Il testo che qui pubblichiamo è uno
stralcio del saggio «Genova: 14 anni dopo il luglio 2001»
pubblicato nel numero monografico «Qualegiustizia»
della rivista Il Ponte (4–5/2015), a cura di Livio Pepino.
1. Il lapidario giudizio che Amnesty
International ha espresso in relazione ai fatti del G8 di Genova,
cioè quello di aver rappresentato «la più
grave violazione dei diritti umani occorsa in una democrazia
occidentale dal dopoguerra», vale a
significare la portata del trauma che ha subito in tale occasione il
sistema giuridico istituzionale che,
pur sottoposto a uno stress test di portata relativamente modesta
fronteggiare episodi di dissenso
violento a margine d’imponenti manifestazioni di massa ha scelto
senza esitazione, per ristabilire l’ordine,
niente di meno che l’alternativa di una drammatica «sospensione della legge». Ancora oggi, pertanto,
riconoscere l’entità e la vastità dei fatti che hanno meritato il giudizio di Amnesty è un’urgenza
democratica.
Una verifica obiettiva dei dati
consentirebbe di rendersi conto, contrariamente alla percezione
diffusa,
che la maggior parte dei reati commessi
dalle forze dell’ordine non sono stati oggetto di azione
giudiziaria, così rimanendo in gran
parte sconosciuti all’opinione pubblica.
I grandi processi per l’irruzione
alla scuola Diaz, per gli abusi sui detenuti nella caserma di
Bolzaneto, per alcuni episodi di arresto illegale
rappresentano il perseguimento solo dei fatti più eclatanti per
gravità (nel caso della scuola Diaz anche per
l’inquietante pieno coinvolgimento dei massimi dirigenti della Polizia di Stato).
Restano fuori decine di episodi di
violenza contro manifestanti pacifici e inermi, le violenze e le
intimidazioni commesse all’interno
degli ospedali nei confronti dei feriti ivi trasportati e anche dei
ricoverati, mentre poliziotti
indisturbati occupavano anche i luoghi di cura e si accanivano su
vittime nel momento della massima vulnerabilità.
Restano fuori le violenze e le torture commesse nell’altro centro di detenzione temporanea gestito dalla
polizia penitenziaria all’interno del Forte di S. Giuliano, sede
del comando dei Carabinieri.
Degli oltre 300 arresti effettuati,
circa due terzi non sono stati convalidati.
Restano quindi fuori, nella maggior
parte di questi casi, le riconosciute falsità dei verbali redatti da
polizia e carabinieri. Restano infine
fuori le false testimonianze dei poliziotti, pur evidenziate dai
giudici nella celebrazione dei processi con
trasmissione di atti all’ufficio del pubblico ministero, che è
tuttavia rimasto inerte.
2. La consapevolezza della vastità dei
fatti è in grado di smentire alcuni falsi miti che offuscano la
realtà degli avvenimenti storici.
In primo luogo la tradizionale
giustificazione delle forze di polizia, che circoscrive gli episodi
di abusi ad alcuni occasionali comportamenti
ascrivibili a singoli soggetti non rappresentativi del corpo di appartenenza, devianti per
particolarità individuali o per debolezza manifestata in condizioni
di lavoro stressanti, nella sostanza le poche
«mele marce».
Questa è stata la posizione del capo
della Polizia al tempo del G8 e tale è rimasta fino all’impegnativa
presa di posizione del suo successore,
chiamato a esprimersi all’esito delle sentenze che accertavano
definitivamente fatti e responsabilità
individuali nei processi della Diaz e Bolzaneto.
Il corpo di polizia ha, da ultimo, con
l’abbandono di ogni procedimento disciplinare, addirittura negato
la realtà delle pronunce giudiziarie, ha
mantenuto in servizio effettivo e in prima linea gli agenti e i funzionari coinvolti nelle inchieste,
garantendo progressioni di carriera, concretamente boicottando e ostacolando l’accertamento giudiziale
in corso.
In secondo luogo, occorre altrettanto
consapevolmente prendere atto di quanto nel complesso timida e compromessa sia stata l’azione di
ripristino di legalità ad opera della magistratura soprattutto inquirente. Infatti, in un cospicuo
numero di casi, pur in presenza di comportamenti in violazione
dell’art. 3 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo da parte di agenti dello Stato, non è stata
attivata alcuna indagine, come la
stessa Convenzione impone.
Sottoposta alla pressione dello
schieramento politico e dei suoi equilibri, cui la polizia
tradizionalmente si affida cercando copertura, la
magistratura inquirente non è stata in grado di svolgere con rigore
il suo compito, che avrebbe dovuto rivolgersi
contro i propri collaboratori istituzionali, per di più coinvolti in persona dei massimi referenti di
vertice. Pesanti condizionamenti esterni hanno suggerito di concentrare l’attenzione solo sui
casi più evidenti. E l’ufficio del pubblico ministero ha espresso messaggi di ambiguità, procedendo a
compartimenti stagni con l’adozione di standard diversi a seconda del contesto processuale.
Non solo i vertici dell’ufficio hanno
manifestato, anche pubblicamente, le proprie perplessità sulle
indagini in corso nei confronti delle
forze dell’ordine, ma nessuna distanza è stata presa nei confronti
dei poliziotti indagati, alcuni utilizzati
ancora da altri pubblici ministeri che delegavano loro le indagini contro i manifestanti.
E nel «processo dei venticinque», cui
è stato affidato il compito della repressione esemplare dei
disordini genovesi, occorrerà la
verifica della giurisdizione a ristabilire il necessario equilibrio
nell’accertamento dei fatti, sia pur
all’interno dell’impostazione che l’accusa ha prescelto, con la
contestazione di una fattispecie dai
contorni molto ampi e che prevede limiti edittali fra i più pesanti.
Il nucleo centrale della ricostruzione
accusatoria è, infatti, ribaltato dalle sentenze, in cui si accerta
che l’elemento catalizzatore dei più
gravi disordini avvenuti è l’attacco indiscriminato da parte delle
forze dell’ordine a un corteo pacifico e
autorizzato. Viene addirittura riconosciuta per circa la metà degli imputati la scriminante della reazione
all’atto arbitrario del pubblico ufficiale. Si tratta, dicono i
giudici, di una rivolta giustificata.
Un caso unico nella storia giudiziaria
italiana che viene passato sotto silenzio. I giudici stigmatizzano
anche l’uso della violenza
sproporzionata e ritorsiva, «malevola» nei confronti dei
manifestanti, ad
esempio anche con l’uso di manganelli
non d’ordinanza, pezzi di ferro e legno, che hanno provocato
lesioni più gravi ai feriti.
3. La rimozione della memoria impedisce
ancora di affrontare il quesito principale che dovrebbe
scaturire dall’analisi dei fatti,
vale a dire se e come i fenomeni di devianza emersi siano
riconducibili a cause o problemi strutturali, anche a
livello culturale, all’interno delle forze dell’ordine.
Il fronte giudiziario, ad esempio, pone
il tema attuale se i reati commessi siano la spia di una pratica
deteriore che alligna ordinariamente
nei corpi di polizia. Non si tratta delle violenze, ma della
fabbricazione delle prove, delle false
dichiarazioni e dei falsi verbali.
È altamente significativo che nella
valutazione e rievocazione degli eventi del G8, passi sotto silenzio
ciò che ha costituito l’asse centrale
degli abusi commessi dalla polizia, vale a dire - per usare
l’icastica definizione della Corte di cassazione
nella sentenza sui fatti della Diaz - la «scellerata operazione mistificatoria», che è conseguenza
necessitata per coprire gli abusi commessi.
Se a richiedere la fabbricazione delle
prove e la commissione di falsi sono addirittura i vertici degli
uffici investigativi centrali, il messaggio è
dirompente.
L’assenza di riflessioni sul punto è
l’aspetto più preoccupante, tanto più se si considera che le
prese di posizioni ufficiali da parte di
esponenti della politica, fra cui il primo ministro, fanno
chiaramente
intendere di considerare la
falsificazione dei verbali e le calunnie una violazione minore, una forzatura dettata comunque da buone intenzioni,
come tale non screditante l’autore, quasi costretto alla commissione del reato per ossequio ai
propri doveri.
*Magistrato, sostituto procuratore
presso la Procura generale di Genova
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