Il 21 dicembre davanti al tribunale del lavoro di Milano si sono svolte due udienze. La prima; quella sul licenziamento di
Massimo Merlo incentrata sul reclamo contro la sentenza emessa (la
Fornero prevede che prima dell’appello si faccia un reclamo davanti allo
stesso giudice che ha emesso la sentenza) si è conclusa con il fatto
che il giudice ha chiesto alla parte avversa di allungare a 24 mesi il
risarcimento.
Massimo ha detto che si riservava il diritto di pensarci. Il nostro avvocato ci ha fatto sapere
che l’avvocato dell’azienda oggi lo aveva chiamato per chiudere con una
sorta di concilazione sia la causa di Massimo che quella che riguarda
anche la causa di Dario Comotti (la mia causa), accennando al fatto che
si potesse andare verso un possibile accordo sulla base del fatto che
l’azienda non sarebbe andata in appello contro la sentenza che giudica
illegittimi i nostri licenziamenti.
Illegittimità che l’azienda non digerisce affatto e tenta in tutti i modi di contrastare.
Il nostro punto di vista è sempre stato
questo: se volevamo conciliare non avremmo avuto di certo la necessità
di andare davanti ad un giudice impugnando il licenziamento.
Per conciliare il licenziamento
sarebbe bastato incontrare in azienda la controparte e di fatto
avremmo portato a casa più soldi di quelli che il tribunale ha
stabilito.
Ma questo non è mai stato il nostro obiettivo.
Il nostro obbiettivo è sempre stato
quello di essere reintegrati al lavoro, e non quello di farci pagare per
essere epulsi dalla fabbrica. Se per effetto della legge 300/70 (legge
Fornero) non siamo stati riammessi al lavoro ciò non toglie che i
giudici hanno comunque dichiarato illegittimo il nostro licenziamento,
concordare una qualsiasi conciliazione vorrebbe dire venire meno al
principio di reintegrazione al lavoro.
Seconda udienza che riguarda la fase finale del licenziamento di Enzo Acerenza (il dibattito tra avvocati)
Finalmente i nostri avvocati sono
riusciti in udienza a ribaltare la tesi degli avvocati del padrone che
sostenevano che Enzo non era in grado di fare l’elettricista e che per
questo fatto l’azienda ha sempre dovuto rivolgersi ad imprese esterne
per la manutenzione del macchinario ( una trivialità senza limiti; 40
anni di lavoro come elettricista di manutenzione su macchinari complessi
e questi hanno la spurodatezza di sostenere che Enzo non è mai stato
in grado di svolgere la mansione di elettricista che per tutta la vita
ha fatto).
I nostri avvocati nel dibattimento
hanno sostenuto con vigore la tesi della discriminazione sindacale,
aggiungendo nel dibattito che oltretutto l’azienda non ha per nulla
rispettato la procedura della legge Fornero, procedura che tra l’altro
prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione davanti all’ufficio
provinciale del lavoro. I nostri avvocati hanno chiaramente sostenuto
che quella fu proprio una scelta deliberata, non fu affatto un errore
dovuto a “superficialità”, ma fu una chiara scelta perseguita di
proposito nel tentativo di saltare questa procedura.
L’avvocato dell’azienda oltre a
vomitare volgarità dicendo che gli operai della Innse agivano come un
unico corpo: “pensi sig. Giudice sia nelle lettere di contestazione che
alla gerarchia aziendale rispondevano tutti allo stesso modo” (come se
tutto questo non sia una normale pratica sindacale) è scaduta
addirittura nel ridicolo sostenendo che: ” insomma il sig. Acerenza
faceva il nonno e avrebbe dovuto scegliere se fare il nonno o continuare
lavorare” un commento che si commenta da se. Comunque l’udienza si è
conclusa con la riserva del giudice di andare a sentenza. A questo punto
aspettiamo solo quello che il giudice deciderà.
Ricordiamo a tutti coloro che vogliono contribuire per sostenere materialmente la nostra lotta, che è attiva una pagina web “http://www.giulemanidallainnse.it” destinata alla raccolta di fondi per far fronte alle spese legali.
Il presidio davanti ai cancelli della
Innse come sempre continua ( questo è il 10 mese di presidio),
l’appuntamento è per lunedì 8 gennaio 2018 ( la fabbrica chiude per 2
settimane) dalle ore 7.00
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