L’adesione
del governo italiano alle nuove direttive della NATO sulle spese
militari ha generato un aspro dibattito, che si sta concentrando
soprattutto sulle conseguenze finanziarie per il bilancio del paese,
già fortemente indebitato. Da un lato e dall’altro, sia tra chi
sostiene questa scelta del governo di Giorgia Meloni sia da parte di chi
la contesta, vengono agitate cifre in realtà inverosimili, per vari
motivi. In questa fase è semplicemente impossibile definire con
esattezza l’aumento della spesa, soprattutto nella sua progressione anno
per anno.
Durante il dibattito nell’aula della Camera di lunedì,
Elly Schlein ha accusato Meloni di mentire, «perché portare al 5 per
cento la spesa militare da noi vorrebbe dire 87 miliardi in più all’anno
e 445 miliardi in più in dieci anni». Sono cifre sballate.
A quanto pare Schlein ha tratto i numeri da questo sito,
facendone un uso discutibile. Peraltro, intervenendo poco prima di lei,
il responsabile Esteri del partito Peppe Provenzano aveva parlato un
po’ più realisticamente di «60 miliardi in più». Ma anche Meloni ha
mistificato un po’ le cose: ha detto che quello che l’Italia dovrà
sostenere nei prossimi 10 anni «è un impegno non distante da quello che,
nel 2014,
il governo di allora prese». Anche questo è un calcolo inesatto, perché
stando ai dati disponibili e per quel che è possibile prevedere adesso,
l’Italia dovrà verosimilmente spendere tra i 3 e i 3,5 miliardi di euro
in più all’anno.
– Leggi anche: Per l’Italia aumentare la spesa militare resta molto difficile
L’Italia, adeguandosi alle nuove linee guida definite su iniziativa del presidente statunitense Donald Trump
nella riunione dei paesi NATO che si svolge in questi giorni all’Aia,
nei Paesi Bassi, dovrebbe aumentare la sua spesa per la difesa di quasi
3,5 punti percentuali di prodotto interno lordo (PIL). L’obiettivo è di
raggiungere il 5 per cento del PIL in spese militari entro il 2035, e
l’Italia nel 2025 ha stanziato l’1,57 per cento del PIL. Da questo punto
di vista, in linea puramente teorica, l’Italia dovrebbe arrivare a
spendere, tra 10 anni, circa 70 miliardi di euro in più rispetto a
quelli stanziati quest’anno. Ma bisogna tenere in considerazione alcuni
dettagli essenziali, che ridimensionano enormemente la spesa effettiva
che l’Italia si è impegnata a sostenere.
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Anzitutto,
il fatto che quel 5 per cento indicato come obiettivo minimo dalla NATO
si compone di due voci: il 3,5 per cento di spese per la difesa, e
l’1,5 per cento per la sicurezza. Questo dettaglio è frutto di un
compromesso politico: Trump potrà rivendicare di aver costretto gli
Stati europei ad arrivare fino al 5 per cento, ma gli Stati europei
potranno evitare di spendere cifre per loro insostenibili. Nell’1,5 per
cento delle spese per la sicurezza potranno infatti essere computate
moltissime cose: dalle infrastrutture utilizzabili anche dai mezzi
militari (strade, ponti, ferrovie), agli investimenti in sicurezza
informatica, dall’installazione di cavi sottomarini per il passaggio di
energia, gas o dati, fino alla gestione dell’immigrazione, alla
protezione civile e al rinnovo dei sistemi di riconoscimento facciale
per i controlli negli aeroporti, solo per fare alcuni esempi.
Si
tratta, per l’Italia e non solo, di spese che in larghissima parte già
si sarebbero dovute affrontare, e in una certa misura già messe a
bilancio. Non si conoscono ancora i dettagli puntuali del piano di
investimenti italiano per la sicurezza, ma si può sostanzialmente dire
che quell’1,5 per cento per la sicurezza non genererà un aumento
effettivo dell’indebitamento, e non comporterà comunque nuove spese
rilevanti.
Resta
dunque l’obiettivo del 3,5 per cento per le spese per la difesa. Sono
poco meno di 2 punti di PIL in più: grosso modo, circa 58 miliardi di
maggiore spesa in 10 anni. Però il governo ha già annunciato di aver
trovato le risorse necessarie a portare la spesa in difesa al 2 per
cento del PIL entro quest’anno, e lo ha fatto senza un effettivo aumento
degli investimenti. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è riuscito
infatti a sfruttare alcune ambiguità delle regole finanziarie della
NATO, da lui stesso descritte come cervellotiche, per fare in modo che
vengano computate a questo fine alcune spese che finora non rientravano
nei capitoli di bilancio della difesa (per esempio: le pensioni dei
militari).
Con
questo semplice artificio contabile, l’Italia chiuderà con ogni
probabilità il 2025 con spese militari quantificate nel 2 per cento del
PIL, o addirittura lievemente superiore.
A
questo punto, resta circa 1 punto e mezzo di PIL di maggiore spesa in
10 anni. Meloni, con una divisione un po’ sbrigativa, ha spiegato che
significa aumentare il bilancio per la difesa di 0,15 punti percentuali
di PIL all’anno (dunque circa 3,2 miliardi, quest’anno) fino al 2035.
Una cifra non proibitiva, per la finanza pubblica italiana, ma comunque
rilevante. Tuttavia anche in questo caso, se si scende nei dettagli, si
capisce che è abbastanza impossibile stimare una spesa annua precisa.
Infatti
il governo aveva già previsto di aumentare le spese per la difesa di
3,3 miliardi nel 2026 e di 4,6 miliardi nel 2027: dunque, almeno in
parte, per i primi due anni i livelli di spesa non dovrebbero aumentare
affatto, almeno rispetto agli stanziamenti già programmati. Ma l’altro
punto fondamentale da tenere in considerazione è che non ci sarà alcun
obbligo per i governi di seguire una progressione definita nella spesa.
Alcuni dei governi più in difficoltà sul piano finanziario,
compreso quello italiano, hanno infatti ottenuto che nel raggiungimento
dell’obiettivo del 3,5 per cento di PIL entro il 2035 non ci siano
degli aumenti minimi annui (come avviene invece in ambito europeo per i
paesi che devono ridurre il proprio deficit). Questo significa che ogni
governo avrà la facoltà di rinviare in tutto o in parte, in caso di
necessità o per opportunismo elettorale, l’aumento di spesa di anno in
anno, e magari lasciare al governo successivo l’obbligo di stanziare
maggiori risorse. E non è un’ipotesi astratta: è esattamente quello che è
successo negli ultimi dieci anni per l’Italia rispetto ai precedenti
obiettivi di spesa della NATO.
È
una cosa che però potrebbe cambiare. Un’altra concessione ottenuta
dagli Stati meno propensi a spendere in difesa è stata infatti di
prevedere una revisione degli impegni nel 2029. E la speranza sottaciuta
dagli esponenti del governo italiano è che tra 4 anni, non essendoci
più Trump alla Casa Bianca, sarà possibile ottenere una dilazione
maggiore dei tempi, o comunque un ridimensionamento degli obiettivi che
consentirebbe all’Italia di affrontare l’impegno con meno difficoltà.
Anche in questo caso, poi, c’è un precedente.
Nel
2014, durante una riunione NATO in Galles, gli Stati membri si
impegnarono a raggiungere l’obiettivo minimo del 2 per cento di spese
militari in rapporto al PIL entro un decennio. Anche in quel caso,
l’Italia non seguì affatto una progressione di spesa coerente (anzi, il
governo di Matteo Renzi, subito dopo la definizione di quell’accordo, la
ridusse lievemente), e nel 2022, quando era ormai chiaro che non
sarebbe riuscito a perseguire l’obiettivo, il ministro della Difesa
Lorenzo Guerini, del PD, spiegò che al 2 per cento si sarebbe arrivati
entro il 2028.
Proprio
facendo riferimento a questo precedente, Meloni ha detto lunedì alla
Camera che l’impegno preso oggi dal suo governo ha lo stesso peso
finanziario di quello assunto nel 2014. Ma non è proprio così. L’Italia
nel 2014 spendeva l’1,14 per cento del PIL in difesa:
avrebbe dovuto aumentare dello 0,86 per cento la spesa in rapporto al
PIL da destinare al settore militare in 10 anni. Dunque, volendo fare un
paragone che è comunque da prendere con molta cautela per via del
diverso contesto economico e internazionale, l’impegno finanziario in
quel caso era circa la metà di quello attuale, perché si trattava di
circa 1,6 miliardi in più all’anno per 10 anni.