RIPORTIAMO INTEGRALMENTE QUESTO ARTICOLO DAL SOLE24ORE PERCHE' SPIEGA ANCHE CON L'AUSILIO DI DATI, DAL PUNTO DI VISTA DEI PADRONI, LA CENTRALITA' DELLA BATTAGLIA IN CORSO ALL'ILVA DI TARANTO E LA CONSEGUENTE NECESSITA' PER GLI OPERAI E LA POPOLAZIONE DI SCENDERE IN CAMPO E LOTTARE CONTRO IL SISTEMA DEI PADRONI, A PARTIRE DAL 20 OTTOBRE AL TRIBUNALE PER UN PROCESSO POPOLARE A PADRONI-GOVERNO-ISTITUZIONI...
TARANTO-ITALIA Un simbolo non solo del Sud
di Paolo Bricco SOLE24ORE
Destini incrociati. Il dilemma italiano si incarna perfettamente in Taranto, nella sua doppia natura di città dell'industria e di città del Sud. La manifattura è indispensabile nella fisiologia economica e civile, tecnologica e culturale del nostro Paese.
Dunque,
nessuno può fare a meno dell'Ilva, che di questa complessa
architettura è uno degli elementi portanti. Allo stesso modo, se il
Sud caduto non riuscisse più a rialzarsi, l'Italia tornerebbe al suo
destino preunitario, brillantemente residuale: essere una semplice
espressione geografica. Nel romanzo del Sud segnato dalle ombre di
una recessione violenta e perdurante ma anche percorso dall'istinto e
dal desiderio di non soccombere a questa fase storica economicamente
e psicologicamente ultradepressiva, il destino della maggiore
acciaieria europea, affacciata sul Mar Piccolo e incombente sulle
case del Rione Tamburi, è un capitolo fondamentale. L'Ilva
commissariata, che oggi è nell'orbita pubblica, è una impresa
strategica per l'economia italiana. Le 10 milioni di tonnellate
realizzate a Taranto fino a tre anni fa valevano il 40% della
produzione di acciaio italiana. Coils, lamiere, nastri. Limitandosi
ai prodotti piani, la quota di produzione riferibile all'Ilva era del
75 per cento. Sotto il profilo del mercato finale, questo acciaio
copriva il 65% del consumo effettivo della nostra manifattura. Tutti
i settori industriali italiani si “nutrivano” dei coils e delle
lamiere tarantine: non particolarmente avanzati sotto il profilo
tecnologico ma affidabili, con prezzi concorrenziali ed espressione
di una impresa che funzionava. Fino all'avvio dell'inchiesta per
disastro ambientale, veniva fabbricato con questo acciaio il 25%
dell'automotive italiano: le macchine e le motociclette montate negli
stabilimenti del nostro Paese, ma anche i componenti e i sistemi che
finivano sulle vetture realizzate all'estero, per esempio in Francia
e soprattutto in Germania. Era di Taranto il 16% dell'acciaio
adoperato nel comparto dei casalinghi italiani e il 20% degli
apparecchi meccanici e delle macchine movimento terra e i trattori.
L'8% della carpenteria pesante e delle costruzioni.
Il 15% dei tubi.
Il 2% della cantieristica navale. Il 4% del bianco: le lavatrici, gli
elettrodomestici e i frigoriferi. Adesso, con l'Ilva impegnata in un
complicato tentativo di conciliare risanamento ambientale e
turn-around industriale, è impossibile stimare quanto queste quote
siano diminuite. Resta, però, chiaro che questa impresa – adesso
nel perimetro pubblico, sotto il profilo della gestione e della
dipendenza finanziaria - è un tassello indispensabile del nostro
mosaico tecno-manifatturiero. Un tassello che, in un periodo di
sovraccapacità industriale della siderurgia comunitaria (200 milioni
di tonnellate di capacità produttiva potenziale annua in Europa, 50
milioni in più della capacità reale di assorbimento del mercato),
molti concorrenti stranieri desidererebbero semplicemente eliminare,
tanto da avere invocato – in sede di Eurofer, naturalmente con
l'opposizione italiana – l'intervento preventivo di Bruxelles
contro ogni ipotesi di conferimento di fondi pubblici, giudicati alla
stregua di aiuti di Stato. Nessuno si può permettere la chiusura
dell'Ilva. In un gioco di scatole cinesi, non se la possono
permettere né l'economia locale, né il Sud, né l'economia
nazionale, né il Paese nel suo complesso. Basti pensare che, secondo
uno studio della Banca d'Italia, prima dell'inchiesta giudiziaria, il
75% del Pil della provincia di Taranto era riferibile all'attività
diretta e indiretta dell'acciaieria, che qui impiega 11.500 dei suoi
16mila complessivi e dà lavoro ad altri 5mila dipendenti
dell'indotto. Sul piano nazionale, secondo le stime econometriche
della Svimez, negli ultimi tre anni sono andati in fumo 10 miliardi
di Pil, sono stati cancellati 2 miliardi di investimenti e si sono
vanificati 4,5 miliardi di export. Dunque, l'intera dorsale
manifatturiera italiana – l'automotive e la metalmeccanica, la
grande meccanica e il bianco – ha bisogno dell'Ilva. Di certo non
ne possono fare a meno la città di Taranto e la sua provincia. Ne ha
bisogno il Paese. È indispensabile per il Sud. Un Sud che, fra il
2008 e il 2014, ha perso – nei calcoli della Svimez – il 13% del
Pil reale, contro il -8,7% nazionale. Se, nello stesso periodo, gli
investimenti nel Centro-Nord sono calati del 27,1%, al Sud sono scesi
del 38,1 per cento. Nello specifico industriale in senso stretto, nel
Centro-Nord sono scesi del 17,1% e nel Sud sono calati del 57,3 per
cento. Anche se, nella sovrapposizione fra le cartine economiche e le
cartine delle anime, il Sud mostra a chiunque se ne voglia accorgere
la sua identità complessa e contraddittoria, articolata e polimorfa.
E lo fa in un Paese che, in toto, deve ripartire. Nell'annuario
Svimez compaiono i 239mila posti di lavoro in più creati fra il 2008
e il 2014 per chi ha 55 anni. E compare il calo del 16,8%, in quei
sei anni, delle donne inattive fra i 15 e i 34 anni. Nel 2014 il
valore aggiunto per occupato nel Mezzogiorno è pari a 50, rispetto a
100 del Centro Nord? Nei servizi è a 82 punti. Ecco perché,
nonostante tutto, esiste una cultura industriale – di grande
impresa, ma anche di piccola e media – ed esiste una prospettiva
nel terziario. Ecco perché Taranto e il Sud - e dunque l'Italia - ci
sono.
25
settembre 2015
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