Posted by Redazione on 10 Giu 2016 in
Antitesi
Cenni sull’India
L’India è un paese che negli ultimi
anni ha avuto una forte crescita economica a livello internazionale
diventando, nell’ultimo decennio, una potenza dal peso mondiale.
Già facente parte dei cosiddetti Brics dal 2010, il paese è stato
uno dei promotori, nel 2003, del consesso del G20.
Gli Usa e le potenze dell’Ue lo
considerano il paese politicamente più affidabile all’interno del
blocco dei Brics, puntando ad appoggiarlo sullo scacchiere asiatico
in funzione anticinese. Sempre sul piano delle relazioni
internazionali, va rilevato come l’India sia anche una potenza
militare nucleare, che si trova in una condizione di permanente
“guerra fredda” con il Pakistan, per la contesa sul controllo
della regione del Kashmir. Storicamente, il paese esercita
un’influenza dominante su larga parte delle nazioni dell’area
limitrofa, come il Nepal e il Bangladesh.
Oggi l’ascesa economica di Nuova
Delhi, che nel 2010 ha toccato il picco del 10% annuo di crescita, è
grandemente rallentata, anche se in misura inferiore rispetto agli
altri paesi dei Brics, come riflesso generale di una crisi economica
del sistema capitalista che si va estendendo e aggravando sul piano
mondiale1.
In ogni caso, la recente crescita
capitalistica dell’India non ha mutato le condizioni misere di vita
delle masse, anzi è stata da loro pagata in termini di ulteriore
oppressione economica e sociale. Il 77% della popolazione vive in
povertà assoluta, vi è un tasso di mortalità infantile fra i più
alti al mondo (in media un bambino su venti non riesce a superare i
cinque anni di età), il 69% degli indiani è escluso dall’accesso
di effettivi servizi sanitari, la percentuale di analfabetismo è
stimata al 37%.
Dietro alla maschera del regime
democratico e federale, lo Stato indiano è una dittatura della
grande borghesia, divisa e strutturata nella classe dei latifondisti,
che opprime le masse contadine del paese attraverso rapporti di
produzione di tipo semi-feudale, e in una nuova borghesia industriale
e finanziaria, cresciuta negli ultimi anni, che va acquistando, in
senso imperialistico, sempre più spazi nei mercati mondiali. Gli
investimenti di capitale nel mondo sono passati dai 124 milioni di
dollari nel 1990 ai 9,6 miliardi nel 2005, concentrandosi nel settore
manifatturiero e nelle tecnologie dell’informazione (informatica,
telecomunicazioni…). Ad esempio, la seconda multinazionale per
investimenti nell’intera Africa subsahariana è l’indiana Tata.
In Italia, il gruppo monopolistico dell’acciaio Acelormittal, la
cui quota di capitale azionario principale è in mano all’oligarca
indiano Lakshmi Mittal, intende attualmente mettere le mani
sull’Ilva.
Questo processo di proiezione
monopolistica a livello globale deriva da un’accumulazione interna
che è frutto, a sua volta, dell’apertura agli investimenti esteri,
i quali hanno consentito alla classe dominante indiana di rastrellare
capitali da reinvestire nei mercati mondiali.
È dal 1991 che il regime indiano ha
massicciamente aperto il mercato all’arrivo di capitali stranieri,
soprattutto multinazionali statunitensi ed europee, riducendo il
controllo sul commercio e sugli investimenti. Inoltre ha sempre dato
ampie agevolazioni ai monopoli che investivano nel paese, non solo a
livello fiscale, ma spesso chiudendo entrambi gli occhi davanti a
stragi e distruzioni, come quelle del 1984 a Bhopal, dove 25 mila
persone morirono per una nube tossica fuoriuscita dallo stabilimento
industriale della Union Carbide India Limited, consociata alla
statunitense Union Carbide.
L’India ha attirato le attenzioni
degli investitori imperialisti per una capacità lavorativa di oltre
500 milioni di lavoratori (seconda solo alla Cina) sfruttabili a
basso costo e per la ricchezza di materie prime presenti nel suo
sottosuolo. Dell’oltre mezzo miliardo di lavoratori, il 60% è
impiegato nell’agricoltura e nelle aree industriali connesse, il
28% nei servizi, solo il 12% nell’industria. Il settore agricolo
conta per il 12% del pil, mentre i servizi contano per il 60% e le
industrie per il 28%. Le industrie producono automobili, prodotti
chimici, elettronica di consumo, prodotti farmaceutici, cemento e
acciaio. Per alimentare il suo settore industriale l’India consuma
ingenti quantità di petrolio e carbone.
Il territorio immenso dell’India può
contare su una quantità notevole di materie prime tra le quali:
ferro, bauxite, carbone, cromite, titanio, calcare, mica, gas
naturale, manganese, petrolio, diamanti. Gran parte di queste riserve
sono concentrate in una vasta area che va dal nord al sud del paese,
situandosi in una fascia centro-orientale e comprendente gli stati
del Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Orissa, Chhattisgarh,
Uttar Pradesh, Andrha Pradesh, Madhya Pradesh e Maharashtra. Tanto
per dare alcuni dati, l’Orissa detiene il 60% delle riserve indiane
di bauxite, il 25% di carbone, il 92% di nickel e il 28% di
manganese, mentre il Bihar e il Madhya Pradesh da soli coprono più
di un quarto dell’intera produzione mineraria del paese.
Per garantire i profitti delle
multinazionali indiane ed estere nell’estrazione delle materie
prime, concentrate nelle zone rurali e forestali, il regime ha
portato avanti politiche di deportazione della popolazione locale,
costituita perlopiù dalla minoranza etnica degli adivasi,
storicamente emarginata ed oppressa dal potere centrale. Costringere
gli adivasi a lasciare la loro terra, significa infatti dare spazio a
miniere e impianti industriali delle grandi compagnie, con gravissimo
danno all’ambiente circostante.
Dalla rivolta di Naxalbari al Partito
Comunista Maoista
La storia della guerra popolare e del
movimento comunista indiano è strettamente legata a quella delle
lotte e delle resistenze delle masse oppresse delle campagne,
rappresentandone lo sbocco politico in senso di direzione della
classe operaia2 e di sviluppo rivoluzionario.
Le radici di tale processo stanno nelle
mobilitazioni contro i latifondisti che vennero condotte nella
seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso e nella
contestazione alla direzione riformista prevalente nei partiti
comunisti indiani allora, in particolare nel Partito Comunista
dell’India – Marxista (Pci – m). Queste lotte all’interno
dell’India si collocarono in un contesto internazionale ben
preciso, nel quale non solo lo scontro di classe e la lotta
antimperialista si acuiva, ma, in seno al movimento comunista, si
aggravava la spaccatura tra la linea di destra revisionista
capeggiata dall’Unione Sovietica e la linea di sinistra
rivoluzionaria, con alla testa la Cina di Mao Tse Tung.
Il punto più alto di quelle lotte
all’interno dell’India, si ebbe durante la primavera del 1967,
nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, quando un gruppo
di circa centocinquanta contadini, iniziarono ad espropriare le terre
ai latifondisti, occupandole, sventolando bandiere rosse e impugnando
armi rudimentali. A guidare la rivolta era un gruppo di quadri locali
del Pci – m, fra cui il futuro dirigente rivoluzionario Charu
Mazumdar, in aperta rottura con la direzione del partito e che si
ispirava alla teoria di Mao Tse Tung e alla Rivoluzione Culturale in
corso in Cina.
L’azione venne repressa nel sangue
dall’intervento dell’esercito, ma pur essendo una sconfitta
militare, essa rappresentò una vittoria politica strategica, una
scintilla destinata ad incendiare la prateria. La linea di sinistra
del movimento comunista raccolse i valori di lotta rivoluzionaria di
quella battaglia, facendola diventare un simbolo per un poderoso
sviluppo del movimento di classe, il cui filo rosso si estese nella
storia dei decenni successivi, costretto alla tortuosità dalla
contraddizione dello scontro con la reazione, ma sempre
fondamentalmente diritto nella continuità della lotta
rivoluzionaria. Tanto che tuttora i maoisti indiani vengono chiamati
“naxaliti”, da quella che fu la rivolta del villaggio di
Naxalbari.
Nelle pur alterne vicende del movimento
comunista indiano, la bandiera di Naxalbari assunse il significato
politico della lotta in armi per l’abbattimento del regime della
grande borghesia, contro il deviazionismo verso la via pacifica e
riformista che la linea di destra del movimento comunista indiano
tentò sempre di imporre.
Gli anni immediatamente successivi
videro infatti la tendenza rivoluzionaria radicarsi e dilagare nelle
popolazioni delle campagne e delle foreste, in aperta rottura con la
direzione del Pci – m e degli altri partiti riformisti, portando
avanti la lotta armata contro lo Stato e conquistando basi di
appoggio3 in vaste zone del paese. La direzione del movimento venne
assunta dal Partito Comunista dell’India – Marxista Leninista
(Pci – ml), costituitosi il 22 aprile del 1969, nel novantesimo
anniversario della nascita di Lenin e la cui segreteria fu affidata
al compagno Charu Mazumdar.
Nell’estate del 1971, in reazione al
rafforzamento del processo rivoluzionario, l’allora Primo Ministro
Indira Gandhi diede il via all’operazione militare “Stepchase”,
che decimò gran parte dei quadri del Pci – ml, tra cui lo stesso
Mazumdar, ucciso nel 1972, e represse violentemente le masse
contadine, determinando un forte riflusso del movimento “naxalita”.
La ripresa effettiva della lotta
rivoluzionaria avvenne solo nella seconda metà degli anni Settanta,
quando il Pci – ml riprese le attività guerrigliere, fondando un
esercito popolare attivo nelle campagne e creando, come struttura di
fronte, un braccio politico legale, l’organizzazione Rythu Coolie
Sangham.
Però, durante gli anni Ottanta, la
contraddizione tra lavoro politico legale e lotta armata finì per
rafforzare una linea di destra all’interno del partito, che
sosteneva di fatto la liquidazione della guerra popolare in favore
del legalitarismo e del parlamentarismo. Ciò provocò una
degenerazione riformistica dell’intero gruppo dirigente centrale
del Pci – ml e diede adito agli assalti repressivi della reazione
che, vedendo arretrare la capacità di risposta militare
dell’organizzazione, attaccarono le strutture politiche di massa.
Il Pci – ml andò incontro alla frantumazione in diversi gruppi,
agevolata anche dall’enorme estensione e dalla complessità etnica,
linguistica e culturale di un paese, l’India, che non a caso è
definito subcontinente.
Alcuni dei gruppi nati dalla
frantumazione seguirono la direzione del partito andando a destra,
altri, perlopiù radicati in determinati stati, mantennero una linea
politica e una pratica rivoluzionaria offensiva, come la fazione
Guerra Popolare, attiva nel Madhya Pradesh.
Quest’ultima riuscì
progressivamente, entro i primi anni Novanta, a riorganizzare il
partito rivoluzionario su scala nazionale, rompendo definitivamente
con le componenti revisioniste e riformiste, strutturando centri
guerriglieri non solo nel Madhya Pradesh, ma anche in altri stati e
di fatto rifondando il Pci – ml, che assunse la denominazione di
Partito Comunista dell’India Marxista Leninista – Guerra Popolare
(Pci – ml Guerra Popolare).
Successivamente, quest’organizzazione
decise di avvicinarsi ad altre due componenti del movimento naxalita
rimaste su posizioni rivoluzionarie, il Partito Comunista dell’India
Marxista Leninista Unità del Partito (Pci – ml Unità del Partito)
e il Centro Comunista Maoista (Ccm), anch’esse dotate di forze
combattenti. Insieme, i tre gruppi diedero vita al Forum della
Resistenza di Tutti i Popoli dell’India, come organizzazione
politica di massa per il lavoro legale e pubblico.
La costituzione del Forum rappresentò
l’inizio di un processo di fusione tra le componenti d’avanguardia
del movimento comunista: nel 1998 il Pci – ml Unità del Partito
confluì nel Pci – ml Guerra Popolare, mentre nel 2003 aderivano al
Ccm il Centro Comunista Maoista Rivoluzionario dell’India e il
Partito Comunista dell’India (Marxista Leninista – Secondo
Comitato Centrale), anch’essi dotati di strutture militari.
Infine nel 2004, dalla fusione del Pci
(ml – Guerra Popolare) e del Ccm, nacque il Partito Comunista
dell’India – Maoista (Pci – Maoista), l’attuale soggetto
dirigente del processo rivoluzionario nel paese asiatico.
L’organizzazione d’avanguardia nacque dunque dalla confluenza di
dirigenti e quadri politici di sei organizzazioni del movimento
rivoluzionario indiano. E, sotto la direzione di esso, fu
contemporaneamente fondato l’Esercito Guerrigliero Popolare di
Liberazione (Egpl), che unificò i gruppi partigiani di tali
formazioni, facendosi subito forte di circa 20 mila combattenti.
Essendo di fatto un partito nuovo, il
regime indiano non poteva metterlo al bando fin da subito e nei primi
tempi i compagni poterono organizzare direttamente anche
manifestazioni pubbliche, che provarono, con i milioni di contadini e
lavoratori che vi parteciparono, la forza dell’organizzazione.
La resistenza degli adivasi
Nel 2006, a due anni dalla fondazione
del partito, l’allora ministro degli interni, Manmohan Singh,
definiva i maoisti indiani “la più grande minaccia interna alla
sicurezza del paese”.
In effetti, il contesto
politico-sociale interno nel quale l’organizzazione venne
costituita, era contrassegnato da profonde contraddizioni tra la
classe dominante e le masse popolari e da un rilancio delle lotte
condotte da quest’ultime, alle quali i compagni seppero dare una
direzione rivoluzionaria, che iniziò a minacciare la tenuta stessa
del regime.
In particolare, il Pci – Maoista
riuscì a dialettizzarsi fin da subito con la resistenza che le tribù
adivasi hanno opposto al tentativo di deportazione e pulizia etnica
che, come dicevamo sopra, il regime indiano ha condotto nei loro
confronti, spesso con la violenza dell’esercito, per l’interesse
allo sfruttamento delle principali risorse minerali del territorio
indiano da parte dei monopoli nazionali ed esteri. Negli anni, i
combattenti dell’Egpl iniziarono una sistematica attività di lotta
armata in difesa delle popolazioni adivasi, mobilitandole nella lotta
e riuscendo spesso a ricacciare indietro le forze armate dello Stato
indiano. Ciò portò il partito a definire le vaste terre abitate
dagli adivasi negli stati del Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand,
Orissa, Chhattisgarh, Uttar Pradesh, Andrha Pradesh, Madhya Pradesh e
Maharashtra, come “zona rivoluzionaria compatta” altrimenti detta
“corridoio rosso”, ovvero un’area nella quale, seppur non
ancora definibile come base di appoggio, di fatto si è affermata
l’egemonia politica e militare da parte del partito stesso. Nel
2009, il regime, al fine di riconquistarla, ha avviato una vera e
propria azione di guerra sul proprio stesso territorio, l’operazione
“Green Hunt”, mobilitando 75 mila uomini armati, su mandato delle
multinazionali predatorie, che vogliono mettere le mani su una zona
che, come dicevamo, è anche ricchissima di materie prime.
Questa gigantesca operazione di
repressione, che di fatto tende ad essere concretamente rivolta
al genocidio delle popolazioni adivasi, è tuttora in corso, in un
crescendo di barbarie, tanto che, nei recenti mesi, all’azione
delle forze terrestri, l’attuale governo di Narendra Modi ha
aggiunto quella degli elicotteri da guerra, che stanno martellando
diverse zone dello Stato di Chhattisgarh.
Contemporaneamente il governo indiano
ha varato una serie di leggi repressive che aumentano il potere della
polizia, come ad esempio il Prevention of Terrorism Act e il
Terrorist and Disruptive Activities Prevention Act. Queste leggi
permettono alla polizia di arrestare e trattenere i sospettati a
tempo indefinito, senza garantire nessun tipo di tutela legale. In
aggiunta, vi è la prassi generale della polizia e le altre agenzie
dello Stato di operare con quasi totale impunità, in barba a norme
di facciata che dovrebbero garantire i diritti dei fermati e dei
prigionieri. In altre parole, polizia e militari abitualmente
attaccano le manifestazioni e le sedi politiche, brutalmente
picchiano, arrestano o uccidono senza limiti, che non siano quelli
della lotta e dei fucili spianati davanti loro dai maoisti. In molti
casi, i dirigenti e i militanti del partito che cadono nelle mani del
regime vengono uccisi in esecuzioni extragiudiziarie, simulando
conflitti a fuoco e trasportando i cadaveri in zone disabitate,
successivamente convocando la stampa e raccontando una versione
falsata dei fatti.
Nonostante il terrorismo di Stato, il
Pci – Maoista continua ad essere presente in quasi 200 distretti
su 671 che compongono lo Stato federale indiano. L’Egpl può
contare attualmente su oltre 25 mila combattenti effettivi, oltre
all’appoggio della popolazione locale. Nell’ultimo anno i maoisti
sono riusciti a diffondersi anche nel sud del paese, specificamente
al confine di tre stati: Kerala, Tamil Nadu e Karnataka. In questa
zona è stata fatta una forte campagna antigovernativa che ha portato
molti giovani delle classi sfruttate ad unirsi alla guerra popolare.
Secondo l’Institute of Conflict
Management di New Delhi – non certo accusabile di simpatie
rivoluzionarie – i maoisti negli ultimi 10 anni sono riusciti a
triplicare il loro territorio di influenza, a causa delle sempre
maggior quantità di popolazione che tributa loro consensi.
L’analisi della società e la linea
rivoluzionaria del Pci – Maoista
Il Pci – Maoista è maggiormente
presente nelle zone rurali, laddove vivono le masse contadine
oppresse che costituiscono la maggioranza della popolazione e dove è
più forte la contraddizione tra le tribù indigene da una parte e i
latifondisti, le multinazionali e lo Stato dall’altro. Questo non
vuol dire i militanti del Pci – Maoista non conducano la loro
propaganda e attività politica nelle zone urbane, soprattutto nelle
regioni altamente industrializzate, dove puntano a radicarsi nella
classe operaia, con scioperi, lotte rivendicative e comitati di
appoggio ai prigionieri politici, oltre che con azioni partigiane
contro i nemici del popolo.
Il programma del Pci – m è stato
elaborato basandosi sulla teoria marxista-leninista-maoista e
consiste nell’instaurazione di una repubblica di nuova democrazia,
ovvero di un regime politico basato sulla dittatura del proletariato
e dei contadini, in alleanza con tutte le classi oppresse dalla
grande borghesia e dall’imperialismo. Compito del nuovo Stato sarà
quello di edificare una società socialista, creandovi le basi
oggettive anche mediante lo sviluppo controllato e limitato di
rapporti di produzione capitalistici. Infatti, secondo l’analisi
del partito Pci – Maoista, l’India è un paese ancora semi
coloniale e semi feudale, retto dalla classe dei proprietari terrieri
feudali e dalla borghesia burocratica compradora, entrambi asserviti
all’imperialismo internazionale.
Questa condizione è dovuta al fatto
che, secondo l’analisi del Pci – Maoista, per l’India il
passaggio da colonia inglese all’indipendenza dichiarata nel 1947 è
rimasto solo su carta. Secondo tale visione, gli inglesi, quando
hanno lasciato formalmente la loro ex colonia, si sono premurati di
trasferire il loro potere alle classi reazionarie di cui avevano fino
ad allora alimentato il potere, cioè la borghesia compradora e i
latifondisti. Ciò ha mantenuto il paese in soggezione alle forze e
alle potenze imperialiste straniere, che esercitano tuttora
l’influenza determinante sullo Stato indiano, in particolare gli
Usa, in quanto borghesia imperialista dominante sul piano mondiale.
Lo Stato indiano agisce come strumento
di distribuzione del valore e del profitto generato dalle classi
lavoratrici, verso la borghesia burocratica compradora, i
latifondisti e gli imperialisti stranieri. Inoltre serve a risolvere
le contraddizioni che nascono tra queste tre realtà dominanti che
entrano in conflitto tra loro per avere una parte maggiore della
ricchezza sociale prodotta dal popolo. Il divario tra le classi viene
alimentato anche attraverso la creazione di Ong che, come succede in
altri paesi cosiddetti “emergenti”, vengono inserite come cavalli
di troia fra le masse popolari ufficialmente per gestire le
emergenze, ma in realtà in maniera funzionale ad impedire una reale
emancipazione politica e sociale.
Questo assetto politico e sociale ha
impedito la nascita di un capitalismo nazionale, l’implementazione
della riforma agraria ed è causa delle condizioni miserabili di vita
di gran parte del popolo indiano.
In tale quadro, il limitato sviluppo
delle forze produttive e la natura prevalente degli attuali rapporti
di produzione e sociali vengono visti come ostacoli al passaggio
immediato ad una fase di transizione in senso socialista. Da qui
discende la necessità di sviluppare temporaneamente rapporti di
produzione capitalistici, senza che degenerino in oligarchie
monopolistiche, ma rimangano sotto stretto controllo della dittatura
del proletariato, affinché siano base materiale del successivo
sviluppo socialista.
Contemporaneamente, la ridistribuzione
alle masse delle ricchezze del paese, oggi estorta dalle classi
dominanti, permetterà di incrementare i consumi interni dando vigore
all’economia. Il primo punto del programma di nuova democrazia
riguarda quindi la tanto attesa riforma agraria, che prevede
l’espropriazione dei terreni di proprietà dei latifondisti del
regime o dei vari ordini religiosi. Tutta la terra dovrà andare alle
masse contadine, cioè a coloro che l’hanno da sempre lavorata. La
sola distribuzione della terra non basterà, si dovranno fare grossi
investimenti per ammodernare il lavoro dei campi e potenziare le
attività di allevamento degli animali. Questo percorso virtuoso
creerà una spirale di crescita costante del mercato di beni di
consumo che incentiverà l’industria locale, la quale a sua volta
accrescerà l’occupazione. Lo sviluppo industriale dovrà essere
orientato alle esigenze del popolo, anche procedendo ad una
progressiva confisca e nazionalizzazione delle imprese.
Un altro grande passo sarà il
cambiamento culturale delle masse che verranno coinvolte in attività
culturali e sportive. Ma soprattutto saranno aboliti tutti quei
retaggi culturali feudali come la divisione in caste,
l’intoccabilità4, il patriarcato ecc. Ciò potrà avvenire solo
attraverso una vera rivoluzione culturale delle masse, a cominciare
dalle scuole, che saranno pubbliche e alle quali sarà garantito
l’accesso a tutta la popolazione.
Questi passaggi determineranno, secondo
il programma maoista, la transizione da un’economia semi coloniale
e semi feudale, ad una società democratica, autosufficiente ed
indipendente, seppur ancora retta da rapporti di produzione
prevalentemente capitalistici. Infatti, il passaggio successivo sarà
l’instaurazione del socialismo, basato sulla socializzazione dei
mezzi di produzione e sulla pianificazione della produzione, che
permetterà la costruzione di una società senza classi.
La strategia per l’instaurazione
della nuova democrazia è la guerra popolare prolungata contro
l’imperialismo, il feudalesimo e la borghesia burocratica
compradora. La forza dirigente fondamentale di questa rivoluzione è
il proletariato, di cui il partito è il reparto dirigente
d’avanguardia. Le principali forze motrici sono le masse dei
contadini poveri e più in generale le popolazioni rurali, visto che
i rapporti di produzione agrari riguardano la maggioranza del popolo
ed è la classe più gravemente oppressa dai latifondisti, dalla
borghesia compradora e dalle multinazionali imperialiste. La piccola
borghesia urbana (che comprende gli insegnanti, i tecnici, i medici,
i funzionari statali di basso livello, gli impiegati nei vari settori
ecc.) viene considerata un alleato sociale e politico naturale del
proletariato, da mobilitare per la guerra popolare. La borghesia
nazionale, cioè quei settori di classe capitalista non legati
all’imperialismo e alla proprietà terriera dei latifondi, è vista
come un potenziale, ma temporaneo, alleato della causa
rivoluzionaria.
Ma per i maoisti il fronte popolare da
creare nello scontro con il regime delle classi reazionarie, non deve
essere solo formato dalle classi sociali oppresse, ma legare a sé
ogni componente sociale, politica e culturale che è colpita dal
potere imperialista. Per questo, i compagni appoggiano i movimenti di
liberazione nazionale che pervadono l’India, che è di fatto una
“prigione di popoli”, basata sullo sciovinismo della religione
induista, a cui sono soggette tutte le minoranze etniche, come gli
adivasi, o confessionali, come gli islamici, i cristiani, i sikh…
E naturalmente, il partito punta a
spezzare, già nella conduzione della guerra popolare, l’oppressione
patriarcale e di genere, molto radicata a causa dei rapporti sociali
feudali e delle sovrastrutture reazionarie di tipo religioso,
rivolgendosi specificatamente alle donne, in particolare quelle delle
classi oppresse, perché prendano in mano le proprie vite, unendosi
alle organizzazioni di lotta di massa, divenendo quadri politici e
militari in seno all’Egpl e militanti e dirigenti del partito
stesso.
Mentre la stampa dei mass media
“occidentali” finge di indignarsi per i barbari stupri che spesso
colpiscono le donne indiane, soprattutto quelle delle zone rurali e
che vedono quasi sempre i responsabili in coloro che esercitano il
controllo famigliare-patriarcale e nelle forze di polizia o militari,
le militanti maoiste indiane insegnano al mondo cosa significa
emancipazione di genere nell’ambito della lotta di classe, contro
l’ipocrita recupero dell’oppressione della donna da parte
dell’ideologia e delle concezioni liberali e democratico-borghesi.
Tanto che, nel 2014, i servizi segreti indiani erano costretti ad
ammettere che i quadri dirigenti del Pci – Maoista erano composti
per il 60% da donne, contro il 25% di sei anni prima.
In risposta a questa mobilitazione
contro le oppressioni nazionali, religiose e di genere, il regime ha
mobilitato le forze più reazionarie della società indiana, la
milizie della destra fanatica induista, facendole combattere come
“volontari contro il terrorismo” a fianco della polizia e
dell’esercito (come il gruppo fascista Salwa Judum) e dando mano
libera agli stupri, che nell’ambito dell’operazione “Green
Hunt” sono divenuti un’arma di guerra contro le donne adivasi.
La guerra popolare prolungata si
sviluppa nella mobilitazione delle masse dietro alla direzione
politica e militare del Pci – Maoista, creando zone liberate nelle
campagne dove instaurare la dittatura popolare e accerchiando così
progressivamente le città, centri del potere politico ed economico
delle classi dominanti, nei quali lo scontro finale prevede
l’insurrezione generale di massa. Ciò significa scontrarsi
innanzitutto con l’apparato repressivo costituito da forze armate,
magistratura, carceri, burocrazia, a cui si aggiungono, con il
beneplacito dello Stato indiano, forze repressive private agli ordini
delle multinazionali.
Questioni della guerra popolare e della
rivoluzione in India
Secondo il Pci – Maoista, lo sviluppo
diseguale del paese in senso economico e sociale è uno dei fattori
oggettivi che impedisce una rivoluzione armata generale. Basti
pensare alla divisione tra campagne e città, ovvero due terreni
oggettivi diversi su cui sviluppare la guerra popolare.
Quest’ultima deve inevitabilmente
partire dalle aree più arretrate in cui c’è il maggior divario
tra le classi e dunque il partito può ottenere più consensi e, in
particolare, nelle aree geografiche meno moderne, per garantirsi
anche un ambiente più favorevole alla lotta armata tramite
guerriglia, dove ad esempio non vi siano infrastrutture logistiche
che permetterebbero al nemico ben armato di spostare le truppe più
velocemente. Più in generale, le vaste campagne lontane dai centri
abitati permettono alle milizie ed all’esercito popolare di
muoversi in maniera più efficace di un tradizionale esercito
borghese e statale non adattato alla guerra di guerriglia, la quale
evita gli scontri aperti e attacca con il “mordi e fuggi”.
Il fattore principale è però
costituito dalla potenzialità di costituire effettive zone liberate,
che solo le zone rurali consentono, ove le masse popolari vengono
portate ad amministrare la società sotto la direzione del partito e
ove l’esercito popolare può ampiamente reclutare combattenti ed
addestrarsi alla guerra. In tale maniera, il processo di guerra
popolare strappa al nemico l’egemonia sulle masse, nuotandovi
all’interno come un pesce nell’acqua, e inverte progressivamente,
dal principio in alcune singole aree del paese, il rapporto di forza
a livello numerico.
La conduzione di lotta di lunga durata
permette di avanzare o retrocedere a seconda della situazione
politica, militare e sociale concreta, in generale con una lenta fase
di accumulo di forze da contrapporre a quelle del regime. Se il
fattore militare specifico è sicuramente a vantaggio di
quest’ultime, quello politico-militare generale è a vantaggio
della guerra popolare, sia per il carattere mercenario dell’esercito
del regime – mentre l’Epgl si basa sulla motivazione ideologica
intrinseca dei combattenti – sia perché le reclute sono perlopiù
appartenenti alle classi popolari e dunque potenzialmente ricettive
della propaganda maoista.
Quest’ultima fa parte a tutti gli
effetti della guerra, in quanto risponde ideologicamente e
politicamente agli attacchi quotidiani che i mass media, i politici e
gli intellettuali legati al regime rivolgono al movimento
rivoluzionario. Gli argomenti utilizzati nella propaganda
controrivoluzionaria sono quelli tipici: la criminalizzazione della
guerra popolare, bollata come “violenza estremistica” e come
“terrorismo”, il tentativo di dividere le masse dal partito, che
viene dipinto come il vero responsabile della repressione che le
colpisce, l’accusa di impedire la modernizzazione di intere zone
dell’India, che per il regime, ovviamente, può essere solo quella
portata dalle multinazionali e dagli impianti minerari e industriali
estremamente nocivi dal punto di vista ambientale. Come diceva Mao
“se il nemico ci dipinge a fosche tinte e senza un’ombra di
virtù” vuole dire che “abbiamo riportato notevoli successi nel
nostro lavoro”.
Si tratta – in linea generale – di
insegnamenti storici tratti da tutte le altre vittoriose guerre
popolari guidate da partiti comunisti, in primis dal processo che
portò alla rivoluzione cinese, ma anche a quelli di decolonizzazione
e di rivoluzione proletaria in paesi come Cuba, Laos, Cambogia e
soprattutto dalla vittoria del popolo vietnamita sia contro
l’occupazione coloniale francese che contro l’aggressione yankee.
Conclusione
Il percorso che il Pci – Maoista sta
compiendo in India è uno degli esempi più alti, a livello mondiale,
di come i comunisti possano adempiere il loro dovere di fare la
rivoluzione. La sua adesione ai principi dell’internazionalismo
proletario, lo ha portato a criticare altri reparti del movimento
comunista, come il Partito Comunista Unificato del Nepal – Maoista,
che dopo dieci anni di guerra popolare, tra il 1996 e il 2006, ha
scelto di integrarsi nel regime borghese e feudale. Attraverso quelle
critiche, i maoisti indiani hanno ribadito che l’unica prospettiva
generale possibile per i comunisti è l’abbattimento di ogni
apparato statale reazionario e la sua completa sostituzione con la
dittatura delle classi lavoratrici.
Il processo rivoluzionario in India ci
dice che il movimento comunista può tornare all’assalto della
storia, ponendosi come guida di profondi e vasti moti di massa,
combattendo l’imperialismo e contendendo la direzione ad altre
forze che oggi muovono la contraddizione tra quest’ultimo e i
popoli oppressi, come i gruppi islamisti e nazionalisti. La sua
collocazione in un paese che, secondo talune previsioni economiche, è
destinato a diventare la “terza economia mondiale” dopo Usa e
Cina, conferma la legge dialettica generale per cui la contraddizione
di classe e il suo sviluppo politico in senso rivoluzionario è
intrinseca al sistema capitalista stesso, tendendo a divenire
centrale se assume forza politica soggettiva, quale che sia il ciclo
ascendente o discendente della formazione economico-sociale che ne è
attraversata. La guerra popolare in India insegna che le vecchie
frontiere e i nuovi centri dell’imperialismo internazionale sono
potenzialmente gravidi in senso rivoluzionario e ciò apre nuovi
orizzonti per il proletariato internazionale e i popoli oppressi e
tramuta in incubi i sogni di “globalizzazione” della borghesia
imperialista.
E infine, per quanto riguarda
specificatamente la nostra azione politica di comunisti, pur essendo
chiaro che i maoisti indiani operino nel loro specifico contesto,
quando un reparto nazionale del movimento comunista avanza, è
compito di quelli attivi negli altri paesi, dunque chiaramente in
situazioni diverse, capirne effettivamente e creativamente cosa può
essere imparato e applicato per il proprio lavoro politico verso la
classe e verso lo sviluppo di una linea rivoluzionaria, oltre che
appoggiarlo con la prassi della solidarietà internazionalista.
Note
1 Vedi p. 3 e ss.
2 Secondo il movimento comunista, il
proletariato, per sua collocazione oggettiva nel modo di produzione
capitalistico, è l’unica classe capace di dirigere politicamente,
mediante la propria avanguardia – il partito rivoluzionario – la
trasformazione della società capitalistica. Può farlo però solo
ponendosi alla testa dell’ampio fronte delle classi che sono
oppresse dal potere della borghesia imperialista. La concezione del
mondo e la prassi politica del movimento comunista sono il riflesso
del proletariato anche quando si rivolgono e mobilitano altre classi
oppresse, come i contadini poveri, o a categorie sociali
interclassiste, come gli studenti.
3 Nella prassi della guerra popolare
nei paesi a prevalente sviluppo agricolo, le basi di appoggio sono le
zone liberate dalle forze rivoluzionarie e amministrate dal potere
popolare e sono funzionali ad un ulteriore avanzamento e
accerchiamento delle forze reazionarie.
4 Come riflesso estremo della divisione
in classi sociali nella sfera religiosa, l’induismo prevede la
divisione in caste della società e la discriminazione verso
determinati individui, “impuri” per natura, definiti
“intoccabili”.
Siti consultati:
www.argoriente.it
www.bannedthought.net
www.femminismorivoluzionario.blogspot.it
www.guerrapopolare-india.blogspot.it/
www.lindro.it
www.linkiesta.it
www.unicef.it
www.thehindu.com
Testi consultati:
A cura del Collettivo Tazebao, Azad
voce della guerra popolare in India, stampato in proprio, 2013;
Comitato Centrale del Pci Maoista,
Prospettiva urbana, traduzione a cura del Collettivo Tazebao, 2006;
Comitato Centrale del Pci – Maoista,
Strategia e tattica della rivoluzione indiana, traduzione a cura del
Collettivo Tazebao, 2004;
Pagliari P., Naxalbari – India
l’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale”, Mimesis,
2007;
Sideri S., L’India e gli altri, Ispi,
2011.
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