"Tutto quello che ci sta arrivando addosso sono gli effetti delle guerre e della destabilizzazione che abbiamo seminato"
- Mara Carro*
- da contropiano
L'AntiDiplomatico ha intervistato Alberto Negri analista de
il Sole 24 ore. "L'Europa è disarmata. Tutto quello che ci sta arrivando
addosso sono gli effetti delle guerre e della destabilizzazione che
abbiamo seminato".
- Sempre sulle contraddizioni occidentali, passiamo alla Turchia e al capitolo curdi. Dopo averli appoggiati in funzione anti-Isis, l’Occidente gli ha voltato le spalle. Lo “zelo” della Turchia nell’accelerare la scomparsa di Stato islamico è motivato principalmente dal desiderio del presidente Erdogan di annullare la vittoria alle urne del partito HDP che ha ottenuto il 13% dei voti in un'elezione, quella dello scorso giugno, che ha visto l’AKP perdere la sua maggioranza assoluta in Parlamento per la prima volta in oltre un decennio. La Turchia sta essenzialmente usando una finta campagna contro lo Stato islamico per giustificare un nuovo conflitto con il Pkk, colpendo in realtà tutto il movimento curdo e anche il partito politico Hdp. Qual è il quadro a un mese e mezzo dalle elezioni del 1° novembre?
Dopo oltre 300mila vittime, sette milioni di sfollati e migliaia di
rifugiati che partono per l’Europa alla ricerca di un futuro migliore,
la guerra siriana è ormai entrata nel suo quinto anno. La situazione sul
campo continua a segnare uno stallo che sembra senza uscita eppure, in
queste settimane, qualcosa sembra si stia muovendo. Ne parliamo con
Alberto Negri, inviato de Il Sole 24 Ore e testimone sul campo di tutte
le guerre degli ultimi 30 anni.
Attraverso una lucida analisi degli obiettivi statunitensi in Medio
Oriente, degli interessi finanziari esercitati dalle monarchie del
Golfo in Occidente e una severa critica alle “guerre senza senso” degli
ultimi anni, Negri fornisce le coordinate per orientarsi in questa
“guerra per procura tra le potenze regionali cui hanno contribuito
attivamente anche gli americani” e gli europei.
- L’offerta del Cremlino di costituire un coalizione
internazionale contro lo Stato Islamico è stata, forse troppo
precipitosamente, respinta dall’Occidente che, allo stato attuale dei
fatti, non sembra avere ancora una strategia. Mercoledì il generale
americano Lloyd J. Austin, il capo del Central Command dell'Esercito
americano ha informato il Congresso che solo 4 o 5 dei primi 60 ribelli
addestrati dagli Usa per combattere contro lo Stato Islamico sono al
momento in Siria. Non è arrivato il momento di negoziare con Putin
considerando che l’intervento russo fa comodo a tutti, americani
compresi, preoccupati dal collasso di Assad?
Sarebbe il caso di negoziare se, come in tutti i grandi drammi, non
circolasse, come sempre, una
buona dose di propaganda. Gli Stati Uniti stanno cercando di giustificare una eventuale svolta in Siria, che comprenda anche un negoziato, un accordo, un’intesa con la Russia di Putin, e questo lo evinciamo dalle notizie diffuse dai giornali americani. La Casa Bianca, il Pentagono e lo stesso Congresso non sarebbero stati informati correttamente sulla situazione sul campo. In realtà non c’è stata nessuna manipolazione. Gli Stati Uniti sanno perfettamente qual è la situazione sul campo nella lotta al Califfato: circa il 60-70% dei raid si concludevano con un nulla di fatto. Basta vedere quello che accade in Iraq dove ci sono città delle dimensioni di Mosul o Ramadi ancora nelle mani del Califfato.
Qualcuno ha condotto un’offensiva? Sono gli americani che dovrebbero sostenere un’offensiva per la quale il governo di Baghdad non ha né i messi né le forze. Quando la situazione sul terreno è questa bisogna chiedersi quali siano gli obiettivi. Gli Stati Uniti non avevano nessuna intenzione di fare la guerra al Califfato e dare così una mano ad Assad che volevano già bombardare nel 2013.
- Allora qual è l’obiettivo degli Stati Uniti?
L’obiettivo degli Stati Uniti è quello che avevano già negli anni ’80 con l’Iran e con l’Iraq: non assegnare la vittoria a nessuna delle parti in campo, sunnita o sciita che sia, ma tenere un bilanciamento delle forze che in qualche modo confermi una situazione di stallo. Sono le tattiche americane del doppio contenimento, tattiche che però a volte sono destinate a deragliare, come avvenuto in Medio Oriente e che, ci porteranno, in dote, dal Levante, altri profughi.
buona dose di propaganda. Gli Stati Uniti stanno cercando di giustificare una eventuale svolta in Siria, che comprenda anche un negoziato, un accordo, un’intesa con la Russia di Putin, e questo lo evinciamo dalle notizie diffuse dai giornali americani. La Casa Bianca, il Pentagono e lo stesso Congresso non sarebbero stati informati correttamente sulla situazione sul campo. In realtà non c’è stata nessuna manipolazione. Gli Stati Uniti sanno perfettamente qual è la situazione sul campo nella lotta al Califfato: circa il 60-70% dei raid si concludevano con un nulla di fatto. Basta vedere quello che accade in Iraq dove ci sono città delle dimensioni di Mosul o Ramadi ancora nelle mani del Califfato.
Qualcuno ha condotto un’offensiva? Sono gli americani che dovrebbero sostenere un’offensiva per la quale il governo di Baghdad non ha né i messi né le forze. Quando la situazione sul terreno è questa bisogna chiedersi quali siano gli obiettivi. Gli Stati Uniti non avevano nessuna intenzione di fare la guerra al Califfato e dare così una mano ad Assad che volevano già bombardare nel 2013.
- Allora qual è l’obiettivo degli Stati Uniti?
L’obiettivo degli Stati Uniti è quello che avevano già negli anni ’80 con l’Iran e con l’Iraq: non assegnare la vittoria a nessuna delle parti in campo, sunnita o sciita che sia, ma tenere un bilanciamento delle forze che in qualche modo confermi una situazione di stallo. Sono le tattiche americane del doppio contenimento, tattiche che però a volte sono destinate a deragliare, come avvenuto in Medio Oriente e che, ci porteranno, in dote, dal Levante, altri profughi.
Quando si parla di Assad, bisogna tenere a mente che né i russi né
gli iraniani vogliono tenere a tutti i costi il presidente siriano al
potere. Mosca e Teheran sarebbero ben disposte a negoziare un’uscita di
scena di Assad ma nel quadro di una cosiddetta transizione ordinata, una
cosa che hanno già detto molte volte negli ultimi due o tre anni. Cosa
vuol dire transizione ordinata: un’uscita di scena di Assad ma non la
fine del regime, la fine dei vertici militari o dell’Esercito siriano.
Un punto che non è stato interamente accettato né dagli Stati Uniti, né
in parte dagli europei né dai loro, controversi, alleati.
- In poche parole Lei sintetizza perfettamente la
parabola della guerra siriana: “un conflitto civile diventato quasi
subito una guerra per procura tra le potenze regionali cui hanno
contribuito attivamente anche gli americani”. Oltre agli enormi
interessi geopolitici delle parti coinvolte e quelli relativi al
controllo dei flussi del gas, spiccano gli interessi finanziari
occidentali così intrecciati alle monarchie del Golfo.
Pongo questa domanda ai lettori: perché questi paesi non accolgono
un profugo? Questi Paesi oggi ci “pagano” in termini di commesse
militari e civili, di acquisto di bond, e quindi del nostro debito, di
partecipazioni commerciali e industriali nelle imprese europee e
occidentali per accogliere i rifugiati. Sono questi i veri interessi
oggi. L’integrazione del mondo sunnita, soprattutto di quello meno
democratico, è innervato profondamente negli interessi occidentali. È a
causa di questi interessi che gli Stati Uniti e l’Europa non potranno
mai condurre una politica davvero bilanciata in Medio Oriente. Siamo
disposti ad avere meno posti di lavoro, meno investimenti, meno soldi
pur di sganciarci da queste autocrazie di famiglia? Ne dubito. Guardiamo
alla Francia, ad esempio. Hollande è stato l'unico capo di stato
occidentale ad essere invitato, quest’anno, a un vertice del Consiglio
di cooperazione del Golfo. La Francia ha appena venduto impianti
nucleari e armi a Riad. Parigi ha mollato persino il Qatar pur di
vendere ai sauditi. Questi sono gli interessi veri, i più forti, quelli
veramente determinati: il capitale finanziario che questi paesi
investono nelle nostre economie.
- Nel suo articolo dell’11 settembre, ha scritto
che “l’Occidente non è ancora uscito dalla macchina infernale delle
guerre senza senso innescata dagli attentati dell’11 settembre 2001”.
Parla di “guerre senza obiettivo politico”: Iraq 2003, Libia 2011. Qui
si innesta anche il problema dei profughi. Seguendo a ritroso il
percorso di queste masse di persone vediamo che partono da paesi che gli
Stati Uniti e l'Europa, con i loro alleati regionali, hanno contribuito
a destabilizzare senza poi lavorare ad una ricostruzione. Non
interferire negli affari di paesi sovrani può essere un primo passo per
la soluzione al problema dei profughi?
Ero nell’ufficio di Tareq Aziz a Baghdad quando il Segretario di
Stato americano, Colin Powell, fece il famoso discorso al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio, agitando la famosa fiala
per provare al mondo intero l’esistenza della cosiddetta “smoking gun”,
la pistola fumante, la falsa prova che gli americani esibirono sulla
presenza di armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam Hussein.
Aziz non alzò mai lo sguardo verso la diretta della CNN. “Ci faranno la
guerra anche se consegnassimo fino all’ultimo dei nostro kalashnikov”.
Negli ultimi 35 anni, dalla guerra in Afghanistan, abbiamo vissuto
dentro ad uno schema americano finalizzato non a costruire un nuovo
ordine in Medio Oriente, come è stato detto, ma a perseguire due
obiettivi: il contenimento dell’Urss prima e della Russia poi e la frammentazione degli Stati arabi
della regione in modo che non ci potesse essere nessuna potenza
militare, economica mediorientale che potesse essere concorrente di
Israele e degli alleati arabi degli Stati Uniti. Questi sono i due
obiettivi a cui tutto è stato subordinato, compresa l’intera
cancellazione di nazioni come l’Iraq e la Siria. Di fronte a questa
strategia ben chiara, l’Europa è disarmata perché non è stata capace di
intervenire per frenare questa disgregazione e, addirittura, come nel
caso della Libia e dell’Iraq, l’ha avallata e vi ha partecipato. Tutto
quello che ci sta arrivando addosso sono gli effetti delle guerre e
della destabilizzazione che abbiamo seminato, insieme agli Stati Uniti,
in tutta l’area mediorientale e ai nostri confini.
- Sempre sulle contraddizioni occidentali, passiamo alla Turchia e al capitolo curdi. Dopo averli appoggiati in funzione anti-Isis, l’Occidente gli ha voltato le spalle. Lo “zelo” della Turchia nell’accelerare la scomparsa di Stato islamico è motivato principalmente dal desiderio del presidente Erdogan di annullare la vittoria alle urne del partito HDP che ha ottenuto il 13% dei voti in un'elezione, quella dello scorso giugno, che ha visto l’AKP perdere la sua maggioranza assoluta in Parlamento per la prima volta in oltre un decennio. La Turchia sta essenzialmente usando una finta campagna contro lo Stato islamico per giustificare un nuovo conflitto con il Pkk, colpendo in realtà tutto il movimento curdo e anche il partito politico Hdp. Qual è il quadro a un mese e mezzo dalle elezioni del 1° novembre?
L’obiettivo di Erdogan, com’è noto, è l’HDP ma i sondaggi, per ora,
non danno ragione al presidente turco. Vedremo cosa succederà da qui al
primo novembre ma le elezioni sono già ipotecate, nella loro
regolarità, da quanto accade nell’Anatolia del sud-est, il cosiddetto
Kurdistan.
C’è però un altro aspetto da sottolineare, le conseguenze politiche
delle recenti mosse di Erdogan. La decisione del presidente turco di
sospendere la tregua e aprire le ostilità con il PKK e i curdi ha
prodotto il ritorno in primo piano dei militari, quelle Forze Armate
emarginate dalla politica e messe sotto processo proprio dall’unico –
almeno finora - burattinaio della politica turca. Adesso però Erdogan ha
bisogno dei militari per condurre questa guerra e il loro ritorno sulle
scene rischia di condizionare le mosse del presidente. Riprova è che la
stessa retorica politica del partito AKP è cambiata. Mentre prima
l’accento era posto sull’aspetto neo-ottomano, sul panislamismo, oggi si
è tornati al nazionalismo. Il ritorno sulla scena dei militari
determina un’altra svolta nella politica interna turca, un politica già
fortemente condizionata – in senso antidemocratico - dalle mosse di
Erdogan che mira a riprendersi il monopolio della politica turca e
diventare il leader incontrastato del paese. In questo quadro di
politica interna si innesta una situazione di doppio conflitto, uno più
convinto con il PKK e uno meno convinto contro l’Isis, con il paese che
vede ancora di più restringersi e assottigliarsi le sue chances di
cambiamento democratico. In questo senso, le elezioni del primo novembre
sono in qualche modo decisive.
* da Lantidplomatico.it
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