Negli ultimi
mesi si è parlato molto della Tunisia in seguito ai due attentati terroristici
che hanno scosso il paese nord africano nel mese di Marzo al museo del Bardo, adiacente
il palazzo parlamentare dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e lo
scorso luglio in uno dei lussuosi resorts balneari per turisti nella città di
Sousse. In entrambi gli attentati, rivendicati dal gruppo islamista Stato
Islamico (Daech), sono morti principalmente turisti stranieri, nel primo
attentato anche un lavoratore del museo e due poliziotti.
In particolare
dopo il secondo attentato il governo Essid spalleggiato dal presidente della
repubblica Essebsi (la Tunisia approvata la nuova costituzione l’anno scorso ha
un assetto semi-presidenziale alla francese) ha invocato il pugno di ferro
contro “il terrorismo” promuovendo una nuova legge “anti-terrorismo” e
dichiarando lo scorso 4 Luglio lo stato di emergenza per un mese, prorogato di
altri due mesi ovvero fino al 2 Ottobre 2015 salvo ulteriori proroghe che sono
consentite dalla nuova costituzione. Ma facciamo un passo indietro.
In Tunisia il
fenomeno dell’islam politico, volgarmente definito “islam radicale” o
“islamismo”, ha radici relativamente recenti, infatti nasce alla fine degli anni ’70- inizio anni ’80 (l’islam politico nasce in Egitto negli anni ’20 per poi diffondersi gradualmente nel mondo islamico) da sempre represso e schiacciato dal regime autocratico di Ben Ali alla stregua delle opposizioni laiche di matrici marxista e liberale.
“islamismo”, ha radici relativamente recenti, infatti nasce alla fine degli anni ’70- inizio anni ’80 (l’islam politico nasce in Egitto negli anni ’20 per poi diffondersi gradualmente nel mondo islamico) da sempre represso e schiacciato dal regime autocratico di Ben Ali alla stregua delle opposizioni laiche di matrici marxista e liberale.
Con la rivolta
popolare del 2010-2011 l’islam politico è riemerso nella figura della filiale
tunisina de facto del movimento dei Fratelli Musulmani che in Tunisia prende il
nome di Ennahdha (la Rinascita), questo partito islamista ha una buona presa di
massa in certi settori sociali e aree; alle spalle di esso fioriscono tanti
piccoli gruppi ancora più radicali e integralisti che si collocano alla sua
destra e che si rifanno alle correnti islamiche del wahabismo (dottrina
ufficiale in alcuni paesi del Golfo come l’Arabia Saudita) e il salafismo a cui
aderiscono gruppi come Ansar al-Charia e lo Stato Islamico.
Durante le
proteste di piazza del 2010-2011 le masse popolari scese in campo hanno
respinto questo tipo di organizzazioni, nella sostanza il “fronte” anti-Ben Ali
non era costituito dalle forze laiche/di sinistra e religiose nonostante
fossero entrambe contro il vecchio regime. Al contrario nel 2013 sotto il
governo Ennahdha, alcuni sicari appartenenti probabilmente ad Ansar al-Charia
hanno ucciso due esponenti della sinistra riformista tunisina appartenenti al
Fronte Popolare: Chokri Belaid e Mohammed Brahmi rispettivamente in Febbraio e
Luglio.
Questi fatti più
alcune dichiarazioni di certi esponenti di Ennahdha alimentano fondati sospetti
circa una certa “continuità politica” tra Ennahdha da un lato, gruppi wahabiti
e salafiti dall’altro. Questo è il
sentire comune del “tunisino medio laico”, la differenza propinata dai media
che distingue tra “islam moderato” e islam radicale” suona come un non-sense
per qualsiasi tunisino medio praticante ma cresciuto nella Tunisia modernista
fondata da Bourguiba e modellata in tal senso anche a causa della continuità nella
sottomissione economica di tipo neo-coloniale verso l’ex madrepatria francese.
Ormai è un fatto
che questo tipo di modello statuale “aggiornato” da Ben Ali è risultato
anti-popolare tant’è che dopo le varie rivolte operaie nel corso dei decenni
nel bacino minerario di Gafsa, si arriva alla rivolta popolare generalizzata
del 2010-2011 che riesce a rovesciare il regime di Ben Ali.
Il “nuovo”
regime (virgolette d’obbligo) dopo una serie di “governi di transizione” è il
frutto di un iter grottesco e “gattopardiano” che sta andando avanti coronando
un ulteriore tappa proprio in questi giorni tramite i due fatti politici citati
all’apertura di questo articolo: la
legge “anti-terrorismo” e lo stato di emergenza.
Il governo Essid
ha una corposa “quota di maggioranza” di Nidaa Tounes (che come abbiamo
ricordato in altre occasioni è il partito di Ben Ali senza Ben Ali, il suo ex
segretario e adesso presidente della repubblica Beji Caid Essebsi è stato un
uomo di regime sia durante Bourgouiba che sotto Ben Ali e adesso da
ultraottantenne ricopre addirittura la massima carica dello stato nella Tunisia
“democratica”.
Il partito ha
vinto le elezioni osteggiato da un alto tasso di astensionismo (prettamente
presente tra i giovani e la classe operaia e i disoccupati delle regioni
meridionali, ovvero lo zoccolo duro della rivolta) in ogni caso ha vinto la
maggioranza relativa dei seggi cavalcando l’onda del “voto utile”
anti-islamista ovvero anti Ennahdha.
Qui arriviamo
all’aspetto grottesco, Nidaa Tounes infine forma un governo proprio con
Ennahdha che detiene la quota di minoranza all’interno di esso, dando vita a
questo mostro a due teste che rappresenta l’unione tra le due fazioni della
borghesia reazionaria e compradora tunisina: quella definita “laica” e
modernista, legata all’imperialismo francese e quella “religiosa” e
oscurantista legata ai paesi del Golfo.
Intanto negli
ultimi mesi, dopo l’insediamento del governo lo scorso autunno, il popolo
tunisino e in particolare la classe operaia del bacino minerario di Gafsa, i
ferrovieri e i lavoratori della scuola e delle università hanno continuato a
scioperare e a bloccare mezzo paese per le stesse ragioni che ha fatto
scoppiare la rivolta quattro anni fa.
Nessun problema
socio-economico delle masse è stato risolto, le decantate libertà politiche
stanno regredendo alla situazione pre-rivolta proprio grazie a questi due nuove
provvedimenti: gli attentati terroristici sono capitati a fagiolo!
L’islam
politico, in ultima analisi, serve ed è il risvolto della medaglia dell’autocrazia
laico-modernista legata all’imperialismo occidentale che dice di combattere.
Ma cosa prevede
la nuova legge anti-terrorismo approvata a larga maggioranza lo scorso 25
Luglio da 174 deputati su 217 con 10 astenuti, 33 assenti e nessun voto
contrario?
Innanzitutto dà
ampi poteri alle forze di polizia (che essendo state per decenni il pilastro di
uno stato di polizia la cui struttura non è stata scalfita dalla rivolta, già
facevano il bello e il cattivo tempo con abusi di potere all’ordine del
giorno). I sospetti di “terrorismo” (torneremo più avanti sulla natura di tale
definizione nella legge in questione) possono essere incarcerati senza accusa
formale, senza poter contattare un avvocato e senza comparire davanti ad un giudice
per 15 giorni. Quindi per tale periodo il sospettato è “a completa disposizione”
delle forze di polizia all’interno delle carceri e caserme tunisine tristemente
famose e non a caso date alle fiamme sia durante la rivolta che durante le
ultime proteste di massa dei mesi scorsi nel sud del paese.
Questa vera e
propria sospensione dello stato di diritto viene definita dal primo ministro
Essid con le seguenti parole: “la legge anti-terrorismo da agli investigatori
le giuste condizioni per fare il loro lavoro. Abbiamo grandi speranze al
riguardo”.[1]
Tra le altre
novità la possibilità da parte degli investigatori di poter mettere sotto
controllo i telefoni e la corrispondenza elettronica dei sospettati senza un
avviso di garanzia (diciamo che la legge mette nero su bianco un fatto
esistente in tutti i paesi del mondo). È prevista anche la censura dei social
network come Facebook. È facile pensare che qualsiasi critica contro il governo
mossa sui social network, indipendentemente dalla sua provenienza, incorrerà in
una stretta applicazione di questa legge ancor più che durante il “periodo di
transizione” tra il 2010 e il 2014, alcuni blogger e attivisti sono stati
arrestati rei di aver esercitato quel diritto di espressione sancito anche
dalla nuova costituzione ma che, a questo punto, ancor più difficilmente sarà
applicato.
Oltre che al
settore repressivo anche l’impianto accusatorio riceve ulteriori poteri come la
possibilità di poter svolgere processi a porte chiuse in cui non solo viene
negata la presenza alla stampa e alle organizzazioni dei diritti umani, ma
viene anche limitata la presenza dell’avvocato difensore.
Inoltre la legge
prevede esplicitamente la pena di morte per i “terroristi”, in realtà mai
formalmente abolita nel paese ma inapplicata dal 1991 tramite una moratoria, il
nuovo regime fa un “passo in avanti” su questo campo anche rispetto al “dittatore”
Ben Ali.
Ma ciò che è
ancor più preoccupante è l’ampio spettro di applicazione della legge e la vaga
definizione di “terrorismo” che viene definito come “ qualsiasi progetto
individuale o collettivo il cui obiettivo, data la sua reale natura o
contestuale, è di diffondere il terrore”.
Inoltre l’articolo
13 considera come attacchi terroristi “il danneggiamento della proprietà
pubblica o privata o di beni pubblici e l’interruzione dei trasporti”.[2]
Ad esempio se
durante una manifestazione o uno sciopero, i dimostranti danneggiano una
proprietà pubblica o privata (come una caserma o una camionetta della polizia) o
più semplicemente bloccano una strada o delle rotaie (come avviene quasi il
100% delle volte che ha luogo una manifestazione) ciò non è semplicemente un
atto di violenza, giudicato più o meno legittimo a secondo da quale parte della
barricata ci si schieri, ma diventa un “atto terrorista”. Quindi la protesta
sociale può incorrere nella persecuzione della nuova legge “anti-terrorismo”. Ciò
è stato rivendicato apertamente e politicamente dal presidente della repubblica
che, ricordiamo ancora una volta, esponente dei precedenti regimi autocratici e
polizieschi, il quale si è scagliato contro gli scioperi perché “colpiscono l’economia
del paese” facendo tale dichiarazione subito dopo l’attentato di Sousse. Una frase
del genere pronunciata negli stessi giorni in cui a livello di massa si percepiva
che il principale danno arrecato dai due attentati terroristici, era stato
contro il principale settore economico del paese ovvero il turismo, e di
conseguenza ad essere colpito era stato “il
paese” (concetto vago e inesatto dato che non è il popolo che beneficia degli
introiti del settore turistico bensì la borghesia compradora che si limita
distribuire qualche briciola ai lavoratori del settore) significa per l’appunto
equiparare uno sciopero ad un attentato terrorista!
La pena minore
prevista dalla legge va da 3 anni di reclusione e 15.000 dinari di multa (circa
7.300 €) a 10 anni e 50.000 dinari di multa (circa 24.800 €) a seconda dei
casi, le pene vengono raddoppiate se il condannato era armato[3]. La possibilità
di condannare per “terrorismo” qualcuno disarmato conferma la preoccupazione
che la legge colpirà il dissenso politico e sociale considerato “terrorista”
dal “nuovo regime democratico”.
Intanto come
dicevamo la legge viene approvata in un contesto di “stato di emergenza” che al
tempo stesso la legittima e aiuta nell’applicazione immediata in quanto lo
stato di emergenza stesso prevede alcune misure draconiane tra cui il divieto
di scioperi e manifestazioni, il divieto di assemblea pubblica per più di 3
persone (come durante il fascismo in Italia). Questi provvedimenti sono
minimizzati dal primo ministro Essid che ha dichiarato: “non possono
organizzare proteste o scioperare, ma possono esprimersi in altri modi. La gente
può parlare o scrivere [ciò che vuole]”[4]. Certo
basta che, se in pubblico, non siano più di 3 persone, come dire che “esprimere
le proprie idee al bar, all’università e in qualsiasi luogo pubblico era
pericoloso sotto Ben Ali considerato l’alto tasso di informatori della polizia
e poliziotti in borghese, adesso almeno questo ve lo concediamo:
accontentatevi!”.
La possibilità
da parte dell’autorità di restringere la libertà di espressione dei media (che
in Tunisia hanno già una lunga tradizione di servilismo basti leggere come il
quotidiano in lingua francese La Presse ha etichettato quei parlamentari che si
sono astenuti dal votare la legge anti-terrorismo o che erano assenti in aula considerandoli
praticamente conniventi con il terrorismo!), più ampi poteri militari tra cui
un maggiore dispiegamento nelle arterie principali del paese e nelle città e la
licenza di sparare per uccidere “se attaccati”, oltre al dispiegamento di 3.000 uomini della "polizia turistica".
Tutte queste
misure che non rispettano il diritto di espressione dei cittadini e i diritti
dei lavoratori servono, secondo Essid, per “proteggere la nostra giovane
democrazia”[5]!!!
Sembra proprio
che la nuova legge “anti-terrorismo” sia più pensata come “soluzione” per
zittire le montanti proteste sociali che la scorsa primavera si stavano
moltiplicando a macchia d’olio nel paese a partire dalla “ribelle” Redeyef nel
governatorato di Gafsa fino ai ferrovieri di Tunisi “precettati” dalla stessa
UGTT (il sindacato) la cui dirigenza e ormai connivente con le organizzazioni
patronali riunite nell’Utica (la Confindustria tunisina) nonostante la repressione
poliziesca.
Inoltre, asserito
quanto detto all’inizio, con quale legittimità il governo tunisino parla di
lotta al “terrorismo” mentre ha al suo interno esponenti di Ennahdha, il cui
leader Gannouchi ha definito i giovani jihadisti partiti in Siria e Iraq a
combattere per lo Stato Islamico come “i nostri giovani”?
Un tale governo
non può e non vuole risolvere i problemi delle masse popolari che le masse
popolari stesse hanno posto durante la rivolta. In questo quadro la cosiddetta
opposizione parlamentare della sinistra riformista rappresentata dal Fronte
Popolare si è rivelata inutile e controproducente.
Inutile perché non
è stata neanche in grado di utilizzare le forme di lotta parlamentari come l’ostruzionismo
parlamentare, l’occupazione dell’aula e così via, neanche ha votato contro
rimanendo piuttosto a casa elargendo al massimo qualche intervista di presa di
posizione formale.
Controproducente
perché continua a illudere una parte dei lavoratori, dei giovani, delle donne e
anche i propri militanti di base che aver partecipato alle elezioni
(legittimando il “nuovo” regime che assomiglia sempre più al vecchio) possa far
avanzare la lotta iniziata con la rivolta per, come dicono loro, l’instaurazione
di una “repubblica democratica sociale” ovvero nè più e nè meno di una
repubblica democratica borghese che guardi alla socialdemocrazia. Ma come disse
qualcuno, “anche nella più democratica delle repubbliche borghesi, è la
schiavitù salariata [la sorte riservata al popolo]”.
Le uniche forze
realmente rivoluzionarie che denunciarono e boicottarono la farsa elettorale
dello scorso anno furono alcuni gruppi e partiti maoisti che formarono il
Comitato di Boicottaggio Elettorale e per questo subirono attacchi e
provocazioni sia da Ennahdha che dalla polizia. A loro spetta l’onere/onore di
affrontare la lotta contro il regime risolvendo le nuove contraddizioni che
pongono (nuovamente) la lotta in una condizione di totale illegalità. Inoltre solo
queste forze rivoluzionarie hanno un’analisi adeguata per poter potenzialmente
risolvere il fenomeno dell’emergere in Tunisia del Daech e di tanti giovani che
guardano all’islam politico come un’alternativa quando in realtà è parte del
problema.
[1]
https://en.qantara.de/content/new-anti-terrorism-law-in-tunisia-law-triggers-hope-and-concern.
[2] CFR, http://www.fairobserver.com/region/middle_east_north_africa/the-dangers-of-tunisias-anti-terrorism-law-12852/.
[3] ibidem.
[4] http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/habib-essid-interview-tunisias-pm-on-why-he-believes-his-countrys-increasingly-perilous-position-is-the-fault-of-the-western-powers-10441660.html
[5]
Ibidem.
Nessun commento:
Posta un commento