giovedì 30 luglio 2015

pc 30 luglio - SPECIALE FORMAZIONE OPERAIA - LE RISPOSTE DEL PROF. GIUSEPPE DI MARCO DELL'UNIVERSITA' 'FEDERICO II' DI NAPOLI - 2° parte

Dopo questa risposta, sospenderemo la Formazione Operaia. Riprenderemo a metà settembre.
DOMANDA

DA UNA LAVORATRICE DELLA SCUOLA DI PALERMO
Una domanda… Marx anticipa nella parte della 'compera – vendita della forza lavoro' la questione del plusvalore prodotto dalla forza-lavoro dell’operaio in fabbrica.
Nel plusvalore come e se rientra il cosiddetto lavoro non produttivo? (vedi un’impiegata come me della scuola)…

RISPOSTA
DA GIUSEPPE ANTONIO DI MARCO
Non ho capito se questa lavoratrice della scuola vi lavora come insegnante o negli uffici amministrativi. Però la questione è perfettamente la stessa. Non solo, ma le prime battute del capitolo quattordicesimo del Capitale, intitolato «Plusvalore assoluto e plusvalore relativo» sembrano scritte da Marx apposta per rispondere alla domanda che ha fatto la lavoratrice e/ovvero la compagna. Perciò seguiamo e commentiamo questa pagina molto densa, perché – diciamolo già da adesso la risposta non è “no” o sì” secchi ma più complessa, e segue un modo di esporre la cosa che si chiama dialettico e che adesso non mette in conto si spiegare perché lo lasciamo emergere dal commento.
Comincia Marx col dire che in generale ogni lavoro è un rapporto dinamico che si stabilisce tra l’uomo e la natura, quindi un lavoro che si svolge tra questi due poli, soggetto (l’uomo) e oggetto (la natura). In che senso? Nel lavoro l’uomo si appropria della natura che è il suo materiale di lavoro, mediante un mezzo di produzione. Qui “natura” come materiale di lavoro è intesa in un senso ampio, quindi anche il corpo umano, nel caso del lavoro di un medico, o il cervello umano nel caso del lavoro di un maestro di scuola, cioè come Marx stesso dice, «un lavoro al di fuori della sfera della produzione materiale» sono “natura”. Così mezzi di produzione sono la mano o qualsiasi altro organo dell’uomo, mezzi della «propria natura» oppure, l’aratro, una macchina ecc. il più aggiornato computer o post computer i cui materiali sono della «cosiddetta natura» (queste parole tra virgolette stanno nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica). Inteso in questo senso, dice sempre Marx, «se si considera l’intero processo lavorativo dal punto di vista del suo risultato, mezzo di lavoro e oggetto di lavoro si presentano entrambi come mezzi di produzione, e il lavoro stesso si presenta come lavoro produttivo».
Però questa definizione di lavoro produttivo che, come si vede, raccoglie ogni lavoro umano, o meglio ogni lavoro che ciascun individuo fa anche da solo, quindi si riferisce a un «processo lavorativo semplice», non basta quando abbiamo a che fare con un processo di produzione capitalistico, perché in esso il lavoro si presenta sempre meno come individuale e sempre più come cooperativo e letteralmente “sociale”, posto che anche il lavoratore individuale sta in un rapporto sociale ma in un senso più ampio e diverso da come lo usiamo qui.
In un lavoro inteso come un processo individuale, il singolo lavoratore, pensiamo a un
contadino che lavora il suo piccolo pezzo di terra o a un artigiano nella sua bottega o a un violinista solista, (sto facendo tutti esempi presi da Marx in vari punti), l’individuo che lavora controlla se stesso e quindi mette in movimento i suoi muscoli sotto il cervello che li controlla. Perciò, qui lavoro intellettuale e lavoro manuale sono uniti. Ma successivamente queste sue funzioni, manuale e intellettuale, si scindono fino a diventare ostili e opposte. Infatti man mano che avanza lo sviluppo storico e al massimo grado nel modo di produzione capitalistico che è quello dove lo sviluppo del lavoro sociale è il più avanzato fino a ora, il lavoro diventa sempre più cooperativo e sempre più cooperativo su larga scala. Quindi il carattere del lavoro diventa sempre più sociale e il suo prodotto un prodotto sociale, cioè non il prodotto di un lavoratore individuale ma di un lavoratore complessivo, un lavoratore combinato. Qui il lavoro è diviso tra i vari membri del corpo lavorativo (manifattura, fabbrica industriale, rete produttiva), ciascuno dei quali fa la sua parte più o meno grande ed è parte di quell’organismo che è il lavoratore complessivo come le varie membra sono diverse ma sono parte di un uncico organismo e svolgono una diversa funzione.
A questo punto il concetto di lavoro produttivo che sopra è stato dato da Marx, vale non più per il singolo individuo ma per il lavoratore complessivo. Socialmente è produttivo non l’individuo che produce da solo con propri strumenti di lavoro individuali, ma quello che sta come una parte del lavoratore combinato, che è il vero produttore. Questo processo nell’età capitalistica si sviluppa dal momento in cui il capitale avvia la produzione del plusvalore relativo e quindi mette in movimento il lavoro sociale combinato, prima come cooperazione semplice, poi come manifattura e poi al massimo grado come grande industria: «Ormai per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue finzioni subordinate. La […] definizione del lavoro produttivo che è dedotta dalla natura della produzione materiale stessa, rimane sempre vera per il lavoratore complessivo, considerato nel suo complesso. Ma non vale più per ogni suo membro, singolarmente preso». Credo che ci possiamo rendere conto oggi facilmente di questo nel cambiamento del processo lavorativo. Per restare nel campo dell’istruzione, il mercato delle lezioni private può essere fiorente quanto si vuole, ma produttivo è il CEPU. La più bella e funzionante libreria tradizionale non è produttiva, Amazon sì, o almeno la libreria artigianale non è produttiva quanto Amazon. Produttivo significa: «la forza produttiva del lavoro, cosicché una stessa quantità di lavoro fornisca, a seconda del grado di sviluppo delle condizioni di produzione, una maggiore quantità di prodotti entro lo stesso tempo», dice Marx nel quindicesimo capitolo del Primo Libro del Capitale, intitolato «Variazione di grandezza nei prezzi delle forza-lavoro e nel plusvalore». Si tratta della capacità di sfornare più esami preparati o più libri venduti in minore quantità di tempo: è questo che fa il CEPU e Amazon che sono produttivi in questo senso, mentre e lo studente o il laureato disoccupato che fa lezioni private, o la libreria storica di Napoli Guida, che ha dovuto chiudere, sono improduttivi nonostante che chi dà lezione private o i lavoratori della libreria si ammazzino o si siano ammazzati di lavoro. E questo è un lato della questione.
E però nello stesso tempo – e sottolineo “nello stesso tempo”, giacché non si tratta di due lati separabili ma di due lati dello stesso lato, per così dire - questo processo lavorativo diventato processo lavorativo combinato, cambiando non la definizione di lavoro produttivo, ma il suo campo di applicazione cioè dal singolo all’operaio complessivo (non importa se materiale o immateriale): questo processo lavorativo socializzato, dicevo, è un processo lavorativo capitalistico , sta nel rapporto sociale capitalistico, cioè è funzione di un processo di valorizzazione, vale a dire funzione di un processo di produzione del plusvalore. E allora, se dal punto di vista del passaggio dal lavoro individuale del contadino o dell’artigiano al lavoratore complessivo, il concetto di lavoro produttivo si è allargato, sotto un altro aspetto, cioè in quanto il capitale è un processo di valorizzazione «il concetto di lavoro produttivo si restringe». Vediamo in che senso, con l’esempio che Marx stesso fa: «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori dalla sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale».
Ecco allora il punto: il capitale si muove in modo contradditorio nell’intendere il lavoro produttivo ed è questa contraddizione che lo porta alla sua crisi e alla necessità di passare a una nuova forma di società. Allo stesso tempo, simultaneamente: 1) allarga il concetto del lavoro produttivo, in quanto supera l’ambito ristretto del lavoro individuale caratteristico della proprietà privata diretta dei mezzi di produzione, come quello del lavoratore diretto agricolo o artigianale, e così concentra e successivamente centralizza i mezzi di lavoro e i prodotti del lavoro (non posso qui affrontare il rapporto tra concentrazione e centralizzazione dei mezzi di produzione, ma chi vuole saperlo lo chieda), nel senso che un lavoro utile e produttivo può essere eseguito solo socialmente e questo, ripeto è la nostra situazione odierna a tutti i livelli; 2) ma restringe l'ambito e il concetto stesso del lavoro produttivo facendolo coincidere con il lavoro che produce plusvalore dato che il plusvalore si produce sulla base «limitata» e «miserabile» del «furto del tempo di lavoro altrui», scrive Marx nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, ossia sulla base della proprietà privata. Questa va a bloccare e comprimere proprio le potenzialità insite in quel carattere sociale della produttività che in modo «involontario e passivo», scrivono Engels e Marx nel Manifesto del partito comunista, essa ha evocato come fa l’apprendista stregone, perché lo ha fatto solo per aumentare la produzione di plusvalore e invece così ha creato le condizioni per la crisi e il crollo del suo modo di produzione, inevitabile, quali che ne siano i tempi, sulla base scientifica della contraddittorietà del suo modo di sviluppo e non come una nostra attesa messianica.
Allora la situazione della lavoratrice scolastica (insegnante o amministrativa) è: il suo lavoro è lavoro produttivo nella misura in cui si estende sempre di più il processo di socializzazione del lavoro, il suo diventare cooperativo quanto al processo lavorativo, che rende improduttivo il lavoro eseguito solo individualmente e che resterebbe produttivo solo se fossimo in una società produttrice di merci e non in una società che produce il capitale ossia plusvalore. Quindi il suo lavoro è produttivo dato il possibile carattere generalmente sociale del lavoro che con la riforma della scuola e della pubblica amministrazione si estenderà sempre di più. Qui prescindiamo dal fatto che in questa socializzazione anche dell’istruzione e delle funzioni amministrative, molte funzioni che si hanno nella produzione capitalistica sono ridondanti, e saranno superate in un’altra forma di società. In ogni caso, la socializzazione del processo lavorativo, che il capitale involontariamente e passivamente compie, pone o tende a porre la lavoratrice della scuola che ha fatto la domanda nella situazione di essere produttiva solo in quanto parte organica, membro dell’operaio (impiegatizio, in questo caso) complessivo. Ma simultaneamente, essendo la produzione capitalistica produzione di plusvalore ( e oggi stiamo nel modo di produzione capitalistico di produzione di merci e non nella semplice produzione individuale di merci), il lavoro di questa lavoratrice è produttivo solo se, come insegnante o amministrativa, non importa, vende la sua forza-lavoro a un capitalista imprenditore della scuola che sfrutta ovvero ruba il suo tempo di lavoro per arricchirsi esattamente come farebbe per lo stesso scopo se fosse proprietario di una fabbrica di salumi o formaggi. E l’imprenditore o gli azionisti proprietari della scuola, possono passare a investire in salumi o scarpe o vigilanza o eserciti privati se i saggi del profitto sono lì maggiori, con le conseguenze che la lavoratrice in questione può immaginare, e la tendenza sarà tale che essa stessa sarà costretta a passare da un lavoro all’altro per essere “produttiva” (sic!) in questo miserabile significato.
Quindi, la lavoratrice che ha fatto la domanda, è produttiva solo se non si limita a lavorare le teste degli alunni, come insegnante, o a fabbricare certificati, bilanci, convocazioni di genitori ecc. come amministrativa, ma se al tempo stesso si logora di lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola: questo, non dimentichiamolo significa il fatto che la lavoratrice in questione “produce plusvalore”, ossia che ella è sfruttata, massacrata di lavoro e che la crescente innovazione e socializzazione del lavoro scolastico e amministrativo, le varie riforme in questo senso, le appaiono come capitale nella persona dell’imprenditore, del dirigente, dell’ispettore ecc., dunque da risorsa di crescita dell’uomo in quanto essere sociale, quali sarebbero potenzialmente, diventano una condanna. Se invece ella lavora in una scuola statale, non importa se meglio pagata o se pagata una miseria e sfruttata, allora non produce plusvalore. Malgrado l’aumento della produttività del processo lavorativo anche nella scuola statale, in quanto le riforme lo hanno reso socializzato nei mezzi di produzione e nei prodotti, ella è improduttiva relativamente al rapporto sociale capitalistico in cui questo lavoro è posto dal capitale stesso - contraddittoriamente, giacché un lavoro sempre più sociale è comandato dispoticamente in forma di proprietà privata dei mezzi di produzione..
Infatti mentre nel primo caso, di una scuola privata, il reddito della nostra lavoratrice si presenta come salario e ha la sua fonte nel capitale variabile, nel secondo caso, di una scuola statale, questo reddito proviene dalla redistribuzione del plusvalore tra le altre classi della società, in questo caso di quella parte del plusvalore che proviene dal tassazione che lo Stato fa (questo aspetto Marx lo mette in evidenza nel Libro secondo del Capitale analizzando il processo di riproduzione del capitale sociale complessivo).
Ciò non significa che il lavoro nella scuola statale sia migliore del lavoro presso un capitalista privato, perché comunque la scuola statale è di uno Stato che organizza gli interessi della classe dominante. Tuttavia il lavoro in una scuola statale poteva essere preferibile al lavoro in una scuola privata nei decenni precedenti, quando la borghesia si poneva ancora come classe dominante capace di rappresentare, sia pure ideologicamente, tutta la società, anzi, non del tutto illusoriamente, in quanto l’istruzione generalizzata e “pubblica”, pur entro Stato borghese, era frutto delle lotte e delle conquiste della classe proletaria. Adesso la fine della stagione di lotte, di vittorie e di sconfitte subite dal movimento proletario, nel bene e nel male, del secolo scorso, la borghesia si pone direttamente come classe particolare che esplicitamente fa il suo interesse particolare come classe dominante e perciò, proprio nel momento in cui essa sembra straripare e dominare senza freni, ha perduto proprio la sua capacità di rappresentare tutta al società (questo tema Engels e Marx lo hanno sviluppato nell’Ideologia tedesca). Infatti, essendo la borghesia attraversata dalla contraddizione per cui da un lato, per aumentare il plusvalore e quindi arricchirsi, mobilita tutte le forze produttive della società e rende il lavoro cooperativo, sociale, quindi produttivo solo se cooperativo, e al tempo stesso, dato lo scopo per cui questa produttività sociale è stata posta, nega questa stessa produttività sociale che ha creato suo malgrado, per cui l’essere produttivi significa creare plusvalore ossia la riproduzione della proprietà privata, considera la scuola, l’ospedale, l’amministrazione statale (del suo stesso Stato), insomma l’intero ambito che si chiama welfare, come faux frais de production, dice Marx, cioè come spese improduttive nel senso che il plusvalore usato per dare il reddito alla nostra lavoratrice della scuola, non può essere sprecato così, ma deve essere reinvestito per reintegrare e aumentare mezzi di produzione e lavoro vivo quindi per l’accumulazione, al netto delle spese di sussistenza del capitalista. E di conseguenza se, come da mille parti risulta, nella “famigerata” scuola statale, mediante lotte, lavoro, impegno, si spende lavoro sociale, si fanno esperienze educative di grande qualità ecc., chi lavora nella scuola pubblica diventa uno sfaccendato, un parassita ecc., e chi difende tutta quella socialità creata dalle lotte dei decenni precedenti e che ha dato effetti anche nella scuola, viene tacciato di conservatorismo, di difesa dei privilegi e di tutto il male possibile. Viceversa, si fa apparire progressiva non la socializzazione del lavoro che si è creata, ma la proprietà privata, sulla cui base è concepibile il plusvalore, cioè l’aspetto più regressivo e in definitiva improduttivo di questo movimento storico, in quanto la produttività misurata sul plusvalore prodotto comprime il concetto largo di produttività, quello derivante dalla socializzazione dei mezzi di produzione. Così sfugge il movimento dialettico per cui il concetto largo di produttività, dato dalla socializzazione dei mezzi di produzione che la borghesia ha messo in moto per arricchirsi, al tempo stesso è stato messo in moto dalla proprietà privata ed è ostacolato da questa stessa proprietà privata. E invece di approfondire la contraddizione in avanti cioè cercando un rapporto di proprietà più adeguato a favorire la socializzazione del lavoro nel senso ampio, cioè dello sviluppo dell’individuo come individuo sociale, premessa di un più ampio sviluppo individuale, si fa diventare progressiva al proprietà privata cioè l’elemento frenante. Il senso delle leggi sulla Buona scuola e della retorica dei sicofanti politici e intellettuali della borghesia che lo sostengono, sta tutto qui.
E così, con la privatizzazione a cui si sta avviando anche l’istruzione statale, la lavoratrice che ha posto la domanda passa sotto il giogo del capitalista, aumenta il suo lavoro superfluo, diminuisce il suo salario, rischia di essere messa sul lastrico se il suo pluslavoro non è richiesto direttamente dallo sviluppo del processo di accumulazione. Ma in questo caso non cesserebbe la sua funzione di operaia nella disoccupazione, giacché la sua funzione sarebbe quella di esercitare la pressione sugli occupati perché diano più lavoro sotto la precarietà a cui questa sovrappopolazione, creata apposta dal capitale, riduce al loro esistenza quanto più essi sono essenziali all’accumulazione capitalistica. Insomma questa lavoratrice sperimenterebbe in che senso, sotto il capitale, essere produttiva è una disgrazia per lei.
Ma i proletari, occupati e disoccupati, divenuti consapevoli del processo di rapina, di dominio, di sfruttamento che si mette in atto nei loro confronti, non devono risolvere ai padroni la contraddizione lavorando di più per loro, ma la devono accentuare agendo su quella produttività che il capitale passivamente scatena, cioè quella derivante dalla socializzazione dei mezzi di produzione come base per passare a una socialità dove, come si diceva sopra, il pieno sviluppo dell’individuo sociale è la condizione del libero sviluppo dell’individualità di ciascuno. Quindi devono strappare quei mezzi di produzione ai capitalisti, che fanno di quella produttività allargata in senso sociale una dannazione per il lavoratore invece di essere la base della sua libertà. Ciò significa esattamente il contrario di accettare quel lavoro sociale entro il rapporto capitalistico di produzione, perché qui esso è capitale e quindi solo dominio dispotico e sfruttamento. Rifiutando di logorarsi di lavoro, devono lottare per al riduzione del tempo di lavoro supplementare e per fare ciò con successo devono usare la sola arma che è capace di porre un freno alla brama di sfruttamento: il superamento della concorrenza tra occupati e disoccupati e la cooperazione tra loro. Solo su questa base si può poi procedere al rivoluzionamento di tutta la società. Questo mi pare il senso del discorso di Marx sul problema che la lavoratrice ha posto.

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