Il microfono passa di mano in mano tra i ragazzi. Chiedono a Bonanno in che modo gli anarchici debbano inserirsi nei terreni di scontro con lo Stato. Chiedono in che modo debbano portare avanti le lotte quotidiane. Parlano delle difficoltà, delle contraddizioni, della repressione con cui devono fare i conti. Parlano di lotta per la casa e di Tav. Fanno bilanci. Si interrogano su come proseguire quelle esperienze. Lui ascolta. Risponde, con calma. “Non ho la verità in tasca, altrimenti non sarei un anarchico. Le mie sono ipotesi. Tentativi a volte vittoriosi, a volte perdenti. A Comiso, nei primi anni Ottanta, arrivarono seicento anarchici per dire no all’installazione dei missili nella base statunitense. Perché non dovevo sognare di distruggere quella base? Perché non dovevo sognare che da Comiso scoppiasse un’insurrezione che si allargasse in tutta la Sicilia e poi in tutta Italia? Questa è la bellezza dell’anarchia. Provammo a far scendere i cittadini in strada. Giocammo anche la carta del pietismo: portammo i feriti durante gli scontri in piazza a Vittoria, paese con una grande tradizione di lotta alle spalle, sperando che i cittadini, vedendo quei ragazzi con la testa spaccata, venissero colti dalla voglia di ribellarsi. Non fu così. Ma almeno ci abbiamo provato. Anche perché dobbiamo sempre ricordare che le nostre pratiche non sono autoreferenziali, ma servono anche ai compagni di altri paesi”.
Poi una lezione: “Nella mia vita non ho mai incontrato un compagno che conoscesse la piantina di una città. Bisogna conoscere il territorio. Gli obiettivi civili e militari vulnerabili. Ma non bisogna chiamare ‘vittoria’ la morte di un poliziotto né di nessun altro. Il sangue porta solo lacrime. Noi vogliamo distruggere il potere, non le persone. Ma bisogna essere preparati. Prendete il primo maggio contro Expo, dove qualcuno si è fatto i muscoli, dandosi a semplice ‘sport rivoluzionario’. O le grandi manifestazioni ad Atene quando fu sferrato l’attacco al Parlamento, un palazzo del potere buono per farci una pisciata dentro. Noi non siamo quelli che tentano la presa del Palazzo d’Inverno, queste cose lasciamole ad altri. Noi dobbiamo saper nuotare e muoverci controcorrente. Perché quando la marea sale, le forze dell’ordine sono lì a sorvegliarla. Mentre noi possiamo attaccare i veri obiettivi che ci interessano”. Poi precisa: “Io a Milano non c’ero, non sono dentro quelle realtà, quindi non conosco le decisioni che sono state prese”.
Teoria, ragiona Bonanno. A cui i gruppi di affinità (un nucleo ristretto di persone che si accordano per mettere a segno una singola azione e poi sciogliersi) non sono ancora rodati alla perfezione. Una ragazza allora chiede come attuare al meglio questa pratica nelle città, per ferire il più possibile lo Stato. Bonanno sorride: “Stai facendo un passo troppo grosso. Ti sto dicendo che siamo a zero e tu vuoi andare di colpo a cento. Ma una cosa è utile, e te lo dice un ex galeotto a cui le pistole fanno schifo: sapere dove sono piazzate le banche è importante. Lì ci sono i soldi. E i soldi non fanno schifo se vengono utilizzati per la causa rivoluzionaria”.
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