Dopo questa risposta, sospenderemo la Formazione Operaia. Riprenderemo a metà settembre.
DOMANDADA UNA LAVORATRICE DELLA SCUOLA DI PALERMO
Una
domanda… Marx anticipa nella parte della 'compera – vendita
della forza lavoro' la questione del plusvalore prodotto dalla
forza-lavoro dell’operaio in fabbrica.
Nel plusvalore come e se rientra il cosiddetto lavoro non produttivo? (vedi un’impiegata come me della scuola)…
RISPOSTA
Nel plusvalore come e se rientra il cosiddetto lavoro non produttivo? (vedi un’impiegata come me della scuola)…
RISPOSTA
DA
GIUSEPPE ANTONIO DI MARCO
Non
ho capito se questa lavoratrice della scuola vi lavora come
insegnante o negli uffici amministrativi. Però la questione è
perfettamente la stessa. Non solo, ma le prime battute del capitolo
quattordicesimo del Capitale, intitolato «Plusvalore assoluto
e plusvalore relativo» sembrano scritte da Marx apposta per
rispondere alla domanda che ha fatto la lavoratrice e/ovvero la
compagna. Perciò seguiamo e commentiamo questa pagina molto densa,
perché – diciamolo già da adesso la risposta non è “no” o
sì” secchi ma più complessa, e segue un modo di esporre la cosa
che si chiama dialettico e che adesso non mette in conto si spiegare
perché lo lasciamo emergere dal commento.
Comincia
Marx col dire che in generale ogni lavoro è un rapporto dinamico che
si stabilisce tra l’uomo e la natura, quindi un lavoro che si
svolge tra questi due poli, soggetto (l’uomo) e oggetto (la
natura). In che senso? Nel lavoro l’uomo si appropria della natura
che è il suo materiale di lavoro, mediante un mezzo di produzione.
Qui “natura” come materiale di lavoro è intesa in un senso
ampio, quindi anche il corpo umano, nel caso del lavoro di un medico,
o il cervello umano nel caso del lavoro di un maestro di scuola, cioè
come Marx stesso dice, «un lavoro al di fuori della sfera della
produzione materiale» sono “natura”. Così mezzi di produzione
sono la mano o qualsiasi altro organo dell’uomo, mezzi della
«propria natura» oppure, l’aratro, una macchina ecc. il più
aggiornato computer o post computer i cui materiali sono della
«cosiddetta natura» (queste parole tra virgolette stanno nei
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica).
Inteso in questo senso, dice sempre Marx, «se si considera l’intero
processo lavorativo dal punto di vista del suo risultato, mezzo di
lavoro e oggetto di lavoro si presentano entrambi come mezzi di
produzione, e il lavoro stesso si presenta come lavoro
produttivo».
Però
questa definizione di lavoro produttivo che, come si vede, raccoglie
ogni lavoro umano, o meglio ogni lavoro che ciascun individuo fa
anche da solo, quindi si riferisce a un «processo lavorativo
semplice», non basta quando abbiamo a che fare con un processo di
produzione capitalistico, perché in esso il lavoro si presenta
sempre meno come individuale e sempre più come cooperativo e
letteralmente “sociale”, posto che anche il lavoratore
individuale sta in un rapporto sociale ma in un senso più ampio e
diverso da come lo usiamo qui.
In un
lavoro inteso come un processo individuale, il singolo lavoratore,
pensiamo a un
contadino che lavora il suo piccolo pezzo di terra o a un artigiano nella sua bottega o a un violinista solista, (sto facendo tutti esempi presi da Marx in vari punti), l’individuo che lavora controlla se stesso e quindi mette in movimento i suoi muscoli sotto il cervello che li controlla. Perciò, qui lavoro intellettuale e lavoro manuale sono uniti. Ma successivamente queste sue funzioni, manuale e intellettuale, si scindono fino a diventare ostili e opposte. Infatti man mano che avanza lo sviluppo storico e al massimo grado nel modo di produzione capitalistico che è quello dove lo sviluppo del lavoro sociale è il più avanzato fino a ora, il lavoro diventa sempre più cooperativo e sempre più cooperativo su larga scala. Quindi il carattere del lavoro diventa sempre più sociale e il suo prodotto un prodotto sociale, cioè non il prodotto di un lavoratore individuale ma di un lavoratore complessivo, un lavoratore combinato. Qui il lavoro è diviso tra i vari membri del corpo lavorativo (manifattura, fabbrica industriale, rete produttiva), ciascuno dei quali fa la sua parte più o meno grande ed è parte di quell’organismo che è il lavoratore complessivo come le varie membra sono diverse ma sono parte di un uncico organismo e svolgono una diversa funzione.
contadino che lavora il suo piccolo pezzo di terra o a un artigiano nella sua bottega o a un violinista solista, (sto facendo tutti esempi presi da Marx in vari punti), l’individuo che lavora controlla se stesso e quindi mette in movimento i suoi muscoli sotto il cervello che li controlla. Perciò, qui lavoro intellettuale e lavoro manuale sono uniti. Ma successivamente queste sue funzioni, manuale e intellettuale, si scindono fino a diventare ostili e opposte. Infatti man mano che avanza lo sviluppo storico e al massimo grado nel modo di produzione capitalistico che è quello dove lo sviluppo del lavoro sociale è il più avanzato fino a ora, il lavoro diventa sempre più cooperativo e sempre più cooperativo su larga scala. Quindi il carattere del lavoro diventa sempre più sociale e il suo prodotto un prodotto sociale, cioè non il prodotto di un lavoratore individuale ma di un lavoratore complessivo, un lavoratore combinato. Qui il lavoro è diviso tra i vari membri del corpo lavorativo (manifattura, fabbrica industriale, rete produttiva), ciascuno dei quali fa la sua parte più o meno grande ed è parte di quell’organismo che è il lavoratore complessivo come le varie membra sono diverse ma sono parte di un uncico organismo e svolgono una diversa funzione.
A
questo punto il concetto di lavoro produttivo che sopra è stato dato
da Marx, vale non più per il singolo individuo ma per il lavoratore
complessivo. Socialmente è produttivo non l’individuo che produce
da solo con propri strumenti di lavoro individuali, ma quello che sta
come una parte del lavoratore combinato, che è il vero produttore.
Questo processo nell’età capitalistica si sviluppa dal momento in
cui il capitale avvia la produzione del plusvalore relativo e quindi
mette in movimento il lavoro sociale combinato, prima come
cooperazione semplice, poi come manifattura e poi al massimo grado
come grande industria: «Ormai per lavorare produttivamente non è
più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente
essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi
delle sue finzioni subordinate. La […] definizione del lavoro
produttivo che è dedotta dalla natura della produzione materiale
stessa, rimane sempre vera per il lavoratore complessivo, considerato
nel suo complesso. Ma non vale più per ogni suo membro,
singolarmente preso». Credo che ci possiamo rendere conto oggi
facilmente di questo nel cambiamento del processo lavorativo. Per
restare nel campo dell’istruzione, il mercato delle lezioni private
può essere fiorente quanto si vuole, ma produttivo è il CEPU. La
più bella e funzionante libreria tradizionale non è produttiva,
Amazon sì, o almeno la libreria artigianale non è produttiva quanto
Amazon. Produttivo significa: «la forza produttiva del lavoro,
cosicché una stessa quantità di lavoro fornisca, a seconda del
grado di sviluppo delle condizioni di produzione, una maggiore
quantità di prodotti entro lo stesso tempo», dice Marx nel
quindicesimo capitolo del Primo Libro del Capitale, intitolato
«Variazione di grandezza nei prezzi delle forza-lavoro e nel
plusvalore». Si tratta della capacità di sfornare più esami
preparati o più libri venduti in minore quantità di tempo: è
questo che fa il CEPU e Amazon che sono produttivi in questo senso,
mentre e lo studente o il laureato disoccupato che fa lezioni
private, o la libreria storica di Napoli Guida, che ha dovuto
chiudere, sono improduttivi nonostante che chi dà lezione private
o i lavoratori della libreria si ammazzino o si siano ammazzati di
lavoro. E questo è un lato della questione.
E
però nello stesso tempo – e sottolineo “nello stesso tempo”,
giacché non si tratta di due lati separabili ma di due lati dello
stesso lato, per così dire - questo processo lavorativo diventato
processo lavorativo combinato, cambiando non la definizione di lavoro
produttivo, ma il suo campo di applicazione cioè dal singolo
all’operaio complessivo (non importa se materiale o immateriale):
questo processo lavorativo socializzato, dicevo, è un processo
lavorativo capitalistico , sta nel rapporto sociale
capitalistico, cioè è funzione di un processo di valorizzazione,
vale a dire funzione di un processo di produzione del plusvalore.
E allora, se dal punto di vista del passaggio dal lavoro individuale
del contadino o dell’artigiano al lavoratore complessivo, il
concetto di lavoro produttivo si è allargato, sotto un altro
aspetto, cioè in quanto il capitale è un processo di valorizzazione
«il concetto di lavoro produttivo si restringe». Vediamo in che
senso, con l’esempio che Marx stesso fa: «La produzione
capitalistica non è soltanto produzione di merce, è
essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non
produce per sé ma per il capitale. Quindi non basta più che
l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È
produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il
capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale.
Se ci è permesso scegliere un esempio fuori dalla sfera della
produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo
se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal
lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia
investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in
una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il
concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto
una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto
del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente
sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di
mezzo diretto di valorizzazione del capitale».
Ecco
allora il punto: il capitale si muove in modo contradditorio
nell’intendere il lavoro produttivo ed è questa contraddizione che
lo porta alla sua crisi e alla necessità di passare a una nuova
forma di società. Allo stesso tempo, simultaneamente: 1)
allarga il concetto del lavoro produttivo, in quanto supera
l’ambito ristretto del lavoro individuale caratteristico della
proprietà privata diretta dei mezzi di produzione, come quello del
lavoratore diretto agricolo o artigianale, e così concentra e
successivamente centralizza i mezzi di lavoro e i prodotti del
lavoro (non posso qui affrontare il rapporto tra concentrazione e
centralizzazione dei mezzi di produzione, ma chi vuole saperlo lo
chieda), nel senso che un lavoro utile e produttivo può essere
eseguito solo socialmente e questo, ripeto è la nostra situazione
odierna a tutti i livelli; 2) ma restringe l'ambito e il
concetto stesso del lavoro produttivo facendolo coincidere con il
lavoro che produce plusvalore dato che il plusvalore si produce sulla
base «limitata» e «miserabile» del «furto del tempo di lavoro
altrui», scrive Marx nei
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,
ossia sulla base della proprietà privata. Questa va a bloccare e
comprimere proprio le potenzialità insite in quel carattere sociale
della produttività che in modo «involontario e passivo», scrivono
Engels e Marx nel Manifesto del partito comunista, essa ha
evocato come fa l’apprendista stregone, perché lo ha fatto solo
per aumentare la produzione di plusvalore e invece così ha creato le
condizioni per la crisi e il crollo del suo modo di produzione,
inevitabile, quali che ne siano i tempi, sulla base scientifica della
contraddittorietà del suo modo di sviluppo e non come una nostra
attesa messianica.
Allora
la situazione della lavoratrice scolastica (insegnante o
amministrativa) è: il suo lavoro è lavoro produttivo nella
misura in cui si estende sempre di più il processo di
socializzazione del lavoro, il suo diventare cooperativo quanto al
processo lavorativo, che rende improduttivo il lavoro eseguito solo
individualmente e che resterebbe produttivo solo se fossimo in una
società produttrice di merci e non in una società che produce il
capitale ossia plusvalore. Quindi il suo lavoro è produttivo dato il
possibile carattere generalmente sociale del lavoro che con la
riforma della scuola e della pubblica amministrazione si estenderà
sempre di più. Qui prescindiamo dal fatto che in questa
socializzazione anche dell’istruzione e delle funzioni
amministrative, molte funzioni che si hanno nella produzione
capitalistica sono ridondanti, e saranno superate in un’altra
forma di società. In ogni caso, la socializzazione del processo
lavorativo, che il capitale involontariamente e passivamente compie,
pone o tende a porre la lavoratrice della scuola che ha fatto la
domanda nella situazione di essere produttiva solo in quanto
parte organica, membro dell’operaio (impiegatizio, in questo caso)
complessivo. Ma simultaneamente, essendo la produzione
capitalistica produzione di plusvalore ( e oggi stiamo nel modo di
produzione capitalistico di produzione di merci e non nella semplice
produzione individuale di merci), il lavoro di questa lavoratrice è
produttivo solo se, come insegnante o amministrativa, non importa,
vende la sua forza-lavoro a un capitalista imprenditore della scuola
che sfrutta ovvero ruba il suo tempo di lavoro per arricchirsi
esattamente come farebbe per lo stesso scopo se fosse proprietario di
una fabbrica di salumi o formaggi. E l’imprenditore o gli azionisti
proprietari della scuola, possono passare a investire in salumi o
scarpe o vigilanza o eserciti privati se i saggi del profitto sono lì
maggiori, con le conseguenze che la lavoratrice in questione può
immaginare, e la tendenza sarà tale che essa stessa sarà costretta
a passare da un lavoro all’altro per essere “produttiva” (sic!)
in questo miserabile significato.
Quindi,
la lavoratrice che ha fatto la domanda, è produttiva solo se non si
limita a lavorare le teste degli alunni, come insegnante, o a
fabbricare certificati, bilanci, convocazioni di genitori ecc. come
amministrativa, ma se al tempo stesso si logora di lavoro per
arricchire l’imprenditore della scuola: questo, non dimentichiamolo
significa il fatto che la lavoratrice in questione “produce
plusvalore”, ossia che ella è sfruttata, massacrata di lavoro e
che la crescente innovazione e socializzazione del lavoro scolastico
e amministrativo, le varie riforme in questo senso, le appaiono come
capitale nella persona dell’imprenditore, del dirigente,
dell’ispettore ecc., dunque da risorsa di crescita dell’uomo in
quanto essere sociale, quali sarebbero potenzialmente, diventano una
condanna. Se invece ella lavora in una scuola statale, non importa se
meglio pagata o se pagata una miseria e sfruttata, allora non produce
plusvalore. Malgrado l’aumento della produttività del processo
lavorativo anche nella scuola statale, in quanto le riforme lo hanno
reso socializzato nei mezzi di produzione e nei prodotti, ella è
improduttiva relativamente al rapporto sociale capitalistico in cui
questo lavoro è posto dal capitale stesso - contraddittoriamente,
giacché un lavoro sempre più sociale è comandato
dispoticamente in forma di proprietà privata dei mezzi di
produzione..
Infatti
mentre nel primo caso, di una scuola privata, il reddito della nostra
lavoratrice si presenta come salario e ha la sua fonte nel capitale
variabile, nel secondo caso, di una scuola statale, questo reddito
proviene dalla redistribuzione del plusvalore tra le altre classi
della società, in questo caso di quella parte del plusvalore che
proviene dal tassazione che lo Stato fa (questo aspetto Marx lo mette
in evidenza nel Libro secondo del Capitale analizzando il
processo di riproduzione del capitale sociale complessivo).
Ciò
non significa che il lavoro nella scuola statale sia migliore del
lavoro presso un capitalista privato, perché comunque la scuola
statale è di uno Stato che organizza gli interessi della classe
dominante. Tuttavia il lavoro in una scuola statale poteva essere
preferibile al lavoro in una scuola privata nei decenni precedenti,
quando la borghesia si poneva ancora come classe dominante capace di
rappresentare, sia pure ideologicamente, tutta la società, anzi,
non del tutto illusoriamente, in quanto l’istruzione generalizzata
e “pubblica”, pur entro Stato borghese, era frutto delle lotte e
delle conquiste della classe proletaria. Adesso la fine della
stagione di lotte, di vittorie e di sconfitte subite dal movimento
proletario, nel bene e nel male, del secolo scorso, la borghesia si
pone direttamente come classe particolare che esplicitamente fa il
suo interesse particolare come classe dominante e perciò, proprio
nel momento in cui essa sembra straripare e dominare senza freni, ha
perduto proprio la sua capacità di rappresentare tutta al società
(questo tema Engels e Marx lo hanno sviluppato nell’Ideologia
tedesca). Infatti, essendo la borghesia attraversata dalla
contraddizione per cui da un lato, per aumentare il plusvalore e
quindi arricchirsi, mobilita tutte le forze produttive della società
e rende il lavoro cooperativo, sociale, quindi produttivo solo se
cooperativo, e al tempo stesso, dato lo scopo per cui questa
produttività sociale è stata posta, nega questa stessa produttività
sociale che ha creato suo malgrado, per cui l’essere produttivi
significa creare plusvalore ossia la riproduzione della proprietà
privata, considera la scuola, l’ospedale, l’amministrazione
statale (del suo stesso Stato), insomma l’intero ambito che si
chiama welfare, come faux frais de production, dice
Marx, cioè come spese improduttive nel senso che il plusvalore usato
per dare il reddito alla nostra lavoratrice della scuola, non può
essere sprecato così, ma deve essere reinvestito per reintegrare e
aumentare mezzi di produzione e lavoro vivo quindi per
l’accumulazione, al netto delle spese di sussistenza del
capitalista. E di conseguenza se, come da mille parti risulta, nella
“famigerata” scuola statale, mediante lotte, lavoro, impegno, si
spende lavoro sociale, si fanno esperienze educative di grande
qualità ecc., chi lavora nella scuola pubblica diventa uno
sfaccendato, un parassita ecc., e chi difende tutta quella socialità
creata dalle lotte dei decenni precedenti e che ha dato effetti anche
nella scuola, viene tacciato di conservatorismo, di difesa dei
privilegi e di tutto il male possibile. Viceversa, si fa apparire
progressiva non la socializzazione del lavoro che si è creata, ma la
proprietà privata, sulla cui base è concepibile il plusvalore, cioè
l’aspetto più regressivo e in definitiva improduttivo di questo
movimento storico, in quanto la produttività misurata sul plusvalore
prodotto comprime il concetto largo di produttività, quello
derivante dalla socializzazione dei mezzi di produzione. Così sfugge
il movimento dialettico per cui il concetto largo di produttività,
dato dalla socializzazione dei mezzi di produzione che la borghesia
ha messo in moto per arricchirsi, al tempo stesso è stato messo in
moto dalla proprietà privata ed è ostacolato da questa stessa
proprietà privata. E invece di approfondire la contraddizione in
avanti cioè cercando un rapporto di proprietà più adeguato a
favorire la socializzazione del lavoro nel senso ampio, cioè dello
sviluppo dell’individuo come individuo sociale, premessa di un più
ampio sviluppo individuale, si fa diventare progressiva al proprietà
privata cioè l’elemento frenante. Il senso delle leggi sulla
Buona scuola e della retorica dei sicofanti politici e intellettuali
della borghesia che lo sostengono, sta tutto qui.
E
così, con la privatizzazione a cui si sta avviando anche
l’istruzione statale, la lavoratrice che ha posto la domanda passa
sotto il giogo del capitalista, aumenta il suo lavoro superfluo,
diminuisce il suo salario, rischia di essere messa sul lastrico se il
suo pluslavoro non è richiesto direttamente dallo sviluppo del
processo di accumulazione. Ma in questo caso non cesserebbe la sua
funzione di operaia nella disoccupazione, giacché la sua funzione
sarebbe quella di esercitare la pressione sugli occupati perché
diano più lavoro sotto la precarietà a cui questa
sovrappopolazione, creata apposta dal capitale, riduce al loro
esistenza quanto più essi sono essenziali all’accumulazione
capitalistica. Insomma questa lavoratrice sperimenterebbe in che
senso, sotto il capitale, essere produttiva è una disgrazia per lei.
Ma i proletari, occupati
e disoccupati, divenuti consapevoli del processo di rapina, di
dominio, di sfruttamento che si mette in atto nei loro confronti, non
devono risolvere ai padroni la contraddizione lavorando di più per
loro, ma la devono accentuare agendo su quella produttività che il
capitale passivamente scatena, cioè quella derivante dalla
socializzazione dei mezzi di produzione come base per passare a una
socialità dove, come si diceva sopra, il pieno sviluppo
dell’individuo sociale è la condizione del libero sviluppo
dell’individualità di ciascuno. Quindi devono strappare quei mezzi
di produzione ai capitalisti, che fanno di quella produttività
allargata in senso sociale una dannazione per il lavoratore invece
di essere la base della sua libertà. Ciò significa esattamente il
contrario di accettare quel lavoro sociale entro il rapporto
capitalistico di produzione, perché qui esso è capitale e quindi
solo dominio dispotico e sfruttamento. Rifiutando di logorarsi di
lavoro, devono lottare per al riduzione del tempo di lavoro
supplementare e per fare ciò con successo devono usare la sola arma
che è capace di porre un freno alla brama di sfruttamento: il
superamento della concorrenza tra occupati e disoccupati e la
cooperazione tra loro. Solo su questa base si può poi procedere al
rivoluzionamento di tutta la società. Questo mi pare il senso del
discorso di Marx sul problema che la lavoratrice ha posto.
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