Coronavirus. In India con il virus ora si cancellano i diritti dei lavoratori
Operai stagionali, separati tra loro lungo la
banchina di una stazione ferroviaria ad Ahmedabad, nel Gujarat: sono
centinaia di migliaia i dipendenti indiani che hanno dovuto sospendere
il lavoro.
L'accelerazione dei contagi, con circa 3.000 casi
quotidiani registrati negli ultimi giorni dopo settimane di crescita
relativa, ha portato l’India a sfiorare i 60mila casi e i 2.000
decessi. Si conferma il primato negativo dello Stato occidentale del
Maharashtra, di cui è capitale Mumbai, con un terzo dei contagi totali,
seguito da quello meridionale del Tamil Nadu e dal Territorio di Delhi.
Dopo gli scontri tra forze di sicurezza e abitanti che venerdì notte
hanno violato il coprifuoco ad Ahmedabad, principale centro del
Gujarat con 5,5 milioni di abitanti, ieri quartieri della città sono
stati irrorati di disinfettante con droni.
abitanti per le potenzialità di una diffusione incontrollata del coronavirus ma anche per l’esplodere di lotte sociali sempre latenti. Proprio qui, venerdì un’ordinanza del governo locale guidato da Yogi Adityanath, leader induista eletto nelle liste del Bharatiya Janata Party del premier Narendra Modi, ha sostanzialmente sospeso per un triennio quasi tutte le tutele sul lavoro delle donne e dei bambini, le disposizioni che definiscono il guadagno minimo mensile e i limiti per gli imprenditori di assumere o licenziare senza motivazione.
Un provvedimento, che potrebbe essere esteso ad altre aree del Paese, giustificato con la necessità di garantire flessibilità di impiego e produzione nella crisi in corso e per il quale si attende una parola definitiva del governo centrale ma che avrà effetti concreti solo su quel dieci per cento dei lavoratori indiani a cui sono applicati diritti e condizioni concordati con i sindacati. Un segnale comunque preoccupante per un mercato del lavoro già poco tutelato e che potrebbe avviarsi alla piena precarizzazione. Su un fronte diverso, la sollecitudine del governo federale si è indirizzata verso i migranti bloccati all’estero. «Vande Bharat» (Lunga vita all’India!): con questo slogan si è avviato il ponte aereo e navale per riportare in patria 400mila indiani da Stati Uniti, Regno Unito, vari Paesi dell’Asia e dell’area del Golfo Persico. In azione la compagnia aerea di bandiera Air India, ma anche la Marina militare per quanto riguarda realtà più prossime al territorio indiano.
Una mossa senza precedenti che ha portato ieri ai primi rimpatri. La tragedia del gruppo di migranti interni, 16 deceduti, che cercavano di rientrare a casa camminando per centinaia di chilometri lungo i binari ferroviari e travolti la notte di giovedì da un treno merci in transito, ha ridato visibilità ai milioni di indiani che si sono ritrovati fuori dalle regioni d’origine alla dichiarazione del lockdown, senza lavoro, mezzi e assistenza. Per loro le amministrazioni di alcuni Stati dell’India stanno attuando o predisponendo treni speciali.
Il Bengala occidentale, di cui è capitale Kolkata (Calcutta) ha finora negato questa possibilità per il timore che incentivi la diffusione del coronavirus e metta in crisi le strutture di accoglienza, con 711 campi predisposti finora per la popolazione immigrata già presente. Tra le pieghe di un’emergenza che reindirizza spesso le priorità, non sembra allentarsi la pressione sulle minoranze religiose per la riconversione, come dimostra la ritorno all’induismo di 40 famiglie musulmane registrata venerdì nello Stato di Haryana, alle porte di Delhi.
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