DOMANDA
DA UNA LAVORATRICE
DELLA SCUOLA DI PALERMO
Marx anticipa nella parte della 'compera – vendita della forza lavoro' la questione del plusvalore prodotto dalla forza-lavoro dell’operaio in fabbrica.
Nel plusvalore come e
se rientra il cosiddetto lavoro non produttivo? (vedi un’impiegata come me
della scuola)…
RISPOSTA
DAL PROF. GIUSEPPE ANTONIO DI
MARCO
Non ho capito se questa
lavoratrice della scuola vi lavora come insegnante o negli uffici
amministrativi. Però la questione è perfettamente la stessa. Non solo, ma le
prime battute del capitolo quattordicesimo del Capitale, intitolato «Plusvalore
assoluto e plusvalore relativo» sembrano scritte da Marx apposta per rispondere
alla domanda che ha fatto la lavoratrice e/ovvero la compagna. Perciò seguiamo
e commentiamo questa pagina molto densa, perché – diciamolo già da adesso la
risposta non è “no” o sì” secchi ma più complessa, e segue un modo di esporre
la cosa che si chiama dialettico e che adesso non mette in conto si spiegare
perché lo lasciamo emergere dal commento.
Comincia Marx col dire
che in generale ogni lavoro è un rapporto dinamico che si stabilisce tra l’uomo
e la natura, quindi un lavoro che si svolge tra questi due poli, soggetto
(l’uomo) e oggetto (la natura). In che senso? Nel lavoro l’uomo si appropria
della natura che è il suo materiale di lavoro, mediante un mezzo di produzione.
Qui “natura” come materiale di lavoro è intesa in un senso ampio, quindi anche
il corpo umano, nel caso del lavoro di un medico, o il cervello umano nel caso
del lavoro di un maestro di scuola, cioè come Marx stesso dice, «un lavoro al
di fuori della sfera della produzione materiale» sono “natura”. Così mezzi di
produzione sono la mano o qualsiasi altro organo dell’uomo, mezzi della
«propria natura» oppure, l’aratro, una macchina ecc. il più aggiornato computer
o post computer i cui materiali sono della «cosiddetta natura» (queste parole
tra virgolette stanno nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica). Inteso in questo senso, dice sempre Marx, «se si considera l’intero
processo lavorativo dal punto di vista del suo risultato, mezzo di lavoro e
oggetto di lavoro si presentano entrambi come mezzi di produzione, e il lavoro
stesso si presenta come lavoro produttivo».
Però questa definizione
di lavoro produttivo che, come si vede, raccoglie ogni lavoro umano, o meglio
ogni lavoro che ciascun individuo fa anche da solo, quindi si riferisce a un
«processo lavorativo semplice», non basta quando abbiamo a che fare con un
processo di produzione capitalistico, perché in esso il lavoro si presenta
sempre meno come individuale e sempre più come cooperativo e letteralmente
“sociale”, posto che anche il lavoratore individuale sta in un rapporto sociale
ma in un senso più ampio e diverso da come lo usiamo qui.
In un lavoro inteso
come un processo individuale, il singolo lavoratore, pensiamo a un
contadino che lavora il
suo piccolo pezzo di terra o a un artigiano nella sua bottega o a un violinista
solista, (sto facendo tutti esempi presi da Marx in vari punti), l’individuo
che lavora controlla se stesso e quindi mette in movimento i suoi muscoli sotto
il cervello che li controlla. Perciò, qui lavoro intellettuale e lavoro manuale
sono uniti. Ma successivamente queste sue funzioni, manuale e intellettuale, si
scindono fino a diventare ostili e opposte. Infatti man mano che avanza lo
sviluppo storico e al massimo grado nel modo di produzione capitalistico che è
quello dove lo sviluppo del lavoro sociale è il più avanzato fino a ora, il
lavoro diventa sempre più cooperativo e sempre più cooperativo su larga scala.
Quindi il carattere del lavoro diventa sempre più sociale e il suo prodotto un
prodotto sociale, cioè non il prodotto di un lavoratore individuale ma di un
lavoratore complessivo, un lavoratore combinato. Qui il lavoro è diviso tra i
vari membri del corpo lavorativo (manifattura, fabbrica industriale, rete
produttiva), ciascuno dei quali fa la sua parte più o meno grande ed è parte di
quell’organismo che è il lavoratore complessivo come le varie membra sono
diverse ma sono parte di un uncico organismo e svolgono una diversa funzione.
A questo punto il
concetto di lavoro produttivo che sopra è stato dato da Marx, vale non più per
il singolo individuo ma per il lavoratore complessivo. Socialmente è produttivo
non l’individuo che produce da solo con propri strumenti di lavoro individuali,
ma quello che sta come una parte del lavoratore combinato, che è il vero
produttore. Questo processo nell’età capitalistica si sviluppa dal momento in
cui il capitale avvia la produzione del plusvalore relativo e quindi mette in
movimento il lavoro sociale combinato, prima come cooperazione semplice, poi
come manifattura e poi al massimo grado come grande industria: «Ormai per
lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro,
è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi
delle sue finzioni subordinate. La […] definizione del lavoro produttivo che è
dedotta dalla natura della produzione materiale stessa, rimane sempre vera per
il lavoratore complessivo, considerato nel suo complesso. Ma non vale più per
ogni suo membro, singolarmente preso». Credo che ci possiamo rendere conto oggi
facilmente di questo nel cambiamento del processo lavorativo. Per restare nel
campo dell’istruzione, il mercato delle lezioni private può essere fiorente
quanto si vuole, ma produttivo è il CEPU. La più bella e funzionante libreria
tradizionale non è produttiva, Amazon sì, o almeno la libreria artigianale non
è produttiva quanto Amazon. Produttivo significa: «la forza produttiva del
lavoro, cosicché una stessa quantità di lavoro fornisca, a seconda del grado di
sviluppo delle condizioni di produzione, una maggiore quantità di prodotti
entro lo stesso tempo», dice Marx nel quindicesimo capitolo del Primo Libro del
Capitale, intitolato «Variazione di grandezza nei prezzi delle forza-lavoro e
nel plusvalore». Si tratta della capacità di sfornare più esami preparati o più
libri venduti in minore quantità di tempo: è questo che fa il CEPU e Amazon che
sono produttivi in questo senso, mentre e lo studente o il laureato disoccupato
che fa lezioni private, o la libreria storica di Napoli Guida, che ha dovuto
chiudere, sono improduttivi nonostante che chi dà lezione private o i
lavoratori della libreria si ammazzino o si siano ammazzati di lavoro. E questo
è un lato della questione.
E però nello stesso
tempo – e sottolineo “nello stesso tempo”, giacché non si tratta di due lati
separabili ma di due lati dello stesso lato, per così dire - questo processo
lavorativo diventato processo lavorativo combinato, cambiando non la
definizione di lavoro produttivo, ma il suo campo di applicazione cioè dal
singolo all’operaio complessivo (non importa se materiale o immateriale):
questo processo lavorativo socializzato, dicevo, è un processo lavorativo
capitalistico , sta nel rapporto sociale capitalistico, cioè è funzione di un
processo di valorizzazione, vale a dire funzione di un processo di produzione
del plusvalore. E allora, se dal punto di vista del passaggio dal lavoro
individuale del contadino o dell’artigiano al lavoratore complessivo, il
concetto di lavoro produttivo si è allargato, sotto un altro aspetto, cioè in
quanto il capitale è un processo di valorizzazione «il concetto di lavoro
produttivo si restringe». Vediamo in che senso, con l’esempio che Marx stesso
fa: «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è
essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé ma per il
capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre
plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il
capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è
permesso scegliere un esempio fuori dalla sfera della produzione materiale, un
maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste
dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della
scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione
invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il
concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una
relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma
implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine
storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione
del capitale».
Ecco allora il punto:
il capitale si muove in modo contradditorio nell’intendere il lavoro produttivo
ed è questa contraddizione che lo porta alla sua crisi e alla necessità di
passare a una nuova forma di società. Allo stesso tempo, simultaneamente: 1)
allarga il concetto del lavoro produttivo, in quanto supera l’ambito ristretto
del lavoro individuale caratteristico della proprietà privata diretta dei mezzi
di produzione, come quello del lavoratore diretto agricolo o artigianale, e
così concentra e successivamente centralizza i mezzi di lavoro e i prodotti del
lavoro (non posso qui affrontare il rapporto tra concentrazione e
centralizzazione dei mezzi di produzione, ma chi vuole saperlo lo chieda), nel
senso che un lavoro utile e produttivo può essere eseguito solo socialmente e
questo, ripeto è la nostra situazione odierna a tutti i livelli; 2) ma
restringe l'ambito e il concetto stesso del lavoro produttivo facendolo coincidere
con il lavoro che produce plusvalore dato che il plusvalore si produce sulla
base «limitata» e «miserabile» del «furto del tempo di lavoro altrui», scrive
Marx nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, ossia
sulla base della proprietà privata. Questa va a bloccare e comprimere proprio
le potenzialità insite in quel carattere sociale della produttività che in modo
«involontario e passivo», scrivono Engels e Marx nel Manifesto del partito
comunista, essa ha evocato come fa l’apprendista stregone, perché lo ha fatto
solo per aumentare la produzione di plusvalore e invece così ha creato le
condizioni per la crisi e il crollo del suo modo di produzione, inevitabile,
quali che ne siano i tempi, sulla base scientifica della contraddittorietà del
suo modo di sviluppo e non come una nostra attesa messianica.
Allora la situazione
della lavoratrice scolastica (insegnante o amministrativa) è: il suo lavoro è
lavoro produttivo nella misura in cui si estende sempre di più il processo di
socializzazione del lavoro, il suo diventare cooperativo quanto al processo
lavorativo, che rende improduttivo il lavoro eseguito solo individualmente e
che resterebbe produttivo solo se fossimo in una società produttrice di merci e
non in una società che produce il capitale ossia plusvalore. Quindi il suo
lavoro è produttivo dato il possibile carattere generalmente sociale del lavoro
che con la riforma della scuola e della pubblica amministrazione si estenderà
sempre di più. Qui prescindiamo dal fatto che in questa socializzazione anche
dell’istruzione e delle funzioni amministrative, molte funzioni che si hanno
nella produzione capitalistica sono ridondanti, e saranno superate in un’altra
forma di società. In ogni caso, la socializzazione del processo lavorativo, che
il capitale involontariamente e passivamente compie, pone o tende a porre la
lavoratrice della scuola che ha fatto la domanda nella situazione di essere
produttiva solo in quanto parte organica, membro dell’operaio (impiegatizio, in
questo caso) complessivo. Ma simultaneamente, essendo la produzione
capitalistica produzione di plusvalore ( e oggi stiamo nel modo di produzione
capitalistico di produzione di merci e non nella semplice produzione
individuale di merci), il lavoro di questa lavoratrice è produttivo solo se,
come insegnante o amministrativa, non importa, vende la sua forza-lavoro a un
capitalista imprenditore della scuola che sfrutta ovvero ruba il suo tempo di
lavoro per arricchirsi esattamente come farebbe per lo stesso scopo se fosse
proprietario di una fabbrica di salumi o formaggi. E l’imprenditore o gli
azionisti proprietari della scuola, possono passare a investire in salumi o
scarpe o vigilanza o eserciti privati se i saggi del profitto sono lì maggiori,
con le conseguenze che la lavoratrice in questione può immaginare, e la
tendenza sarà tale che essa stessa sarà costretta a passare da un lavoro
all’altro per essere “produttiva” (sic!) in questo miserabile significato.
Quindi, la lavoratrice
che ha fatto la domanda, è produttiva solo se non si limita a lavorare le teste
degli alunni, come insegnante, o a fabbricare certificati, bilanci,
convocazioni di genitori ecc. come amministrativa, ma se al tempo stesso si
logora di lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola: questo, non dimentichiamolo
significa il fatto che la lavoratrice in questione “produce plusvalore”, ossia
che ella è sfruttata, massacrata di lavoro e che la crescente innovazione e
socializzazione del lavoro scolastico e amministrativo, le varie riforme in
questo senso, le appaiono come capitale nella persona dell’imprenditore, del
dirigente, dell’ispettore ecc., dunque da risorsa di crescita dell’uomo in
quanto essere sociale, quali sarebbero potenzialmente, diventano una condanna.
Se invece ella lavora in una scuola statale, non importa se meglio pagata o se
pagata una miseria e sfruttata, allora non produce plusvalore. Malgrado
l’aumento della produttività del processo lavorativo anche nella scuola
statale, in quanto le riforme lo hanno reso socializzato nei mezzi di produzione
e nei prodotti, ella è improduttiva relativamente al rapporto sociale
capitalistico in cui questo lavoro è posto dal capitale stesso -
contraddittoriamente, giacché un lavoro sempre più sociale è comandato
dispoticamente in forma di proprietà privata dei mezzi di produzione..
Infatti mentre nel
primo caso, di una scuola privata, il reddito della nostra lavoratrice si
presenta come salario e ha la sua fonte nel capitale variabile, nel secondo
caso, di una scuola statale, questo reddito proviene dalla redistribuzione del
plusvalore tra le altre classi della società, in questo caso di quella parte
del plusvalore che proviene dal tassazione che lo Stato fa (questo aspetto Marx
lo mette in evidenza nel Libro secondo del Capitale analizzando il processo di
riproduzione del capitale sociale complessivo).
Ciò non significa che
il lavoro nella scuola statale sia migliore del lavoro presso un capitalista
privato, perché comunque la scuola statale è di uno Stato che organizza gli
interessi della classe dominante. Tuttavia il lavoro in una scuola statale
poteva essere preferibile al lavoro in una scuola privata nei decenni
precedenti, quando la borghesia si poneva ancora come classe dominante capace
di rappresentare, sia pure ideologicamente, tutta la società, anzi, non del
tutto illusoriamente, in quanto l’istruzione generalizzata e “pubblica”, pur
entro Stato borghese, era frutto delle lotte e delle conquiste della classe
proletaria. Adesso la fine della stagione di lotte, di vittorie e di sconfitte
subite dal movimento proletario, nel bene e nel male, del secolo scorso, la
borghesia si pone direttamente come classe particolare che esplicitamente fa il
suo interesse particolare come classe dominante e perciò, proprio nel momento
in cui essa sembra straripare e dominare senza freni, ha perduto proprio la sua
capacità di rappresentare tutta al società (questo tema Engels e Marx lo hanno
sviluppato nell’Ideologia tedesca). Infatti, essendo la borghesia attraversata
dalla contraddizione per cui da un lato, per aumentare il plusvalore e quindi
arricchirsi, mobilita tutte le forze produttive della società e rende il lavoro
cooperativo, sociale, quindi produttivo solo se cooperativo, e al tempo stesso,
dato lo scopo per cui questa produttività sociale è stata posta, nega questa
stessa produttività sociale che ha creato suo malgrado, per cui l’essere
produttivi significa creare plusvalore ossia la riproduzione della proprietà
privata, considera la scuola, l’ospedale, l’amministrazione statale (del suo
stesso Stato), insomma l’intero ambito che si chiama welfare, come faux frais
de production, dice Marx, cioè come spese improduttive nel senso che il
plusvalore usato per dare il reddito alla nostra lavoratrice della scuola, non
può essere sprecato così, ma deve essere reinvestito per reintegrare e
aumentare mezzi di produzione e lavoro vivo quindi per l’accumulazione, al
netto delle spese di sussistenza del capitalista. E di conseguenza se, come da
mille parti risulta, nella “famigerata” scuola statale, mediante lotte, lavoro,
impegno, si spende lavoro sociale, si fanno esperienze educative di grande
qualità ecc., chi lavora nella scuola pubblica diventa uno sfaccendato, un
parassita ecc., e chi difende tutta quella socialità creata dalle lotte dei
decenni precedenti e che ha dato effetti anche nella scuola, viene tacciato di
conservatorismo, di difesa dei privilegi e di tutto il male possibile.
Viceversa, si fa apparire progressiva non la socializzazione del lavoro che si
è creata, ma la proprietà privata, sulla cui base è concepibile il plusvalore,
cioè l’aspetto più regressivo e in definitiva improduttivo di questo movimento
storico, in quanto la produttività misurata sul plusvalore prodotto comprime il
concetto largo di produttività, quello derivante dalla socializzazione dei
mezzi di produzione. Così sfugge il movimento dialettico per cui il concetto
largo di produttività, dato dalla socializzazione dei mezzi di produzione che
la borghesia ha messo in moto per arricchirsi, al tempo stesso è stato messo in
moto dalla proprietà privata ed è ostacolato da questa stessa proprietà
privata. E invece di approfondire la contraddizione in avanti cioè cercando un
rapporto di proprietà più adeguato a favorire la socializzazione del lavoro nel
senso ampio, cioè dello sviluppo dell’individuo come individuo sociale,
premessa di un più ampio sviluppo individuale, si fa diventare progressiva al
proprietà privata cioè l’elemento frenante. Il senso delle leggi sulla Buona
scuola e della retorica dei sicofanti politici e intellettuali della borghesia
che lo sostengono, sta tutto qui.
E così, con la
privatizzazione a cui si sta avviando anche l’istruzione statale, la
lavoratrice che ha posto la domanda passa sotto il giogo del capitalista,
aumenta il suo lavoro superfluo, diminuisce il suo salario, rischia di essere
messa sul lastrico se il suo pluslavoro non è richiesto direttamente dallo
sviluppo del processo di accumulazione. Ma in questo caso non cesserebbe la sua
funzione di operaia nella disoccupazione, giacché la sua funzione sarebbe quella
di esercitare la pressione sugli occupati perché diano più lavoro sotto la
precarietà a cui questa sovrappopolazione, creata apposta dal capitale, riduce
al loro esistenza quanto più essi sono essenziali all’accumulazione
capitalistica. Insomma questa lavoratrice sperimenterebbe in che senso, sotto
il capitale, essere produttiva è una disgrazia per lei.
Ma i proletari,
occupati e disoccupati, divenuti consapevoli del processo di rapina, di
dominio, di sfruttamento che si mette in atto nei loro confronti, non devono
risolvere ai padroni la contraddizione lavorando di più per loro, ma la devono
accentuare agendo su quella produttività che il capitale passivamente scatena,
cioè quella derivante dalla socializzazione dei mezzi di produzione come base
per passare a una socialità dove, come si diceva sopra, il pieno sviluppo
dell’individuo sociale è la condizione del libero sviluppo dell’individualità
di ciascuno. Quindi devono strappare quei mezzi di produzione ai capitalisti,
che fanno di quella produttività allargata in senso sociale una dannazione per
il lavoratore invece di essere la base della sua libertà. Ciò significa
esattamente il contrario di accettare quel lavoro sociale entro il rapporto
capitalistico di produzione, perché qui esso è capitale e quindi solo dominio
dispotico e sfruttamento. Rifiutando di logorarsi di lavoro, devono lottare per
al riduzione del tempo di lavoro supplementare e per fare ciò con successo
devono usare la sola arma che è capace di porre un freno alla brama di
sfruttamento: il superamento della concorrenza tra occupati e disoccupati e la
cooperazione tra loro. Solo su questa base si può poi procedere al
rivoluzionamento di tutta la società. Questo mi pare il senso del discorso di
Marx sul problema che la lavoratrice ha posto.
Nessun commento:
Posta un commento