L’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 1970), che impedisce il licenziamento dei lavoratori senza giusta causa, è da sempre un chiodo fisso dei padroni, un sogno da realizzare fin da quando è stato conquistato negli anni delle lotte più dure; in particolare l’attacco furioso di questi mesi, sempre con la scusa della crisi, mira non solo a licenziare ancora più facilmente, ma ad imporre quello che definiamo “fascismo padronale” ed imporlo non solo agli operai di fabbrica, ma ai lavoratori di tutti gli altri settori compreso il pubblico impiego perché “non ci devono essere settori privilegiati”, e cioè possibili “esempi da seguire”, i padroni insomma vogliono libertà assoluta nell’uso della forza-lavoro.
E che questo attacco sia essenzialmente ideologico viene ammesso anche da diversi giornalisti e istituzioni come il Censis in questa indagine che riprendiamo da rassegna.it nel quale non solo si sottolinea la pretestuosità della continua invocazione dell’art.18 e delle chiacchiere sui giovani, ma viene fuori anche la funzione sindacale che di fatto lo ha “superato” con diversi accordi fin al 2002.
Già il titolo dice che si tratta di “un falso problema”, e che “licenziare in Italia è già possibile”.
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Mercato del lavoro
Censis, l'articolo 18 è un falso problema
Licenziare in Italia è già possibile: più di due terzi delle uscite dalle aziende nel 2010 sono avvenute per scelta imprenditoriale. Nel 33% dei casi si è trattato di veri e propri licenziamenti. E sono proprio i giovani ad essere più colpiti
di rassegna.it
In Italia attualmente quasi un lavoratore su due è difeso dall'articolo 18. Si tratta di oltre 10 milioni di persone e l'idea che privare questi soggetti della tutela contro i licenziamenti senza giusta causa possa risollevare le sorti dell'economia italiana appare poco credibile. A dirlo è il Censis che nel suo ultimo rapporto analizza la situazione attuale e le possibili conseguenze di una modifica o sopressione della norma, contenuta nello Statuto dei Lavoratori.
In particolare, il Censis, solleva “non pochi dubbi” sulla possibilità che una eventuale modifica della norma possa aumentare l'occupazione italiana, che “ha degli unicum in tutta Europa”. Il problema, si spiega nel rapporto, non è infatti l'eccessiva rigidità del mercato del lavoro, ma il rapporto che gli italiani hanno con il lavoro. Prima di muoversi verso una maggiore mobilità occorre quindi assicurare una maggiore crescita, altrimenti le nuove norme diventeranno un “moltiplicatore di ansie e paure”.
“Appaiono abbastanza sovrastimati – scrive nel suo rapporto il Centro studi - gli effetti attribuiti all'abolizione dei vincoli di licenziabilità dei dipendenti, in termini di maggiore mobilità e di stimolo all'occupazione giovanile”. Allo stesso tempo però, il Censis giudica “eccessiva” la valutazione sui danni che una simile misura potrebbe avere sul sistema. Infatti, spiega ancora l'istituto, il potere dell'articolo 18 negli anni è andato sfumando sempre più: già l'accordo del 2002, consentendo deroghe alle imprese che avessero assunto nuovi occupati, superando la soglia dei 15 addetti, costituiva di fatto una sospensione implicita della norma. E anche l'articolo 8 della finanziaria del luglio 2011, autorizzando intese aziendali anche in deroga all'articolo 18, sanciva la possibilità di superamento consensuale della normativa.
Stanti questi allentamenti della normativa già avvenuti, da un'analisi anche statistica della situazione, il sistema, scrive il Censis, “non sembra mostrare un'esigenza particolare di ulteriore deregolazione delle uscite, dando dimostrazione di avere ormai inglobato un buon livello di flessibilità anche in questa zona del mercato”.
Nel 2010 sono stati 1,3 milioni i lavoratori transitati dall'area del lavoro a quella dell'inattività o della ricerca di nuova occupazione. Di questi, la maggioranza (il 33%), è uscita perché licenziata o messa in mobilità, il 6,2% a seguito di chiusura o cessazione dell'attività, mentre il 28,1% per mancato rinnovo del contratto a termine. Quindi, complessivamente, più di due terzi delle uscite sono riconducibili a scelte imprenditoriali, siano queste indotte dalle cattive condizioni del mercato o dalla volontà di licenziare o non rinnovare i contratti di alcuni lavoratori. Solo il 19,8% è invece dovuto a cause di altro tipo, quali il pensionamento del lavoratore, o altre motivazioni di carattere personale.
E secondo il Censis a subire di più licenziamenti ed espulsioni dal mercato del lavoro sono proprio i giovani, cioè coloro che dovrebbero trarre vantaggio dalla maggiore flessibilità del sistema. Tra 100 persone che sono rimaste senza lavoro nel 2010, svela il Censis, la maggioranza, infatti, ha meno di 45 anni (56,2%) e di questi il 33,7% meno di 35 anni. E su 100 licenziamenti che hanno portato a una condizione di inoccupazione 30 hanno riguardato dei giovani con meno di 35 anni e 30 persone con età compresa tra 35 e 44 anni. Solo nel 32% dei casi si è trattato di over 45. Un dato che, secondo il Censis, “solleva non pochi dubbi sugli effetti che una eventuale maggiore liberalizzazione dei licenziamenti potrebbe avere sul sistema, considerando che già oggi a farne le spese è soprattutto la componente occupazionale giovanile”.
Ma allora quali sono gli elementi che fanno del mercato del lavoro italiano un “unicum in Europa”? Secondo il Censis il primo dei problemi è l'elevato tasso di immobilità aziendale, ben superiore a quello dei principali paesi europei: lavora da più di 10 anni nella stessa azienda ben il 50,7% degli occupati, contro il 43,3% dei francesi, il 44,6% dei tedeschi, il 34,5% degli spagnoli e il 32,3% degli inglesi.
E anche in un momento di difficoltà come questo, solo il 3,7% degli italiani riesce a tradurre la paura in azione, attivandosi per cercare un'occupazione. Un atteggiamento che, sottolinea il Censis, trova spiegazione in un insieme di cause che “attengono sia alle caratteristiche del mercato, che certo non invogliano atteggiamenti più intraprendenti da parte dei lavoratori, sia alla stessa offerta di lavoro, atavicamente resistente a muoversi su un territorio che pure offre ancora molte opportunita' occupazionali a chi abbia voglia di coglierle”. Tra quanti nel 2010 risultavano in cerca di un'occupazione solo il 19,5% era disponibile a spostarsi in altre regioni o all'estero per trovarne.
E' quindi indubbio, secondo il Centro studi, che il sistema italiano “abbia bisogno di maggiore mobilità al proprio interno, soprattutto per favorire l'accesso e la permanenza sul lavoro di quella componente giovanile, che rischia di restare sempre più ai margini. A patto però, si sottolinea, che ciò si accompagni alla “convinzione che per essere più mobile il mercato ha bisogno di dotarsi di un pacchetto di strumenti che sia in grado di scaricare sulla collettività e non sui singoli lavoratori, il costo che questa comporta”.
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