Con le porte chiuse. Il treno della barbarie europea
di Luca SOLDI
Non siamo ancora ai “vagoni piombati” che ci ricordano le deportazioni ai campi di concentramento nazisti, ma quello che sta succedendo nel cuore dell’Europa in questi giorni rappresenta una vergogna di natura inimmaginabile.
Proprio in quell’Ungheria che è diventata tristemente famosa per il “muro” di filo spinato che un governo ha deciso di erigere a difesa delle infiltrazioni dei migranti.
Il paragone con i vagoni piombati della Germania nazista potrebbe sembrare ardito ai nostri giorni, ma lo hanno fatto anche alcuni media ungheresi.
Esiste infatti un treno che parte da Pecs, nel sud dell’Ungheria, alla volta di Budapest. Al convoglio dei vagoni dei passeggeri tradizionali viene aggiunto una carrozza particolare, guardata con diffidenza da molti.
Gli uomini delle ferrovie chiudono le porte e appendono un cartello al finestrino: “Questo vagone viaggia con le porte chiuse”. Si può solo aprire dall’esterno. Il personale delle ferrovie ha impedito che le portiere possano essere aperte da chi è a bordo.
Si, perché il vagone non è vuoto, non è in manutenzione, e neppure in trasferimento verso l’officina della stazione della capitale. Quel vagone è carico di persone, di migranti stipati all’inverosimile.
E’ pieno di bambini, di donne che provengono per la maggior parte dalla Siria e dall’Afghanistan. Persone che subiscono una nuova umiliazione come se non bastassero quelle passate. Qualcuno fra gli altri passeggeri, quelli normali, negli altri vagoni, quelli a cui non è stata tolta la dignità, prova a chiedere e la risposta arriva dopo un po’. Semplice e diretta, ma di una vergogna senza limiti. Indegna per un paese che vuole definirsi europeo.
La misura è stata presa per evitare che i “viaggiatori”, questi “stranieri”, appena registrati come clandestini, possano scendere e far perdere la loro tracce. Evitando così la “concentrazione coatta nei campi profughi”. Alle proteste che presto arrivano al di fuori del paese, arriva una prima risposta dell’esecutivo guidato dalla Fidesz di Viktor Orban, il “dittatore” a cui Juncker sorride, che chiaramente la pensa in un altro modo. Il suo consenso, infatti, si regge sulla paura della possibile “contaminazione” e la cavalca a più non posso anche negando l’evidenza di far parte di una comunità internazionale verso la quale sono stati precisi impegni.
Esiste infatti un treno che parte da Pecs, nel sud dell’Ungheria, alla volta di Budapest. Al convoglio dei vagoni dei passeggeri tradizionali viene aggiunto una carrozza particolare, guardata con diffidenza da molti.
Gli uomini delle ferrovie chiudono le porte e appendono un cartello al finestrino: “Questo vagone viaggia con le porte chiuse”. Si può solo aprire dall’esterno. Il personale delle ferrovie ha impedito che le portiere possano essere aperte da chi è a bordo.
Si, perché il vagone non è vuoto, non è in manutenzione, e neppure in trasferimento verso l’officina della stazione della capitale. Quel vagone è carico di persone, di migranti stipati all’inverosimile.
E’ pieno di bambini, di donne che provengono per la maggior parte dalla Siria e dall’Afghanistan. Persone che subiscono una nuova umiliazione come se non bastassero quelle passate. Qualcuno fra gli altri passeggeri, quelli normali, negli altri vagoni, quelli a cui non è stata tolta la dignità, prova a chiedere e la risposta arriva dopo un po’. Semplice e diretta, ma di una vergogna senza limiti. Indegna per un paese che vuole definirsi europeo.
La misura è stata presa per evitare che i “viaggiatori”, questi “stranieri”, appena registrati come clandestini, possano scendere e far perdere la loro tracce. Evitando così la “concentrazione coatta nei campi profughi”. Alle proteste che presto arrivano al di fuori del paese, arriva una prima risposta dell’esecutivo guidato dalla Fidesz di Viktor Orban, il “dittatore” a cui Juncker sorride, che chiaramente la pensa in un altro modo. Il suo consenso, infatti, si regge sulla paura della possibile “contaminazione” e la cavalca a più non posso anche negando l’evidenza di far parte di una comunità internazionale verso la quale sono stati precisi impegni.
A questo proposito, va ricordato che l’Ungheria è l’unico Paese Ue che non ha accolto nessun migrante, come avrebbe invece previsto l’accordo raggiunto recentemente a Bruxelles. Il vice-premier Janos Lazar ha dichiarato di recente, orgoglioso alla stampa: “Questa gente doveva essere fermata e registrata già in Grecia, perché sono entrati in Ue da lì. A quel che mi risulta, nei Balcani non c’è attualmente alcuna guerra. Hanno pagato dei trafficanti, in Serbia, e vengono trasportati a bordo di autobus fino al confine ungherese. Costruiamo una barriera proprio per farla finita con tutto questo”.
E questo dà proprio la sensazione che si voglia mostrarsi duri contro l’indignazione interna ed ancora di più contro le reazioni da parte dell’UE. Sembra che nuovi campi, fatti di grandi tendoni saranno costruiti proprio vicino al confine. Ed anche che il passaggio illegale in Ungheria sarà definito, da norme ancora più restrittive, come reato invece che come semplice contravvenzione, com’è stato fino ad oggi.
Per parte loro, esperti di diritto internazionale, ancora prima che si metta in moto la ferruginosa macchina europea, hanno rilevato palesi contravvenzioni che dovranno mettere sul banco degli imputati il governo del Paese. “È una battaglia persa già in partenza”, ha titolato il giornale Nepszabadsag, che ha dato per primo notizia dei vagoni chiusi. Ma fra tutto questo, per fortuna c’è una ragione di speranza. E’ data dall’altra Ungheria, quella che crede nei diritti fondamentali e non giudica i migranti come un cancro, o una minaccia per l’integrità. Proprio nelle stazione di Pecs e Szeged, le due città vicine al confine sud, ogni giorno, accanto alla folla dei migranti, agiscono i volontari di un’organizzazione della società civile ungherese, Migration Aid.
Sono lì che distribuiscono un po’ di acqua, qualche panino, un po’ di conforto insieme a qualche carta geografica, per ricordare che sono arrivati in un paese della civile Europa. Ma loro, mentre salgono su quel vagone che verrà “sigillato”, hanno ancora negli occhi la paura, il dolore per aver abbandonato le terre dove sono nati e la certezza che il loro esodo non e’ ancora finito
Sono lì che distribuiscono un po’ di acqua, qualche panino, un po’ di conforto insieme a qualche carta geografica, per ricordare che sono arrivati in un paese della civile Europa. Ma loro, mentre salgono su quel vagone che verrà “sigillato”, hanno ancora negli occhi la paura, il dolore per aver abbandonato le terre dove sono nati e la certezza che il loro esodo non e’ ancora finito
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