importante:
“Il mondo sarebbe tuttora privo di ferrovie, se avesse dovuto aspettare che
l’accumulazione avesse messo in grado alcuni capitali individuali di poter
affrontare la costruzione di una ferrovia. La centralizzazione, invece, è
riuscita a farlo d’un tratto, mediante le società per azioni. E mentre la
centralizzazione aumenta in tal modo gli effetti dell’accumulazione e li
accelera, essa allarga ed accelera allo stesso tempo i rivolgimenti nella
composizione tecnica del capitale, che
ne aumentano la parte costante a spese di quella variabile, e con ciò
diminuiscono la domanda relativa di lavoro.”
3. In questo punto Marx
continua ad analizzare gli effetti sulla classe operaia parlando della
creazione di una sovrappopolazione relativa cioè di quello che chiama esercito industriale di riserva.
Abbiamo visto che “Con il
procedere dell’accumulazione varia quindi la proporzione fra la parte costante
del capitale e quella variabile; se in origine era di i 1:1 ora diventa 2:1, 3:1,
4:1, 5:1, 7:1, ecc., cosicché, aumentando il capitale, invece della metà del
suo valore complessivo si convertono in forza-lavoro progressivamente solo 1/3,
1/4, 1/5, 1/6, 1/8, ecc., e di contro si convertono
in mezzi di produzione 2/3, 3/4, 4/5, 5/6, 7/8, ecc.” Ma siccome “la
domanda di lavoro non è determinata dal
volume del capitale complessivo, ma dal
volume della sua parte costitutiva variabile” questa domanda di lavoro diminuirà in proporzione al capitale e diminuirà in maniera progressiva. Anche
se, abbiamo detto, che la domanda di lavoro in senso assoluto può anche
aumentare. Insomma, Marx dice che l’accumulazione capitalistica produce costantemente,
precisamente in proporzione della
propria energia e del proprio volume, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua ossia addizionale.” E vista
dalla parte degli operai: “Quindi la
popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione
del capitale da essa stessa prodotta, i
mezzi per rendere se stessa relativamente eccedente.”
“È questa una legge della popolazione peculiare del modo
di produzione capitalistico, come di fatto ogni modo di produzione storico
particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente
valide. Una legge astratta della
popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in
cui l’uomo non interviene portandovi la storia.”
“Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario della accumulazione
ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa
sovrappopolazione diventa,
viceversa, la leva dell’accumulazione
capitalistica e addirittura una delle condizioni
d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva
disponibile”
Quando la produzione
aumenta e il mercato per esempio improvvisamente si allarga, “grandi masse di uomini devono essere
spostabili improvvisamente nei punti decisivi, senza pregiudizio della
scala di produzione in altre sfere; le
fornisce la sovrappopolazione.”
La produzione
capitalistica si espande con scatti improvvisi e alla stessa maniera si
contrae. Questa contrazione a sua volta provoca di nuovo l’espansione, ma per
questa ci vogliono operai disponibili subito senza dipendere dall’aumento
assoluto della popolazione. Questo aumento degli operai viene creato, dice Marx,
con la “messa in libertà” di una parte di quelli che lavorano. Per cui “La
forma di tutto il movimento dell’industria moderna nasce dunque dalla costante trasformazione di una parte della
popolazione operaia in braccia disoccupate o occupate a metà.” L’economia
politica invece vede nell’espansione e contrazione del credito, cioè nei sintomi
dei cicli industriali, la causa di
questi movimenti.
“Finora è stato
presupposto che all’aumento o alla diminuzione del capitale variabile
corrisponda esattamente l’aumento o la diminuzione del numero degli operai
occupati.” Ma non è così nella realtà, perché l’aumento della somma spesa per
la massa dei salari, “diventa indice di più
lavoro, ma non di un maggiore numero
di operai occupati.” Il capitalista, come si comprende, fa lavorare di più
gli operai che già ci sono, infatti: “Ogni capitalista è assolutamente
interessato a spremere una determinata
quantità di lavoro da un minore
numero di operai invece che da un numero maggiore a prezzo egualmente conveniente
o anche più conveniente.” E così che nasce “Il lavoro fuori orario della parte occupata della classe operaia”
che quindi “ingrossa le file della riserva operaia, mentre, viceversa,” la
maggiore pressione di questi disoccupati costringe quelli che sono al lavoro a “fare
gli straordinari” e “alla sottomissione ai dettami del capitale. La condanna di una parte della classe
operaia e un ozio forzoso mediante il lavoro fuori orario dell’altra parte
e viceversa diventa mezzo d’arricchimento del capitalista singolo e accelera
allo stesso tempo la produzione dell’esercito industriale di riserva su una
scala corrispondente al progresso dell’accumulazione sociale.” Insomma, dice
Marx: “i movimenti generali del salario
sono regolati esclusivamente
dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva,
le quali corrispondono all’alternarsi dei periodi del ciclo industriale.”
Il dogma degli economisti è che invece ciò dipende dal numero assoluto
della popolazione operaia. Gli economisti dicono, come abbiamo visto, che l’aumento
del salario fa aumentare i proletari che saranno disponibili al momento del
bisogno con una nuova leva di operai giovani. E Marx risponde: “Prima che
potesse verificarsi un qualche aumento positivo della popolazione realmente
atta al lavoro, aumento dovuto all’aumento del salario, il termine entro il
quale deve essere condotta la campagna industriale, combattuta e decisa la
battaglia, sarebbe più che trascorso.”
Un esempio illustra
meglio: “Fra il 1849 e il 1859 nei distretti agricoli dell’Inghilterra” Marx
dice che aumentarono i salari a causa tra l’altro dell’enorme deflusso di
operai agricoli per la guerra, e quindi mancavano operai. “Che cosa fecero
allora i fìttavoli? Attesero forse finché gli operai agricoli, in seguito a
questo brillante pagamento, si fossero moltiplicati al punto che il loro
salario dovesse di nuovo diminuire, secondo quanto avviene nel cervello
dogmatico dell’economista?” Niente affatto. “Introdussero più macchine, e in batter d’occhio gli operai erano di
nuovo «in soprannumero». Ora si trovava investito nell’agricoltura «più
capitale» di prima e in una forma più produttiva. Con ciò la domanda di lavoro
diminuì non solo relativamente, ma in via assoluta.”
È importante notare che
durante i periodi di stagnazione e prosperità media l’esercito industriale di riserva preme sull’esercito operaio attivo e ne
frena le rivendicazioni durante il periodo della sovrappopolazione. “La sovrappopolazione relativa è quindi
lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e dell’offerta del
lavoro.” dice Marx.
Quindi il capitale da un
lato con l’accumulazione aumenta l’offerta di lavoro e dall’altro lato aumenta “l’offerta
di operai” licenziando. Perciò, afferma Marx, “non appena gli operai penetrano
il mistero e si rendono conto come possa avvenire che, nella stessa misura in
cui lavorano di più, producono una maggiore ricchezza altrui e cresce la forza
produttiva del loro lavoro, perfino la loro funzione come mezzo di
valorizzazione del capitale diventa sempre più precaria per essi; non appena
scoprono che il grado d’intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in
tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa; non appena quindi
cercano mediante Trades Unions (sindacati) ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e
quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che
quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe, —
il capitale e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione
della «eterna» e per così dire «sacra» legge della domanda e dell’offerta. Ogni solidarietà fra gli operai occupati e
quelli disoccupati turba infatti l’azione «pura» di quella legge.” E il capitalista
cerca sempre di ristabilire questa “legge” anche con la forza.
4. In questo punto Marx
illustra le diverse forme di esistenza
dell’esercito industriale di riserva e la legge generale dell’accumulazione capitalistica.
“La sovrappopolazione
relativa esiste in tutte le sfumature possibili … essa ha ininterrottamente tre
forme: fluida, latente e stagnante.”
Quella fluida, continua
Marx, si presenta “Nei centri
dell’industria moderna — fabbriche, manifatture, ferriere e miniere ecc. — gli operai sono ora respinti, ora di nuovo attratti in massa maggiore, cosicché in
complesso il numero degli operai occupati aumenta, seppur in proporzione
costantemente decrescente della scala di produzione.” Nell’agricoltura, dove una parte degli operai agricoli è nella
forma fluida, perché emigra tra il proletariato delle città; ma questo flusso
costante “presuppone nelle stesse campagne una sovrappopolazione costantemente latente”. È per questo che l’operaio agricolo viene “depresso al minimo del salario e si
trova sempre con un piede dentro la palude del pauperismo.” Quella stagnante, dice Marx, “costituisce una
parte dell’esercito operaio attivo, ma
con un’occupazione assolutamente irregolare.” Ciò rappresenta per il capitale
“un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio
normale della classe operaia, e proprio questo ne fa la larga base di
particolari rami di sfruttamento del capitale. Le sue caratteristiche sono: massimo di tempo di lavoro e minimo di
salario.” E infine, la parte più bassa si trova nella sfera della povertà.
Anche questo strato sociale si può dividere in tre categorie, dice Marx “Astrazione
fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato
propriamente detto.” La prima
categoria è quella delle “persone capaci
di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del
pauperismo inglese per trovare che la sua massa si ingrossa ad ogni crisi e
diminuisce ad ogni ripresa degli affari. Seconda:
orfani e figli di poveri. Sono i
candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande slancio, come
nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito
operaio attivo. Terza: gente finita male, incanaglita, incapace di
lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina
dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che
superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il
cui numero cresce con il crescere del macchinario pericoloso, dello
sfruttamento delle miniere, delle fabbriche chimiche ecc., mutilati, malati, vedove
ecc. Il pauperismo costituisce il
ricovero degli invalidi dell’esercito operaio attivo e il peso morto
dell’esercito industriale di riserva. La sua produzione è compresa nella
produzione della sovrappopolazione relativa, la sua necessità nella necessità
di questa; insieme con questa il pauperismo costituisce una condizione d’esistenza della produzione
capitalistica e dello sviluppo della ricchezza. Esso rientra nei faux frais
(spese superflue) della produzione capitalistica, che il capitale sa però respingere in gran parte da sé addossandoli alla
classe operaia e alla piccola classe media.”
“Quanto maggiori sono la
ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo
aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva
del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. Questa è la legge assoluta, generale
dell’accumulazione capitalistica.”
Marx conclude questo
punto ricordando come i metodi che aumentano la produzione sociale si ritorcono
contro l’operaio stesso, infatti, dice; “entro il sistema capitalistico tutti i
metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese
dell’operaio individuo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si
capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano
l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice
della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del
lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo
nella stessa misura in cui a quest’ultimo la scienza viene incorporata come
potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, durante il
processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più
meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli gettano
moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale. Ma tutti i metodi per
la produzione di plusvalore sono al tempo stesso metodi dell’accumulazione e
ogni estensione dell’accumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di
quei metodi. Ne consegue quindi, che nella
misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque
sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che
equilibra costantemente sovrappopolazione relativa, ossia l’esercito
industriale di riserva da una parte e volume e energia dell’accumulazione dall’altra,
incatena l’operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di Efesto non
saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina un’accumulazione di
miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso
accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza,
brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce
il proprio prodotto come capitale.”
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