Questo utile articolo,
che pubblichiamo interamente, di Guido Viale, dice varie cose giuste,
ma non vuole analizzare a fondo e chiamare con il suo vero nome la
politica di respingimenti e di guerra degli Stati e dei governi
europei, che è imperialista, frutto
inevitabile della
natura imperialista dei paesi europei, compresa l'Italia; pertanto,
non si tratta di decisioni "insensate, inique,
controproducenti", ma di politiche - di oppressione, guerre,
difesa degli interessi delle multinazionali del capitale e di regimi,
ora "amici" ora da spodestare con gli eserciti imperialisti
- coerenti da parte dell'imperialismo verso i popoli del mondo, che
certo, producono anche effetti "insensati, iniqui,
controproducenti" che gli si ritorcono pure contro, ma che non
possono non fare; come sicuramente non possono e non vogliono fare
una politica che al posto di "salvare le banche e alimentare le
loro speculazioni", desse "lavoro a tutti", e
portasse avanti una "conversione ecologica dell’economia
ecc.".
Per questo a nulla
valgono impotenti appelli, proposte agli stessi Stati ad attuare
soluzioni alternative (sia pur logiche).
Queste proposte
contribuiscono in realtà ad attenuare la denuncia dell'imperialismo
europeo, e italiano, e a non porre all'ordine del giorno, come nostra
responsabilità, la lotta "senza se e senza ma" contro il
nostro imperialismo, come parte fondamentale della necessaria guerra
dei popoli nella contraddizione imperialismo/popoli oppressi, come
effettivo "aiuto" ai milioni di nostri fratelli e sorelle
che arrivano sulle coste europee.
Un altro aspetto che
sicuramente è sbagliato e debole dell'articolo di Viale è una
presunta contrapposizione tra forze autoritarie e scopertamente
razziste e forze di "sinistra" - riteniamo che si riferisca
soprattutto al Pd, dato che i primi vomitano razzismo becero a tutte
le ore, ma le altre forze adottano, anch'essi ogni giorno,
provvedimenti anti migranti, operazioni Triton, ecc, che producono
centinaia di morti in mare e preparano cocretamente dietro le quinte
la guerra contro la Libia.
Aiutiamoli a casa nostra
Ecco perché
sono insensati, iniqui e controproducenti i respingimenti e le invasioni
militari, e perché invece l’unica proposta ragionevole è un’ospitalità
completa, utile per l’oggi e soprattutto per il domani.
Profughi e
migranti sono due categorie di persone che oggi distingue solo chi vorrebbe
ributtarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, salgono sulle stesse
imbarcazioni che sanno già destinate ad affondare, hanno attraversato gli stessi
deserti, si sono sottratte alle stesse minacce: morte, miseria, fame, schiavitù
sapendo bene che con quel viaggio, che spesso dura anche diversi anni, avrebbero
continuato a rischiare la vita e la loro integrità.
I profughi e i migranti che
partono dalla Libia per raggiungere Lampedusa o le coste della Sicilia non sono
libici: vengono dalla Siria, o dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria, dal
Niger o da altri paesi subsahariani sconvolti da guerre, dittature o da entrambe
le cose. I profughi e i migranti che partono dalla Turchia per raggiungere
un’isola greca o il resto
dell’Europa attraversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non sono turchi (solo qualche curdo lo è per caso): sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi. Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Libia; ma nessuno ha ancora proposto di invadere la Turchia, o di bombardarne i porti, per bloccare quell’esodo prima che si imbarchino, come si sta invece proponendo di fare in Libia, fingendo che questa sia la strada per risolvere il “problema profughi”.
dell’Europa attraversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non sono turchi (solo qualche curdo lo è per caso): sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi. Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Libia; ma nessuno ha ancora proposto di invadere la Turchia, o di bombardarne i porti, per bloccare quell’esodo prima che si imbarchino, come si sta invece proponendo di fare in Libia, fingendo che questa sia la strada per risolvere il “problema profughi”.
Perché non si concepisce niente
altro che la guerra per affrontare un problema creato dalle guerre: guerre che
l’Europa, o qualcuno dei sui Stati membri, ha contribuito a scatenare; o a cui
ha assistito compiacente; o a cui ha partecipato con propri contingenti. Meno
che mai ci si propone di andare a “risolvere” le situazioni siriana, o irachena,
o afghana, già compromesse dalle “nostre” guerre, come si pensa invece di
“sbloccare” quella libica.
Bombardare i porti della Libia,
o occuparne la costa per bloccare quell’esodo, non è, nella mente di chi ne
propone o ne invoca la realizzazione, o ne attende con impazienza
l’autorizzazione, niente altro che il rimpianto di Gheddafi: degli affari che si
facevano con lui e con il suo petrolio e del compito di aguzzino di profughi e
migranti che gli era stato affidato con tanto di trattati, di finanziamenti e di
“assistenza tecnica”. Dopo aver però contribuito a disarcionarlo e ad ammazzarlo
contando – e sbagliando – sul fatto che tutto sarebbe filato liscio come e
meglio di prima.
Già solo questo abbaglio,
insieme agli altri che lo hanno preceduto, seguito o accompagnato – in Siria, in
Afghanistan, in Iraq, in Mali o nella Repubblica centroafricana – dovrebbe
indurci non a diffidare soltanto, ma a opporci con tutte le nostre forze, delle
proposte e ai programmi di guerra di chi se ne è reso responsabile.
Ma coloro che propongono un intervento militare
in Libia, o mettono al centro del “problema profughi” la lotta agli scafisti, o non
sanno bene che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenze dalla Libia non
farebbe che riversarne quel flusso sugli altri paesi della costa sud del
Mediterraneo, tra cui la Tunisia, redendo anche lì ancora più instabile la
situazione. Ma soprattutto non dicono – e forse non pensano: il pensiero non è
il loro forte – che cosa ci si propone con interventi del genere. Ma capirlo non
è difficile: si tratta di respingere o trattenere quel popolo dolente, composto
ormai da milioni di persone, in quei deserti che sono una via obbligata delle
loro fughe, e che hanno già inghiottito molte più vittime di più di quante non ne
abbia annegato il Mediterraneo; magari appoggiandosi, come si è cominciato a
fare con il cosiddetto processo di Khartum, a qualche feroce dittatura
subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. E’ il risvolto
micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia che corre da tempo in bocca ai nemici
giurati dei profughi: “aiutiamoli a casa loro”.
Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune che dobbiamo costruire insieme a loro. Non c’è alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura, o per entrambe le cose. Il primo passo da compiere è prenderne atto. Smettere di sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa, pensando così di combattere o neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre.
Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune che dobbiamo costruire insieme a loro. Non c’è alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura, o per entrambe le cose. Il primo passo da compiere è prenderne atto. Smettere di sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa, pensando così di combattere o neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre.
Certo, 50.000 profughi (quanti
ne sono rimasti di tutti quelli che sono sbarcati l’anno scorso in Italia) su 60
milioni di abitanti, o 500mila (quanti ne ha ricevuti l’anno scorso l’Unione
Europea) su 500 milioni di abitanti non sono molti. Ma come si vede, soprattutto
per il modo in cui vengono “gestiti”, cioè maltrattati, sono già sufficienti a
creare allarmi e insofferenze insostenibili. Ma non bisogna dimenticare che
quelli di quest’anno e degli ultimi anni non sono che l’avanguardia di altri
milioni di profughi stipati nei campi del Medioriente e del Maghreb, o in arrivo
lungo le rotte desertiche dai paesi subsahariani, che non possono – e non
vogliono – restare dove sono. Vogliono raggiungere l’Europa e in qualche modo si
sentono già cittadini europei, anche se non per questo dimenticano il loro paese
di origine e il desiderio di farvi ritorno quando se ne presenteranno di nuovo
le condizioni.
L’Unione europea, in mano all’alta finanza e
agli interessi commerciali del grande capitale tedesco ha concentrato le sue
politiche e i suoi impegni nel far quadrare i bilanci degli Stati membri a spese
della popolazione e nel garantire che le sue grandi banche uscissero comunque
indenni dalla crisi. Così, anno dopo anno, ha permesso o concorso a far sì che
ai suoi confini si creassero situazioni di guerra, di caos permanente, di
dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di
profughi e di migranti, senza più futuro nei loro paesi, è la prima e più diretta
conseguenza. Non saranno altre guerre, e meno che mai una politica feroce quanto
vana di respingimenti, a mettere fine a questo stato di cose che le istituzioni
dell’Unione non riescono più a governare né all’esterno né all’interno dei suoi
confini.
A riprendere le fila di quei
conflitti, e di quello che si sta producendo a causa degli sbarchi e degli
arrivi, non può che essere un nuovo protagonismo di quelle persone in fuga nella
definizione di una prospettiva di pace nei paesi da cui sono fuggiti. Ma questo,
solo se saranno messe in condizione di organizzarsi e di contare come
interlocutori principali, insieme ai loro connazionali già insediati da tempo
sul suolo europeo e a tutti i nativi europei che sono disposti ad accoglierli e
a impegnarsi direttamente per alleviare le loro sofferenze; e che sono ancora
tanti anche se i media non vi dedicano alcuna attenzione.
Bisogna “accoglierli tutti”, come ha
raccomandato più di un anno fa Luigi Manconi in un libretto che ne condensa
l’esperienza di combattente per i diritti umani; dare a tutti di che vivere:
cibo, un tetto decente, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare
a scuola, di curarsi, di lavorare e di guadagnare.
Ma non sono troppi, in un paese
e in un continente che non riesce a garantire queste cose, e soprattutto lavoro
e reddito, ai suoi cittadini? Sono troppi per le politiche di austerity in
vigore nell’Unione e imposte a tutti i paesi membri; quelle politiche che non
riescono e non vogliono più a garantire queste cose a una quota crescente dei
suoi cittadini e per questo scatenano la cosiddetta “guerra tra i
poveri”.
Ma non sono troppi rispetto a
quella che potrebbe ancora essere la più forte economia del mondo, se solo
investisse, non per salvare le banche e alimentare le loro speculazioni, ma per
dare lavoro a tutti e riconvertire, nei temi necessari per evitare un disastro
irreversibile e di dimensioni planetarie, tutto il suo apparato economico e
produttivo, e le sue politiche, in direzione della sostenibilità ambientale. Il
lavoro, se ben orientato, è ricchezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del
genere non è la perpetuazione di un già ora insopportabile status quo, ma uno
sterminio ai confini dell’Unione e la vittoria, al suo interno, delle forze
autoritarie e scopertamente razziste che crescono indicando nei profughi, ma
anche in tutti gli immigrati, nei loro figli e nei loro nipoti, il nemico da
combattere. E se non direttamente di quelle forze, certamente delle loro
politiche fatte proprie da tutte le altre.
Così il problema creato dai profughi, non
previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché o non ha né posto
né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una potente
leva per scardinarle a favore del progetto di un grande piano per creare lavoro
per tutti e per realizzare la conversione ecologica dell’economia: due obiettivi
che in una prospettiva di invarianza del quadro attuale non hanno alcuna
possibilità di essere realizzati. E’ a noi italiani, e ai greci, che tocca dare
inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del
disinteresse europeo.
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