Il 23 maggio 2015 a Gorizia è successo qualcosa.
Al “Parco della Rimembranza”, su un palco di legno, c’era un tizio che si chiama Simone Di Stefano –
mai visto prima da queste parti -, che parlava di sangue e terra.
Sangue italiano e terra italiana. Al suo fianco c’era l’assessora Silvana Romano,
di Forza Italia. Davanti a lui un migliaio di sonnambuli che
sventolavano tartarughe e tricolori. Di Stefano diceva che bisogna
essere pronti a morire per l’Italia, come i fanti del 1915, perché
l’Italia sta precipitando nell’abisso per colpa dei traditori e dei
nemici della Nazione.
L’assessora
al suo fianco applaudiva compostamente. I sonnambuli pure. Erano
arrivati da tutte le regioni e avevano attraversato in corteo un dedalo
di strade secondarie deserte, per celebrare l’entrata in guerra
dell’Italia e per ribadire la sacralità dei confini della Nazione,
disegnati col sangue. Ispirandosi alla leggenda della fondazione di
Roma, avevano raccolto in uno scudo manciate di terra portate
appositamente da tutte – quasi tutte – le province d’Italia.
Il
capoccia di Casapau Simone Di Stefano (a destra) e l’assessora Romano
(a destra pure lei). Curiosità: il padre di Di Stefano è “l’ingegnere” –
le virgolette qui sono d’obbligo – di cui ci siamo occupati
nell’inchiesta sui due marò
L’unione di terra e sangue può solo far venire il tetano.
Il
23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria – cui era legata da
una trentennale alleanza difensiva -, dopo aver contrattato con
Francia, Inghilterra e Russia, e ottenenuto in cambio dell’intervento
non solo Trento e Trieste, ma anche la Dalmazia, l’Albania, la provincia
turca di Antalya, e non meglio precisate “compensazioni coloniali”.
L’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale non fu la quarta
guerra d’indipendenza, ma imperialismo dispiegato, come proclamò senza
ipocrisie Ruggero Timeus.
L’intervento fu preparato da una campagna propagandistica martellante e
pervasiva, cui diedero il loro contributo attivo la quasi totalità degli intellettuali italiani, primo tra tutti D’Annunzio. La propaganda guerrafondaia era incentrata sul concetto che un sacrificio umano di dimensioni colossali fosse necessario per costruire la Nazione. Per questo motivo i soldati italiani furono mandati deliberatamente al macello, per conquistare poche centinaia di metri di terra. E quando la propaganda non fu più sufficiente a stimolare l’ ”eroismo dei nostri fanti”, cioè quasi subito, allora entrò in scena il plotone d’esecuzione. Furono migliaia le fucilazioni per diserzione e “codardia di fronte al nemico”.
pervasiva, cui diedero il loro contributo attivo la quasi totalità degli intellettuali italiani, primo tra tutti D’Annunzio. La propaganda guerrafondaia era incentrata sul concetto che un sacrificio umano di dimensioni colossali fosse necessario per costruire la Nazione. Per questo motivo i soldati italiani furono mandati deliberatamente al macello, per conquistare poche centinaia di metri di terra. E quando la propaganda non fu più sufficiente a stimolare l’ ”eroismo dei nostri fanti”, cioè quasi subito, allora entrò in scena il plotone d’esecuzione. Furono migliaia le fucilazioni per diserzione e “codardia di fronte al nemico”.
Gorizia
nel 1915 era una città di 30.000 abitanti, dei quali poco meno della
metà erano italiani (includendo i cittadini di madrelingua friulana),
11.000 erano sloveni, 3.000 erano tedeschi, 2000 di altre nazionalità.
Considerando invece la città con la sua “provincia”, gli italiani non
arrivavano al 35%, ed erano concentrati, oltre che a Gorizia stessa,
nelle cittadine di Cervignano, Monfalcone e Gradisca. Tutta la zona a
nord e a est di Gorizia era abitata compattamente da sloveni. I
goriziani abili alle armi combatterono nelle fila dell’esercito
austroungarico. Per loro la guerra era cominciata già nel 1914, in
Montenegro contro i serbi, e in Galizia contro i Russi. Dopo l’attacco
dell’Italia, nel maggio 1915, gli sloveni furono in gran parte spostati
sul fronte dell’Isonzo: nonostante molti di loro aspirassero
all’autodeterminazione rispetto all’Impero, il fatto di combattere a
difesa della propria città e dei propri villaggi contro un esercito
invasore costituiva una forte motivazione per rimanere leali
all’esercito austroungarico. Se nella vulgata italiana Gorizia è
diventata il simbolo delle terre da “redimere”, cioè da conquistare,
nella memoria reale di chi a Gorizia ci viveva, soprattutto gli sloveni,
Gorizia è diventata invece il simbolo delle terre da difendere contro
l’invasore italiano.
Gorizia
fu l’unica città conquistata con le armi dall’esercito italiano. La
conquista della città costò la vita, in una settimana, a 30.000 soldati,
tra italiani e austroungarici. L’ 8 agosto 1916 i fanti italiani
entrarono in una città ridotta in macerie, abbandonata dalla quasi
totalità dei suoi abitanti. Di 30.000 ne erano rimasti 3.000. Di questi,
alcune centinaia, soprattutto sloveni, furono immediatamente internati
in Sardegna. Gorizia, o ciò che ne restava, fu riconquistata dagli
austroungarici nell’ottobre 1917, in seguito alla battaglia di
Caporetto. Passò infine all’Italia dopo il collasso dell’Impero e
l’armistizio nel novembre 1918. Ciò che subì Gorizia durante e dopo la
prima guerra mondiale fu un urbicidio,
paragonabile a quello subito da Mostar in tempi più recenti. Le
devastazioni della guerra e la politica di italianizzazione violenta
portata avanti dal fascismo distrussero irrimediabilmente il carattere
multietnico e multiculturale della città.
Per
raccontare queste cose, mentre i fascisti del terzo millennio
mescolavano terra e sangue nei loro alambicchi, noi abbiamo attraversato
la città in corteo. Abbiamo cantato O Gorizia tu sei maledetta,
abbiamo portato in corteo 200 croci di legno su cui avevamo scritto
nomi italiani, tedeschi e sloveni, nomi veri, presi dalle tombe del
cimitero di Gorizia. Eravamo più di mille: comunisti, anarchici,
cristiani pacifisti, e tante persone senza una specifica militanza.
Molti di noi erano goriziani, altri erano arrivati da Trieste, Udine,
Lubiana, alcuni persino da Zagabria. Eravamo italiani, sloveni, friulani
e croati. Tante voci, tante storie, tutte accomunate da una precisa
scelta di campo politica: l’antifascismo. Ed esistenziale: la diserzione
rispetto alle chiamate alle armi in nome della Nazione.
Ma
la città non c’era. I negozi avevano le serrande abbassate, le strade
erano deserte. La gente era barricata in casa, oppure ad ascoltare
Saviano che parlava di legalità – l’evento mondano dell’anno in questa
città alla periferia di qualunque cosa. La città era indifferente a noi,
come era indifferente ai fascisti. Indifferenti anche il PD, la CGIL,
l’ANPI e la politica ufficiale slovena. Tutt’altro che indifferente
invece la destra italiana e la stampa locale in lingua italiana, che
negli ultimi 15 giorni aveva condotto una campagna di terrorismo
psicologico per convincere i cittadini che il nostro corteo avrebbe
portato il Disordine. Mentre si era premurata di assicurare ai cittadini
che i fascisti avrebbero sfilato in buon Ordine. Sventolando tricolori.
Trieste,
24 maggio 2015. Le celebrazioni ufficiali per il centenario
dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale si concludono con
l’arrivo della staffetta “L’esercito marciava…” e con un concerto della
cantante Ivana Spagna in Piazza Unità. 600 militari hanno portato il
tricolore attraverso tutto lo stivale, partendo da Trapani, “con lo scopo di rappresentare il movimento di avvicinamento a Trieste dai punti più lontani dell’Italia”. L’ultimo tedoforo è il Ministro della Difesa Roberta Pinotti.
Nei giorni precedenti sulle Rive si sono svolte diverse esibizioni
dimostrative di reparti scelti dell’esercito: lanci di paracadutisti,
sbarchi di lagunari, fanfare di bersaglieri. Le locandine che
pubblicizzano l’evento spiegano che il ruolo svolto dall’esercito nella
prima guerra mondiale è stato fondamentale nella costruzione
dell’identità nazionale italiana, e che le celebrazioni del centenario
“intendono
proseguire idealmente questo processo identitario (… ) nell’attuale
momento storico, dove la richiesta di identità valoriale e
riconoscimento culturale sono fortemente sentiti dalla collettività”. La risonanza con gli slogan di Casa Pound è evidente.
Ma
anche a Trieste, anche per l’esercito italiano, la città non c’è. La
piazza è vuota per tre quarti. Poche centinaia di passanti e di turisti
curiosano tra i carri armati, nella “città redenta cara al cuore di
tutti gli italiani”.
Durante
la prima guerra mondiale Trieste non conobbe le distruzioni di Gorizia.
Nel dopoguerra condivise però con Gorizia la violenza del fascismo di
confine e della sua politica di italianizzazione forzata. La città perse
la funzione strategica di porto dell’Impero, e la sua borghesia,
scopertasi italianissima, vivacchiò per un ventennio all’ombra del
regime, per poi dannarsi l’anima al ritorno degli “austriaci” nel 1943.
Tornata al centro della retorica nazionalista italiana nel secondo
dopoguerra, la città vive tuttora in uno stato di schizofrenia, tra
rigurgiti nazionalpatriottici e nostalgie asburgiche irrancidite. Gli
ultimi anni hanno visto l’emergere di un movimento neoindipendentista e
la trasformazione in triestinissimi di molti italianissimi. Sotto il
diverso velo identitario si vedono le stesse facce, si sentono gli
stessi discorsi di sempre. Ma è evidente che il tricolore non scalda più
i cuori.
Qualcuno
potrebbe farsi prendere dall’ottimismo, potrebbe trarre la conclusione
che tutta questa indifferenza dimostra che finalmente ci si è liberati
dal passato, da quelpassato.
Ma basta fare un giro nei bar, o nei social network che è lo stesso,
per rendersi conto che non è così. Il passato è ancora tutto lì, pesa
come un macigno, con il suo carico di odio pronto a scatenarsi contro il
primo bersaglio disponibile: i rom, i profughi africani, l’eterno
nemico slavo… Se n’è avuto un saggio in occasione del primo maggio,
quando la presenza nel corteo di una bandiera jugoslava con la stella
rossa – a celebrazione del settantesimo anniversario della liberazione
di Trieste, avvenuta appunto il primo maggio 1945 ad opera dell’esercito
di liberazione jugoslavo – ha scatenato la reazione veemente della
destra fascista, cui si è diligentemente accodato il costituendo Partito
della Nazione di Renzi. E’ un odio vissuto privatamente, che per ora non
riesce a coagularsi in un’identità collettiva. E’ un odio sordo che
monta nel vuoto di prospettive esistenziali generato dalla crisi
economica e dalla disoccupazione di massa. In questo vuoto le parole di
Di Stefano si confondono coi comunicati stampa dell’esercito italiano.
Diventano parte della normalità, assumono un ruolo quasi
“istituzionale”. Su un sito di news abruzzese si legge: “Si
sono svolte a Gorizia le celebrazioni per il centenario dell’entrata in
guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Le celebrazioni hanno
ospitato anche l’annuale manifestazione di CasaPound Italia che ha
scelto proprio di intitolare il proprio evento ITALIA risorgi, combatti e
vinci!”
Noi
abbiamo provato a portare in questo vuoto parole e storie diverse, a
riallacciare i fili di un racconto interrotto, a ricordare che dobbiamo
restare umani. Ma è successo qualcosa a Gorizia, il 23 maggio, qualcosa
di brutto, e ci vorranno anni per capire cosa.
Per ora possiamo solo provare a mettere in evidenza alcuni elementi costitutivi delframe in cui si è svolta questa giornata sghemba:
1. Lo sdoganamento ricevuto da Casa Pound dopo essersi agganciata al carrozzone Salvini. Di questo prima o poi Renzi dovrà pagare il prezzo politico.
La costruzione di “Salvini” fatta a tavolino dai grandi elettori di
Renzi, dal suo punto di vista, è stata un capolavoro: da un momento
all’altro “Salvini” è apparso nei giornali e nelle Tv – e non ne è mai
più uscito – interpretando il ruolo di un Leader del centrodestra su
misura per far vincere Renzi ancora per un po’. Ma a che prezzo lo
stiamo vedendo.
2. La
data e il luogo. Scegliere Gorizia, città periferica ma con un
fortissimo valore simbolico dentro la retorica nazionalista italiana, ha
fatto sì che tutto sommato Casa Pound potesse cavalcare l’onda del
momento, sicuramente molto più di noi antifascisti. In questi giorni
abbiamo visto scorrere un fiume di retorica patriottica sulla grande
guerra, sulla patria, sui nostri morti, su Gorizia, su Trieste italiana,
ecc. In questo fiume troviamo dentro tutti, da Mattarella alla Pinotti
che arriva di corsa in piazza Unità, ai bambini che vanno a vedere i
soldati sbarcare o atterrare. I media hanno fatto la loro parte e
l’hanno fatta bene. Emotivamente non c’è stata storia: da una parte “i
nostri morti” e “il prezzo pagato per essere italiani”; dall’altra
quelli che rischiavano di devastare Gorizia (dopo il primo maggio a
Milano una sola scritta diventa devastazione).
3. L’appoggio
della destra locale che si è schierata apertamente con Casa Pound.
Evidentemente non è più “disdicevole”. Ci sono le polemiche, ma si può
comunque fare: culturalmente è sdoganato.
4. Il
defilarsi di Pd, Anpi, Cgil ecc.. A fronte di questa retorica
emozionale, non hanno voluto schierarsi. L’antifascismo va bene se è
confinato nelle celebrazioni ufficiali del 25 aprile, ma il 23 maggio
paga sicuramente di più non stare contro i “nostri morti”. Perché questo
è stato, “mediaticamente”, il 23 maggio: Casa Pound che andava a
omaggiare i morti, i caduti, l’onore nazionale, il ricordo, l’Italia… E
poi gli Altri – cioè noi – che minacciavano sfracelli.
5. L’
indifferenza della politica ufficiale slovena. Mentre a livello di
base, nel litorale sloveno, c’è stata una mobilitazione spontanea che si
è concretizzata nella partecipazione al corteo transnazionale di
Gorizia insieme agli antifascisti italiani, la politica ufficiale
slovena si è disinteressata della provocazione fascista, annunciata da
settimane a ridosso del confine. L’unica presa di posizione ufficiale è
stata una tardiva nota di protesta del Capo di Stato sloveno il 22
maggio. La Slovenia – non diversamente dall’Italia – è attraversata da
una profonda lacerazione tra chi considera l’antifascismo principio
fondante di una democrazia reale, e chi invece in nome della Nazione
vuole riabilitare il collaborazionismo dei Domobranci. Come in Italia,
la sinistra politica è incapace di – o giudica inutile – opporsi a
questa deriva.
6. La
disarmante ignoranza di gran parte degli italiani su tutto ciò che
riguarda il “confine orientale”. Fuori da queste borderlands, pochissimi
hanno colto il senso profondo di ciò che è accaduto a Gorizia: la
saldatura tra la retorica ufficiale di Stato e quella dei fascisti del
terzo millennio, emersa in modo esplicito nelle celebrazioni della
grande guerra, vero mito fondativo dell’identità nazionale italiana. La
saldatura si è manifestata proprio in queste terre, dove le ferite
causate da quella guerra
non si sono mai rimarginate, né da una parte né dall’altra del confine.
E’ veramente sconfortante che persino testate vicine ai movimenti si
siano interessate ai fatti del 23 maggio solo in relazione a una
scaramuccia di confine, la vicenda della scritta “TITO” sul monte Kokoš.
Una scaramuccia che probabilmente non ha nessun legame diretto con la
manifestazione di Casapound e che rientra invece in una pluridecennale
“guerra delle pietre” tutta locale sulle colline del carso.
Ringrazio Maja, Luca, Andrea, Alessandro e Wu Ming 1 per il brainstorming da cui è nato questo post.
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