Hier, des affrontements ont éclaté entre les manifestants et la
police dans deux régions du sud du pays: à Maknessi (gouvernorat de Sidi
Bouzid) et dans la ville frontalière de Ben Guardane (gouvernorat de
Mednine). différentes régions, mais mêmes raisons: promesses non tenues
du gouvernement à la population de ces régions.
A Maknessi après plus d’ un an de négociations concernant la capacité
de travail des habitants de la région dans les mines de phosphate, la
police a violemment attaqué un sit-in. Ensuite, ils ont éclaté des
affrontements entre manifestants et policiers toute la nuit avec des
barrages routiers et jetant des pierres en réponse aux gaz lacrymogènes
de la police.
photos: page fb “Maknessi revolution”
La direction locale de l’UGTT après l’attaque de la policee
aux travailleurs a immédiatement arrêté les négociations et a appelé à
une grève générale dans la ville pour la journée d’aujourd’hui.
photos: page fb “Maknessi revolution”
A Ben Guardane, ou la principale activité économique est le commerce
transfrontalier, après les promesses de soutien économique et le
développement de Mars dernier, suite à la bataille de Ben Guardane entre
les djihadistes et les forces de sécurité, certains commerçants
exaspérés par la fermeture du passage de Ras à la frontière Jadir par la
partie tunisienne, ils ont attaqué le poste de police local. Les
commerçants ont eté rejoint da le diplômes chomeur et même ici les
affrontements a duré toute la nuit.
Aujourd’hui, le journal “embedded” La Presse a criminalise ces
mouvements sociaux agitant toujours le spectre du terrorisme. Citant des
sources de sécurité “inquiet” et pour le septième anniversaire de la
«révolution» (plus précisément, revolt populaire) au sud et voir si les
tensions sociales en particulier à Sidi Bouzid, Kasserine Ben Guardane
et peuvent causer instabilité dan le pays et faciliter les attaques
terroristes, “distrayant” les forces de sécurité:
Donc, la «réponse» aux demandes sociales légitimes est toujours le
même: la répression policière et la criminalisation, à la fois justifiée
par le “état persistant d’urgence», une contradiction dans les termes,
car il est “une urgence” au cours de quelques années …
Lorenzo Fe
In questo mese si è registrato un aumento delle mobilitazioni sociali in Tunisia,
che, per quanto di portata inferiore a picchi precedenti, segnala la
persistenza delle rivendicazioni e delle lotte sociali nel paese.
Il sito Nawaat.org ha riportato in un video le
manifestazioni e blocchi stradali in 17 località diverse, a cui bisogna
aggiungere la ripresa del blocco dei camion di gas della multinazionale
inglese Petrofac nelle isole Kerkennah a partire dal 14 dicembre 2016 e
la serrata della corporation canadese Winstar a Tataouine a partire dal
10 gennaio. Il 3 gennaio ha avuto luogo lo sciopero nazionale dei
“lavoratori dei cantieri”, precari messi al lavoro dallo stato con
misure emergenziali per l’occupazione e rimasti poi in permanenza senza
contratti veri e propri.
La mobilitazione di più lunga durata si sta svolgendo a Meknassy,
villaggio nel governatorato di Sidi Bouzid tra i primi a mobilitarsi
durante il sollevamento del 2010-2011.
A partire da fine
dicembre, gli abitanti hanno bloccato la strada statale tra Gafsa e Sfax
impedendo il passaggio dei veicoli istituzionali e dei camion di
fosfato. Per poter essere esportato, il fosfato deve compiere
il tragitto dal bacino minerario di Gafsa – confinante con l’Algeria –
alla città costiera di Sfax. Non a caso, blocchi stradali si sono
registrati recentemente anche negli altri villaggi lungo la statale:
Sened, Menzel Bouzayane e Mazzunah.
Dal 12 gennaio, la sezione
di Meknassy della confederazione sindacale UGTT – di gran lunga la più
grande del paese – ha dichiarato uno sciopero generale locale di
solidarietà. Nel corso dell’ultima settimana si sono verificati
diversi tentativi notturni di forzatura del blocco stradale da parte
della polizia, generando scontri con lacrimogeni da un lato e pietre
dall’altro. Il 21 gennaio si è tenuto a Tunisi un presidio contro la
repressione del movimento di Meknassy, in cui alcune centinaia di
persone hanno forzato un cordone di polizia per riassemblarsi di fronte
al ministero degli interni.
I principali attori – giovani privi di un accesso regolare al
reddito –, rivendicazioni – lavoro stabile e sviluppo locale – e forme
di mobilitazione – il blocco stradale e gli scontri – sono gli stessi
che animano la lotta di classe in Tunisia a partire dalla rivolta di
Gafsa del 2008. In base a questi parametri, è possibile leggere
gli avvenimenti recenti come facenti parte di un unico ampio ciclo di
lotte che dal 2008 giunge fino ai giorni nostri. Una delle cause
profonde di questo ciclo è da rinvenirsi nell’interruzione della
tendenza all’inclusione nell’accesso a un reddito regolare di porzioni
crescenti della popolazione che aveva caratterizzato lo sviluppo
economico in Tunisia (e altrove) dagli anni ’50 agli ultimi ’70. Tale
tendenza si inscrive a sua volta nell’aumento – sospinto dalle lotte –
della composizione organica del capitale a livello globale. In altre
parole, l’automatizzazione della produzione genera un aumento della
popolazione surplus e una pressione verso la generalizzazione – a
intensità variabili – dell’impiego precario.
Come documentato altrove (1), la Tunisia ha partecipato al trend
globale di declino secolare dell’impiego agricolo. Tuttavia, fino agli
anni ’80, la perdita di impiego nel settore agricolo è stata compensata
dalla crescita dell’impiego nell’industria e nell’amministrazione
pubblica. Ma con la ristrutturazione neoliberale l’occupazione in
entrambi questi sbocchi ha cessato di crescere.
L’impiego
manifatturiero, oltre a stagnare quantitativamente, si è trasformato
qualitativamente. Il lavoro relativamente sicuro nelle imprese statali è
declinato mentre quello precario nell’industria leggera privata per
l’export è aumentato. Anche la Tunisia ha la sue Rustbelt e
Sunbelt. Ancora più importante, il settore in cui l’impiego è aumentato
più significativamente – raccogliendo così una buona parte dei
lavoratori espulsi dalla terra tramite i macchinari agricoli – è il
terziario privato.
Per la grandissima maggioranza dei lavoratori tunisini,
“terziario privato” non significa un impiego ad alta remunerazione nel
settore finanziario o un lavoro creativo nell’industria culturale. Molto
spesso vuol dire invece una lotta per la sopravvivenza tra lavoretti
precari e dequalificati, in numerosi casi non salariati e/o nel settore
informale. Il termine “disoccupati” è fuorviante, infatti – non
esistendo un vero sussidio di disoccupazione in Tunisia – la grande
maggioranza di coloro che si considerano disoccupati sono in realtà
costretti a fornire una variegata gamma di prestazioni lavorative più o
meno occasionali.
La forza lavoro tunisina è anche in linea con la tendenza mondiale
all’aumento del livello di istruzione medio dei lavoratori e alla
crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro non
domestico. All’indipendenza, i laureati tunisini erano in tutto 564
mentre oggi sono 1.116.000, il 19% della popolazione attiva. Ma
l’espansione dell’istruzione universitaria non è stata accompagnata da
un paragonabile aumento dell’impiego qualificato. Anche le statistiche
ufficiali ammettono che il tasso di disoccupazione dei laureati è
passato dal 4% nel 1995 al 32% nel 2016.
Le donne sono passate dal 6% della popolazione attiva “ufficiale” nel 1966 al 29% nel 2016.
Oltre
che nel lavoro domestico, le donne sono sovra-rappresentate in alcuni
dei settori più vulnerabili dell’economia tunisina, in particolare nella
manifattura leggera per l’export, dove sono esposte a regolari
violazioni delle disposizioni più basilari della legislazione sul
lavoro. Nel 2012 le donne costituivano il 43% dell’impiego manifatturiero e ben il 72% del tessile.
La forza lavoro è anche stratificata lungo linee etniche.
L’immigrazione dall’estero è un fenomeno relativamente limitato in
Tunisia, ma
le migrazioni interne dalle regioni sottosviluppate
alle aree metropolitane di Tunisi, Sfax e Sousse hanno una grande
importanza storica. Anche la Tunisia ha il suo epiteto razzista
per i migranti interni – “jabri” – che come il suo equivalente italiano
“terrone” associa l’origine geografica a un concentrato di
provincialismo, ignoranza e scarsa educazione.
Questi macro-cambiamenti nella composizione tecnica della classe sono
tutt’altro che il frutto di una evoluzione naturale e priva di
conflitto dalla predominanza del settore primario a quella del
terziario. Negli anni 60’, sotto il governo “socialista” guidato da
Ahmed Beh Salah, la Tunisia si lanciò in un programma di
industrializzazione via sostituzione dell’import, con la creazione di
aziende statali di industria pesante. Nel frattempo, l’agricoltura
tradizionale veniva modernizzata tramite un sistema di “cooperative”
gestite dallo stato. Nel 1970, il regime virò verso una politica più
liberale mirante a espandere il settore privato, attirare gli
investimenti stranieri e incentivare la produzione per l’export. Ma lo
stato mantenne un forte ruolo come proprietario di aziende e leader
degli investimenti fino all’inizio del piano di aggiustamento
strutturale nel 1986.
Gli anni ’70 hanno visto un grande ciclo globale di lotte a cui la Tunisia non ha fatto eccezione.
Per la Tunisia, si può convenzionalmente porne l’inizio nel 1971, con
l’inizio dell’ondata di scioperi, e la fine nel 1985, con la repressione
dell’UGTT che si era temporaneamente scostata dalla sua politica
corporativista.
I protagonisti di questo ciclo erano una nuova
generazione di operai scolarizzati e i giovani elementi del ceto medio
salariato radicalizzatisi a sinistra nel movimento studentesco ed
entrati poi contemporaneamente nella forza lavoro e nel sindacato.
I lavoratori precari si buttarono nella mischia soprattutto in due
grandi occasioni: lo sciopero generale del 26 gennaio 1978 e le rivolte
del pane del gennaio 1984. In entrambe le occasioni l’esercito scese in
strada per restaurare l’ordine, facendo numerose vittime tra i
manifestanti.
Gli operai delle grandi fabbriche statali furono il fulcro dell’ondata di scioperi che culminò nel 1977.
Nella maggior parte dei casi, gli scioperi avvenivano contro la volontà
della segreteria nazionale del sindacato unico ma con il sostegno della
sinistra sindacale. Gli scioperi declinarono nel 1978-80 a causa della
pesante repressione che seguì lo sciopero generale del 1978, ma
ripresero vigore nei primi anni ’80.
Le roccaforti della
militanza operaia erano le grandi aziende statali come la fabbrica di
automobili STIA a Sousse, la metallurgica El Fouladh di Bizerte o il
petrolchimico di Gabes. Gli scioperi nei trasporti statali
erano anch’essi molto comuni. Le rivendicazioni erano incentrate sul
salario, e non per niente i salari reali crebbero più rapidamente del
Pil per buona parte degli anni ’70. Difficile non notare le affinità con
le lotte dell’“operaio massa” altrove nel mondo.
In un primo momento, il regime si prestò a generose concessioni
materiali al fine di contenere una conflittualità sociale che minacciava
il suo stesso potere politico. Ma il deterioramento della congiuntura
economica, il crescere del debito sovrano e soprattutto l’assottigliarsi
delle riserve di dollari spinsero il governo a preparare la svolta
neoliberale sotto la supervisione di Fmi e Banca Mondiale.
Nel
1985 le autorità procedettero alla repressione completa dell’UGTT, con
attacchi alle sedi da parte di milizie informali e arresti di massa di
militanti sindacali fino ad arrivare all’imprigionamento della
segreteria nazionale.
In uno scenario assai comune,
le vecchie roccaforti operaie sono state punitivamente ristrutturate o abbandonate a un lento declino.
Tra il 1987 e il 2010, 219 aziende statali sono state privatizzate.
L’impiego totale nel pubblico (amministrazione pubblica più aziende
statali) è sceso dal 41% dei salariati nel 1980 al 32% al massimo nel
2014. Anche se numerose aziende statali sono sopravvissute, esse
necessitano di meno lavoratori o perché nuovi macchinari sono stati
introdotti o perché la mancata automatizzazione – combinata con gli
accordi di libero scambio – le ha rese meno competitive a livello
internazionale costringendole a tagliare la produzione. Le
rappresentanze sindacali in molte aziende statali si sono ridotte
all’ombra di se stesse, integrandosi in un sistema di corruzione e
clientelismo capillari, soprattutto per quanto riguarda le pratiche di
assunzione. Infatti, in Tunisia l’impiego nel settore pubblico è tuttora
visto come
la via per la sicurezza economica e la mobilità
sociale ascendente. Ma, in tempi di investimento debole e crisi fiscale
dello stato, il pubblico è uno snodo del mercato del lavoro assai
sovraffollato.
Un esempio rivelatore del declino della militanza operaia nelle aziende statali è
la Compagnie des Phosphates de Gafsa (CPG).
Dall’epoca del protettorato francese, i minatori di Gafsa si erano
guadagnati una reputazione per la loro combattività e i loro scioperi da
migliaia di partecipanti. Ma con la ristrutturazione organizzativa e
tecnologica della CPG,
il numero dei suoi dipendenti è passato da 13.464 nel 1985 a 6.200 nel 2006 (2). Nella
rivolta di Gafsa del 2008, i manifestanti accusavano la CPG di
nepotismo e clientelismo politico nelle assunzioni, pratiche in cui
funzionari dell’UGTT erano essi stessi implicati. Il segretario
di vecchia data dell’UGTT regionale di Gafsa – Amara Abbassi,
proveniente dalla federazione dei minatori – era anche un deputato con
il partito di Ben Ali e il proprietario di imprese di lavoro in
subappalto per la CPG.
La maggior parte dei lavoratori che erano
riusciti a entrare nella CPG non era incline a mettere in pericolo la
propria fortuna mobilitandosi in solidarietà con i precari. Sul posto di
lavoro i minatori rimasero passivi e i delegati sindacali assunsero
un’attitudine per lo più ostile nei confronti delle proteste. I
militanti sindacali che sostennero e persino guidarono il movimento
venivano tutti dall’amministrazione pubblica, in particolare
l’insegnamento.
I protagonisti di questo nuovo ciclo di lotte, che possiamo dire essere cominciato nel 2008 e continuare fino a oggi,
non sono più i salariati stabili.
Operai e impiegati hanno partecipato agli scioperi generali regionali
dichiarati dall’UGTT all’apice del sollevamento del 2011 e all’impennata
di scioperi che ha seguito la caduta di Ben Ali. Tuttavia,
la
pressione dal basso che spinse i dirigenti sindacali a dichiarare gli
scioperi regionali del gennaio 2011 non proveniva dall’interno della
fabbrica ma dalle strade fuori.
A partire dalla rivolta di Gafsa del 2008, la presenza più
significativa sulle strade è stata quella di giovani privi di un lavoro
sicuro e quindi di accesso a un reddito regolare. Anche se la
gioventù precaria è stata spesso sostenuta dalla sinistra dell’UGTT (la
cui forza è sopravvissuta più che altro nell’amministrazione pubblica),
le condizioni lavorative stesse dei giovani precari gli rendono
impossibile iscriversi al sindacato o imbracciare l’arma dello sciopero.
La maggioranza dei giovani precari che hanno partecipato alle
proteste degli ultimi anni non appartiene ad alcuna organizzazione
formale e stabile. Nelle regioni sottosviluppate, la
frammentazione occupazionale e la debolezza delle organizzazioni formali
(con la parziale eccezione dell’UGTT) è compensata dall’attivazione di
solidarietà comunitarie, radicate in legami familiari e localistici e
affiancate dai social network. La solidarietà comunitaria non è
incompatibile con la solidarietà di classe. Infatti, nel 2010-11 e in
minor misura nel gennaio 2016, le lotte locali sono circolate in gran
parte del paese tramite un discorso basato sulla giustizia sociale e
sull’opposizione alle élite politiche ed economiche.
Tuttavia, la solidarietà comunitaria non è un medium di
ricomposizione di classe privo di problematicità. Negli anni ’70, la
ricomposizione basata sulle lotte operaie nel posto di lavoro era più
direttamente in linea con aspirazioni egualitarie e progressiste,
nonostante l’assenza di visioni del mondo ideologiche da parte della
gran parte degli operai. Inoltre, all’epoca, dottrine di sinistra in
senso ampio – il nazionalismo arabo e il marxismo-leninismo – erano le
sole ideologie in circolazione. Le solidarietà comunitarie mobilizzate
oggi sono fragili e politicamente ambigue, potendosi orientare in
direzioni diverse a seconda di tutta una varietà di fattori contestuali.
La sinistra tunisina contemporanea deve competere con un forte movimento islamista. Entrambi fanno poi fronte a intensi sentimenti “anti-politici” assai diffusi nella popolazione.
Una stabile presenza ideologica e organizzativa tra la gioventù precaria è assicurata dall’Union des Diplomés Chômeurs (UDC).
Ma come il nome stesso rende esplicito, questa organizzazione tenta di
rappresentare perlopiù i laureati disoccupati, che sono solo una
frazione dei precari. La questione organizzativa rappresenta dunque
tuttora una sfida.
Il blocco stradale e gli scontri sono i principali strumenti di pressione sulla controparte.
Meno sensazionale dello scontro, il blocco stradale può produrre
maggiori danni economici, con il vantaggio di essere più sostenibile nel
tempo e di comportare meno rischi di danni fisici a partecipanti e non.
Poiché ferma la produzione di valore dall’esterno del posto di lavoro,
il blocco è lo sciopero dei senza lavoro.
Questi ultimi possono sfruttare i nervi scoperti della logistica per
intasare la circolazione di merci strategiche e di conseguenza
rallentare o azzerare la loro produzione. Per esempio, gli impianti
della CPG hanno funzionato solo al 25% nel 2011, al 32-34% nel 2012, a
poco meno del 50% nel 2013 e a poco più del 50% nel 2014 (3). Ma, a
differenza dello sciopero, il blocco è illegale e quindi la sua
praticabilità dipende direttamente dall’equilibrio di forze tra
manifestanti e polizia.
Coloro che – come chi scrive – si riconoscono nella tradizione dei
marxismi anti-lavoristi, saranno contrariati nel constatare che le
proteste della gioventù precaria tunisina sono fortemente impregnate di
etica del lavoro e che la rivendicazione chiave, assieme allo sviluppo
locale, è quella del lavoro stabile. Quest’ultimo è spesso presentato
come condizione necessaria per una vita degna, e uno dei più famosi
slogan del sollevamento del 2011 era “Ettashghil istehqaq, ya issabat
essoraq!” (“Il lavoro è un diritto, banda di ladri!”). Non bisogna
esagerare nel prendere tali rivendicazioni per come si presentano,
dopo
tutto quello di cui la gente ha bisogno è il reddito regolare
proveniente dal lavoro stabile più che il lavoro in quanto tale,
tanto è vero che in molti hanno accettato dei posti di lavoro nel
pubblico – elargiti come misura emergenziale – nei quali pare non ci sia
granché da fare. Ma resta il fatto che, in un contesto nel quale
l’esperienza quotidiana è quella di una scarsità diffusa, gli appelli al
reddito garantito suonano alquanto inapplicabili.
Per sopravvivere, la gioventù precaria deve ricorrere a espedienti
individuali o alla mobilitazione collettiva. Nel gennaio 2011,
quest’ultima ha incontrato una forma-stato dittatoriale cristallizzata
in una sclerotica rigidità istituzionale, e l’ha abbattuta grazie alla
generalizzazione della proteste ad altri settori della popolazione. Ma
il sollevamento non ha potuto invertire il trend globale verso la
ri-precarizzazione, e il rallentamento della crescita economica che lo
ha seguito ha peggiorato la situazione. Blocchi dei treni di fosfato a
Gafsa, copertoni che bruciano nelle campagne di Sidi Bouzid, presidi
nella sede del governatorato della frontaliera Kasserine, cassonetti a
fuoco nelle banlieues di Tunisi, occupazioni di oasi a Kebili… Molte
delle pratiche e delle rivendicazioni emerse nel 2008 ed esplose nel
2011 continuano a tenere in vita le aspirazioni alla dignità e alla
giustizia della tentata rivoluzione. Le delusioni degli ultimi anni sono
state amare, ma il futuro non è scritto.