Con gli strumenti della storiografia si è voluto
analizzare le vicende che hanno riguardato il confine orientale a
partire dall’occupazione fascista, cercando di reagire al revisionismo
storico e alla riabilitazione del fascismo.
Nel saggio di Stefano Bartolini viene analizzata, in particolar modo, l’immagine dello Slavo nell’Italia fascista.
Il
saggio di Davide Conti, invece, ci presenta un excursus sui crimini di
guerra italiani commessi nei Balcani dal fascismo e sul peso che la
loro mancata sanzione ha avuto nella vicenda repubblicana dell'Italia.
L’ultimo
saggio, quello di Costantino Di Sante, descrive le complesse vicende
che videro protagonisti i soldati italiani dall'aprile 1941 ai primi
anni Cinquanta nell’Occupazione dei Balcani.
Negli interventi
contenuti in questo volume vengono analizzati e individuati i miti e gli
esempi del passato riletti ed utilizzati, in particolar modo, dalla
propaganda fascista: sono i cosiddetti luoghi comuni, ancora
profondamente radicati nella nostra società, nel comune sentire, nei
messaggi veicolati dai fascisti nell’educazione di massa. Troviamo,
inoltre, l'analisi delle peculiarità del fascismo di frontiera,
l'approfondimento relativo ai criminali di guerra italiani e la
continuità nell’Italia repubblicana e l'analisi dei rapporti
diplomatici, all'interno del quadro internazionale, seguendo la vicenda
dei soldati italiani presenti sui territori in questione.
Grazie al
contributo di Bartolini, Di Sante e Conti, si è cercato di arginare le
derive revisioniste, nella loro accezione peggiore e proporre
un'analisi documentata ed articolata che possa permettere una
riflessione onesta e scientifica, a partire da una solida base
documentaria: forse i tempi sono maturi perché ci si confronti anche con
le memorie e le storie degli altri, e si inizi a fare i conti con il
nostro passato di invasori.
10 febbraio, Giorno del Ricordo. Ecco il racconto del
contesto che gli italiani non conoscono: dal «fascismo di frontiera»
degli anni ’20, dai crimini dell’Italia in Jugoslavia, dai 100.000
jugoslavi deportati e internati, alle violenze jugoslave del settembre
’43 e maggio ’45, fino all’esodo italiano
Inizio con tre brani di un
discorso pronunciato al Teatro Ciscutti di Pola da Benito Mussolini
il 20 settembre 1920, dando inizio alle brutali violenze contro
le popolazioni della Venezia Giulia: «Qual è la storia dei Fasci?
Essa è brillante! Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo
distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte
elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo
incendiata a Pola…»…«Di fronte a una razza come la slava, inferiore
e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma
quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il
Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della
Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere
i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi
nel Mediterraneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie
evangeliche».
Dopo quel discorso, l’Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni
dopo quel discorso le truppe di Mussolini invasero Dalmazia,
Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della
civiltà italiana. Dalle terre annesse all’Italia dopo la prima guerra
mondiale – cioè all’ampliamento ad est dei territori di Trieste e di
Gorizia, all’Istria intera, alla provincia di Fiume detta del
Quarnaro ed all’enclave dalmata di Zara – le violenze fasciste e la
snazionalizzazione forzata costrinsero ad andarsene più di
80.000 sloveni, croati, tedeschi e ungheresi, ma anche alcune
migliaia di italiani antifascisti
Nel 1939, un anno prima che l’Italia fosse gettata nella seconda
guerra mondiale, le autorità fasciste della Venezia Giulia
attuarono in segreto un censimento della popolazione di quelle
terre annesse venti anni prima, accertando che in esse vivevano
607.000 persone, delle quali 265.000 italiani e cioè il 44%, e 342.000
slavi detti allogeni, ovvero il 56%. Una cifra notevole nonostante
l’esodo degli ottantamila, nonostante che agli slavi fossero stati
italianizzati i cognomi, fosse stato vietato di parlare la loro
lingua, fossero state tolte le scuole e qualsiasi diritto nazionale.
Nonostante le persecuzioni subite, nonostante che migliaia di loro
fossero finiti nelle carceri o al confino, e che alcuni dei loro
esponenti – Vladimir Gortan, Pino Tomazic ed altri – fossero stati
fucilati in seguito a condanne del Tribunale speciale fascista
oppure uccisi dalle squadre d’azione fasciste a Pola (Luigi Scalier),
a Dignano (Pietro Benussi), a Buie (Papo), a Rovigno (Ive) e in altre
località istriane.
Emblematici di queste persecuzioni contro slavi
e antifascisti italiani in Istria e Venezia Giulia sono i sistemi
coercitivi per inviare i contadini al lavoro nelle miniere di
carbone di Arsia-Albona dove, per duplicare la produzione senza però
adeguate protezioni dei minatori sui posti di lavoro, nel 1938 ci
fu una tragedia (allora taciuta dalla stampa) in cui persero la vita
180 minatori, lasciando oltre mille vedove ed orfani. Emblematica di
quel periodo in Istria è anche una canzoncina cantata dei gerarchi
che diceva:
A Pola xe l’Arena/ la Foiba xe aPisin: butaremo zo in quel fondo/ chi ga certo morbin.
E alludendo alle foibe, un’altra poesiola minacciava chi si opponeva al regime:
… la pagherà/ in fondo alla Foiba finir el dovarà.
Aprile 1941, l’aggressione
Nell’aprile del Quarantuno, infine, si arrivò all’aggressione alla
Jugoslavia senza dichiarazione di guerra, seguita dall’occupazione
di larghe regioni della Slovenia e della Croazia, dall’intero
Montenegro e del Kosovo, infine dall’annessione al Regno d’Italia di
una grossa fetta della Slovenia ribattezzata Provincia di Lubiana,
di una lunga fascia della costa croata che formò il Governatorato
della Dalmazia con tre provincie da Zara fino alle Bocche di
Cattaro, e la creazione della nuova provincia allargata di Fiume
detta “Provincia del Quarnaro e dei Territori annessi della Kupa”
comprendente tutta la parte montana della Croazia alle spalle del
Quarnero più le isole di Veglia ed Arbe che si univano a quelle di
Cherso e Lussino. Così l’Italia incorporò nel proprio territorio
nazionale regioni abitate al 99% da sloveni e croati con una
popolazione di oltre mezzo milione di persone che si aggiungevano
al 342.000 “allogeni” già assoggettati all’Italia ed al fascismo
italiano da due decenni. Il Montenegro intero fu trasformato a sua
volta in un Governatorato italiano. Il Kosovo, territorio della
Macedonia, fu annesso invece alla cosiddetta Grande Albania che già
dal ’39 era una colonia dell’Italia.
Le violenze contro i civili dei territori annessi o occupati
furono compiuti in base a “una ben ponderata politica
repressiva” come ci rivela una ben nota circolare del generale
Roatta del marzo 1942 nella quale si legge: “il trattamento da fare ai
ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente,
ma bensì da quella testa per dente”. A sua volta il generale Robotti,
ordinando rastrellamenti a tappeto nel giugno e agosto 1942,
indicava queste soluzioni alle truppe dell’XI Corpo
d’Armata:“internamento di tutti gli sloveni per rimpiazzarli con
gli italiani” e per “far coincidere le frontiere razziali
e politiche”: “esecuzione di tutte le persone responsabili di
attività comunista o sospettate tali”. Infine, “Si ammazza troppo
poco!”.
Mi limiterò a un piccolo territorio alle spalle di Fiume e ad un
solo mese, luglio del 1942. Nelle borgate di Castua, Marcegli,
Rubessi, Viskovo e Spincici furono incendiate centinaia di case
e fucilate decine di persone come «avvertimento». Nel Comune di
Grobnik, il villaggio di Podhum fu completamente raso al suolo
per ordine del prefetto Temistocle Testa. All’alba del 13 luglio, per
“vendicare” due fascisti scomparsi il giorno prima da quel
villaggio, furono dapprima saccheggiate e poi incendiate 484 case,
portati via mille capi di bestiame grosso e 1300 pecore, deportati
nei campi di concentramento in Italia 889 persone (412 bambini,
269 donne e 208 uomini anziani) e fucilate altre 108 persone. Uno
sterminio.
I fascisti italiani, passati al servizio del tedeschi dopo il
settembre 1943, continuarono a battersi “per l’italianità” dei
territori ceduti al Terzo Reich. Fra tanti sia ricordato l’episodio
di Lipa (30 aprile 1944) dove 269 vecchi, donne e bambini sorpresi
quel giorno in paese, furono sterminati: parte fucilati, parte
rinchiusi in un edificio e dati alle fiamme. Di tali eccidi ce ne
furono a centinaia in Istria, nel territorio quarnerino, in
Slovenia, in Dalmazia, in Montenegro, ovunque arrivarono
i militari fascisti e le altre formazioni inviate da Mussolini.
Nei miei scritti ho documentato lo sterminio di 340.000 civili
slavi fucilati e massacrati dall’aprile 1941 all’inizio di
settembre 1943 nel corso dei cosiddetti “rastrellamenti” ed
operazioni di rappresaglia contro le forze partigiane insorte.
Ho anche scritto, ma non sono stato il solo in Italia, di altri 100.000
civili montenegrini, croati e sloveni deportati nei capi di
concentramento approntati dalla primavera all’estate del 1942
dall’esercito italiano per rinchiudervi vecchi, donne e bambini
colpevoli unicamente di essere congiunti e parenti dei “ribelli”.
In quei campi disseminati dalle isole di Molat e Rab/Arbe in
Dalmazia fino a Gonars nel Friuli ed altri in tutto lo Stivale,
morirono di fame, di stenti e di epidemie circa 16.000 persone nel
giro di poco più di un anno di deportazione. Tutto questo viene
taciuto nella Giornata del Ricordo che si celebra in Italia da una
decina d’anni. Si ricordano soltanto le nostre perdite: il dolore dei
nostri connazionali costretti a lasciare le terre concesse
all’Italia dopo la prima guerra mondiale, il dolore delle famiglie
degli infoibati nel settembre 1943 in Istria e nel maggio 1945
a Trieste, Gorizia e Fiume subito dopo l’ingresso delle truppe di
Tito. È giusto, è doveroso ricordare foibe ed esodo, le nostre
vittime, i nostri dolori, ma non si dovrebbero tacere il contesto
storico, le colpe del fascismo che portarono alla sconfitta ed alla
perdita di quelle regioni. Non si dovrebbero tacere o volutamente
ignorare le vittime delle popolazioni slave oppresse, martoriate
e decimate dapprima nel ventennio fascista in Istria ed a Zara, ma
soprattutto nella seconda guerra mondiale. Sulla bilancia e nel
contesto storico vanno messi, dunque, anche i dolori che noi abbiamo
arrecato agli altri.
La retorica e la canea mediatica
In un saggio sul Giorno del Ricordo pubblicato nel 2007,
l’autorevole storico italiano Enzo Collotti scrisse sull’argomento
parole da non dimenticare, denunciando l’enfatizzazione di «una
retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro
passato, né ad elevare il nostro senso civile, ma – cito – alimenta
ulteriormente il vittimismo nazionale», dando «ai fascisti
e postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità
per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti ed
omologare in una indecente e impudica par condicio della storia
tragedie incomparabili». Collotti condanna in particolare
la «canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia
delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi
responsabili», che non permette di «fare chiarezza intorno a un modo
reale della nostra storia che viene brandito come manganello per
relativizzare altri e più radicali crimini» compiuti dai fascisti.
Per Colottti, le vicende delle foibe e dell’esodo ci riportano «alle
origini del fascismo nella Venezia Giulia», una regione definita
italianissima da chi non vuole accettare la realtà di un
territorio multietnico e «trasformato in un’area di conflitto
interetnico dai vincitori» della prima guerra mondiale, «incapaci
di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi
nazionali diversi», anzi decisi ad estirpare anche con lo
spargimento di sangue qualsiasi presenza non italiana.
Calpestando le tradizioni della cultura italiana, il fascismo
impose alle nuove terre — così come tentò di fare nei territori
balcanici occupati nella seconda guerra mondiale – «una italianità
sopraffattrice», rivelando il suo volto criminale, suscitando la
legittima rivolta di quei popoli e trascinando l’Italia nel dramma
della sconfitta. Un dramma di cui non fu vittima, ma
protagonista. «I paladini del nuovo patriottismo d’oggi, fondato
sul vittimismo delle foibe – cito sempre Collotti – farebbero
bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli
che parlavano della superiorità della civiltà e della superiore
razza italica». «Che cosa tuttora sa la maggioranza degli italiani
sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze
slovena e croata… addirittura da prima dell’avvento al potere: della
brutale sua generalizzazione (…) come parte di un progetto di
distruzione dell’identità nazionale e culturale delle
minoranze?». E della sciagurata annessione al regno d’Italia di una
parte della Slovenia e della Dalmazia, con il seguito di
rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini
nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel
loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediatisi
nel cosiddetto Litorale adriatico, sullo sfondo dei forni crematori
della Risiera di Trieste e degli impiccati di via Ghega sempre
a Trieste, delle stragi in Istria, nel Quarnero, a Pisino e altrove?
I «lembi della Patria»
Poco sanno gli italiani perché da dieci anni, nelle scuole e fuori
si parla soltanto di foibe e di esodi, di crimini compiuti dagli
«slavi», e nulla dei crimini compiuti dai fascisti italiani la cui
documentazione è tuttora chiusa negli «armadi della vergogna»,
insieme ai documenti delle conseguenze pesanti di una guerra
scellerata, di una guerra perduta. Lo scotto fu pagato dalle
popolazioni delle provincie del confine orientale, le più esposte
sui cosiddetti «lembi della Patria».
La verità non chiede nulla, soltanto il coraggio di trovarla
e dirla. Ma ora per impedirla si chiede una legge che condanni al
carcere gli storici indicati da essi come riduzionisti
e negazionisti, definiti tali solo perché si battono per far
conoscere tutta la verità, insorgendo anche contro chi – con le
menzogne – getta il fango sulle stesse vittime italiane – e mi
riferisco agli infoibati ed esodati dalle terre perdute per colpa
di Mussolini. bisognerebbe smetterla di gonfiare all’infinito, col
volgari falsità, il numero di queste nostre vittime e di
speculare politicamente oggi sulle tragedie vissute dai nostri
fratelli dell’Istria, di Fiume e di Zara. Sì, dico Zara perché in
Dalmazia di terra concessa all’Italia nel 1920, c’era soltanto
l’enclave di Zara e non tutta la Dalmazia. Perché parlare oggi di
Dalmazia italiana? Va bene se si ricorda la cultura italiana
seminata da Venezia dal Quattro al Settecento, ma se si vuole
alludere alla Dalmazia occupata e annessa da Mussolini dall’aprile
1941 al settembre 1943, allora no, quella non era terra italiana,
altrimenti non sarebbe stata messa a ferro e fuoco per spezzarne la
resistenza. Basta con l’esaltazione del colonialismo fascista!
Basta con le menzogne e le speculazioni sulle tragedie dei nostri
fratelli di Zara, di Fiume, del Quarnero ed Istria, senza nascondere
le vittime croate, slovene, montenegrine, cioè di quei popoli che,
da sempre nostri vicini di casa, vogliono essere nostri amici
nell’Unione Europea, con i quali dobbiamo commerciare, costruire
ponti comuni, un mondo senza guerre e senza rancori. Basta con le
omissioni, con le ricostruzione disinvolte dei fatti
letteralmente inventati dalla destra neofascista che sta
costruendo una specie di controstoria da tramandare per coprire la
vergogna del fascismo, e per rinfocolare le pretese
territoriali sulla costa orientale dell’Adriatico.
L’«era» Mussolini
Il mio sogno, che non è soltanto il mio, è l’istituzione di
una Giornata dei Ricordi, al plurale, nella quale poter unire nei loro
dolori italiani e slavi, indicando nel fascismo e nel
nazionalismo di ambedue le parti i veri colpevoli delle guerre,
delle distruzioni, degli eccidi, delle vendette, e degli esodi del
passato, additando in essi i pericoli che incombono sul comune
futuro di amicizia e cooperazione.
Oggi, quando l’Italia, Slovenia e Croazia stanno insieme
nell’Unione europea, quando i confini sono caduti. Ricordiamo che in
Slovenia e Croazia vivono ancora trentamila italiani sui quali non
devono cadere l’ombra e il peso degli odi del passato. Perché essi,
in gran parte discendenti da matrimoni misti e adusi ormai da
settant’anni alla convivenza, al plurilinguismo e al
multiculturalismo, vanno considerati l’anello che unisce le
due sponde dell’Adriatico; essi svolgono e ancor più in futuro sono
chiamati a svolgere il doppio ruolo di conservare la cultura e la
lingua italiana nella regione istro-quarnerina e di esercitare la
funzione di cordone ombelicale fra i paesi confinanti
o dirimpettai. Riposta ogni rivendicazione territoriale da
parte italiana su Capodistria, Pola, Fiume, Zara eccetera,
condannate le colpe dell’imperialismo fascista e le velleità
revansciste, ma anche le colpe di coloro che nei giorni burrascosi
del settembre 1943 e dell’immediato dopoguerra degli anni Quaranta
del secolo scorso scrissero le vergognose pagine delle foibe;
ricordando sempre che l’esodo degli italiani dalle terre perdute fu
conseguenza di una guerra voluta e perduta dal fascismo, oggi
i figli degli esuli e dei rimasti si ritrovano per quello che sempre
furono: fratelli. Ma non basta. Gli italiani rimasti sulla sponda
orientale dell’Adriatico, per lunghi anni accusati dall’estrema
destra italiana di tradimento, indicati come titoisti, potranno
restare nel cuore di tutti gli italiani dello Stivale soltanto se si
coltiverà l’amicizia con i popoli in mezzo ai quali essi vivono e se
saranno rispettati e riconosciuti il loro ruolo e il loro merito di
aver mantenuto vive le radici in quelle terre quali cittadini della
Slovenia e della Croazia, perpetuando la lingua materna
e coltivando l’amore per la madrepatria.
Dai massimi vertici negli ultimi tre anni, è stato dato l’esempio
da seguire, a cominciare dal vertice dei presidenti sloveno, croato
e italiano avvenuto a Trieste nel 2010. Con l’incontro dei
presidenti italiano e croato, Napolitano e Josipovic, all’Arena
di Pola, nel 2011. Ci sono stati nel 2013 altri due vertici: gli
incontri fra Josipovic e Napolitano alla fine di giugno
a Zagabria e all’inizio di dicembre a Roma. Napolitano ha auspicato
il «superamento di un passato che ha portato purtroppo
ingiustizie e sofferenze alle popolazioni dei nostri due
Paesi»; Josipovic ha ricordato a sua volta la frattura apertasi nel
periodo successivo alla seconda guerra mondiale, che, coinvolgendo
italiani esuli e rimasti insieme ai croati (e sloveni), si può
considerare ormai rimarginata: «Con il presidente Napolitano –
ha detto ancora – abbiamo riconosciuto le sofferenze di entrambi.
Ora i nostri rapporti sono diversi». Hanno sempre partecipato
i massimi esponenti dell’Unione Italiana, e cioè degli italiani
d’oltre confine, i «rimasti» appunto.
Per concludere: i circoli della destra filofascista in Italia
devono smettere di manipolare la storia per rinfocolare odi
e rancori. Basta con le accuse degli estremisti al cosiddetto
«sanguinario conquistatore» croato, sloveno e slavo in genere,
perché non furono quei popoli ad aggredire e invadere l’Italia nel
Quarantuno, né ad occupare larghe fette dell’Italia come fecero le
truppe di Mussolini in Jugoslavia fino al settembre 1943. Basta
con il fascismo di frontiera, antislavo da sempre, ieri come oggi.
Basta con il negazionismo aggressivo del neofascismo che cerca di
nascondere i crimini della cosiddetta «era» di Mussolini, il
periodo peggiore subito dagli istriani, dai fiumani e dai dalmati.
Vogliamo rispetto per quelle terre e per le loro popolazioni che ci
insegnano la convivenza basata sul reciproco rispetto delle
sofferenze passate e sulla reciproca volontà di costruire un
migliore futuro comune. Non possiamo accettare atteggiamenti
rancorosi di chiusure al futuro, né cedere a un camuffato
neoimperialismo — anche culturale — di ritorno che cerca di essere
amnistiato con il Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo delle
terre perdute. Auspico che in avvenire, in una plurale Giornata dei
Ricordi non si insista sulla contabilità falsata di esodati
e vittime, ma si consideri tutto il male del passato, e si agisca
perché non si ripeta in futuro in queste terre e nella stessa Italia
quella barbarie che ha fatto parte del lungo «secolo breve» qual
è stato il Novecento.
* Storico, da Il manifesto del 5 febbraio 2014