"Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa" - Marx "Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte".
Sembra - con i dovuti distingui dai grandi fatti storici descritti da Marx - quello che sta avvenendo per l'ex Ilva. Sia come avvenimenti (la prima volta si presenta con la "tragedia" dell'esplosione della questione della nocività ambientale, dell'azione e poi processo "Ambiente svenduto" della magistratura, della guerra di classe con tutte le sue contraddizioni; la seconda volta si presenta con la "farsa" del "gioco dell'oca" infinito del governo Urso/Meloni); sia, potremmo dire, come personaggi (la prima volta si presenta con la "tragedia" di padron Riva"; la seconda volta con la "farsa" dei possibili compratori della fabbrica che vogliono l'Ilva praticamente gratis, come il Fondo Bedrock americano che la vuole per 1euro, e con almeno il 50% degli operai in meno.
Ma sia "tragedia" che "farsa" nel sistema borghese vengono scaricati sugli operai e le masse popolari.
I PARTE
Nel 2012 “scoppia” l’inchiesta della Magistratura nei confronti di Riva. Essa si fonda su una perizia estremamente accurata che mette sul tappeto il fatto che questa fabbrica sta provocando disastri ambientali, migliaia di morti di tumore, in particolare nel quartiere Tamburi, e che pone un aut-aut: così non può più continuare. L’inchiesta punta così direttamente a fermare gli impianti dell’Ilva perché considerati causa di morte sul territorio.
In questa inchiesta, però la fabbrica vera non c’è. La fabbrica è vista come un blocco compatto di operai, azienda, capi, quadri, tecnici, ecc., mentre dall’altra parte c’è la città violentata dall’attività dell’Ilva. La Magistratura di Taranto ha avuto il merito di inchiodare la natura omicida del sistema Riva, del suo sistema di comando, che hanno portato al degrado una situazione già preesistente (da 35 anni quando la fabbrica era a partecipazione statale) e, per l’aspetto dei morti e malati operai, anche peggiore.
Ma anche per la magistratura gli operai sono fantasmi, si parla di impianti e non di operai. Vi è un primitivismo giuridico che fa diventare via via i problemi irrisolvibili e contribuisce ad acutizzare una contraddizione tra cittadini e lavoratori che hanno pagato il costo più alto in termini di salute.
La magistratura a Taranto negli anni passati in parte non aveva risposto alle denunce e alle mobilitazioni che ci sono state. Aveva fatto precedenti inchieste che potevano provocare altrettanti azioni dirompenti, per esempio l’inchiesta sui parchi minerali, sull’amianto che aveva abbracciato l’intero ciclo dell’Ilva chiamando in correità tutti i dirigenti dell’Ilva per 30 anni, ma queste inchieste non avevano trovato intensità, chi si è costituito parte civile è rimasto deluso, la magistratura aveva sollevato dei macigni e poi nulla.
Questa impostazione della magistratura, creando di fatto un conflitto tra l’esistenza stessa di questa fabbrica e il resto, è immediatamente sposata dagli ambientalisti locali impegnati su questo terreno, alcuni conosciuti e apprezzabili, in particolare Marescotti di Peace Link e Alta Marea che aveva già negli ultimi anni mobilitato i cittadini contro i danni dell’inquinamento. A loro si uniscono i Verdi di Bonelli che si candida a sindaco di Taranto, e viene a fare campagna elettorale dicendo che c’è un’emergenza ambientale e che l’Ilva va chiusa.
D’altra parte, nella fine a Taranto delle organizzazioni di tipo antagonista già prima degli ultimi avvenimenti, vi era stata una svolta di tipo ambientalista legata alle battaglie ambientaliste combattute a
livello nazionale, contro le discariche, ecc., per cui organismi politici una volta antagonisti si erano trasformati in comitati che guardano a queste battaglie come le uniche che coinvolgerebbero il popolo e su queste concentrano le loro energie e attività. A questi si saldano pezzi della tifoseria calcistica - un settore degli ultrà tarantini, tra cui anche giovani operai dell’Ilva, aveva come figura di riferimento un ragazzo, militante antifascista di orientamento rivoluzionario, che diventato capo ultrà diffonde attenzione ai problemi della città, dei tarantini, con il mito della tarantinità, e della città violata e abbandonata, ecc. La morte di questo giovane capo ultra salda questo gruppo di tifosi alla causa ambientalista.Nasce così uno strano fronte di ambientalisti, ultrà, ex-antagonisti, che usando l’inchiesta della Magistratura sostiene a spada tratta che l’Ilva va chiusa, che la presenza storica dell’Ilva ha distrutto Taranto, che invece era città marinara, dedita alle cozze, al turismo, all’agricoltura, ecc. Non si tratta solo di un movimento contro l’inquinamento ma un fenomeno culturale di reviviscenza del tarantinismo, della Taranto che fu.
Tra questi vi è storicamente una componente antioperaia, i verdi, una parte degli ambientalisti, che guarda le cose con una lente di ingrandimento, e fa una descrizione di Taranto come di una città che sta morendo, per cui o chiude l’Ilva o non se ne viene a capo.
Il 15 febbraio. Il 15 febbraio c’è la prima manifestazione al Tribunale. Anche sorprendentemente partecipa una marea di persone, circa 5000 mila: studenti, principalmente, accanto a settori di cittadini ambientalisti; mentre mancano i sindacati e gli operai, compresi quelli che poi daranno vita al Comitato lavoratori cittadini liberi e pensanti.
Lo Slai cobas per il sindacato di classe partecipa con le parole d’ordini: “l’inchiesta deve andare a fondo”, “vogliamo un altro processo tipo Eternit, che condanni i padroni e li costringa a pagare”. Queste indicazioni trovano un ampio sostegno.
Di fronte all’emergere di questa situazione, l’azienda reagisce in forme inedite. L’azienda in prima persona, nella sua struttura organizzata, capi, quadri, tecnici ecc. organizza direttamente i lavoratori, scavalcando completamente le organizzazioni sindacali confederali, già compiacenti.
In fabbrica lo Slai cobas fa una aperta campagna per contrastare questa azione di Riva che si manifesta soprattutto attraverso l’allarmismo verso gli operai sugli effetti dell’inchiesta sul mantenimento dei posti di lavoro.
Il 26 febbraio, Cgil, Cisl, Uil, temendo di essere scavalcati dall’aziendalismo padronale organizzato, convocano un’assemblea degli operai Ilva retribuita sotto la Prefettura, dove consegnano un documento che invece di denunciare l’attacco alla salute che continua da parte dell’azienda, evidenzia positivamente e difende gli investimenti e gli interventi in materia di sicurezza e ambiente fatti da Riva.
Il 30 marzo, la campagna allarmista e filo aziendale trova il suo culmine con la “marcia degli operai”, contro il Tribunale, organizzata dai capi, quadri, dirigenti dell’Ilva. Nei giorni prima i capi organizzatori della marcia girano nei reparti e tappezzano la fabbrica con centinaia di comunicati, si firmano: ‘Lavoratori Ilva – pensiero libero’ una formulazione che ricorda troppo espressioni di stampo fascista (ma la storia si diverte: qualche mese dopo quelli dell’Apecar si chiameranno “Comitato cittadini lavoratori liberi e pensanti”…)
Questa marcia raccoglie circa 8000 operai, che escono dalla fabbrica come soldatini di un film di Chaplin, tutti con la tuta nuova e pulita, il kit da manifestazione dato dall’azienda, gli striscioni tutti uguali fatti stampare dall’azienda; una marcia che rivendica la salvezza dell’Ilva, la salvezza del lavoro, la difesa di un’azienda “buona”, che ha realizzato progressi e che i giudici invece vogliono chiudere.
Si crea una contrapposizione estremamente lacerante. In questa fase l’aspetto più dannoso non è l’emerge del fronte giovanile, ambientalista antioperaio, quanto l’emergere di questo aziendalismo attivo che organizza gli operai come se fossero un esercito a difesa della fabbrica.
Lo Slai cobas per il sindacato di classe in questa occasione dà indicazione in fabbrica di non partecipare alla manifestazione dei capi, e organizza un presidio al Tribunale che viene vietato dalla Questura.
Questa volta al Tribunale ci sono molti meno giovani che in febbraio e cominciano a diventare evidenti le differenze: gli ambientalisti dicono di lasciar lavorare in pace i giudici e non organizzano alcuna presenza, un’area di movimento (rappresentanti di studenti, ex Cloro rosso, Comitato di quartiere, ecc.) che si denomina “assemblea popolare tarantina” e già inizia a fare discorsi antioperai e nostalgici della Taranto che fu, viene al Tribunale, accetta i divieti della questura, e su questo avviene una contrapposizione con lo Slai cobas, non solo sulla pretesa di quest’area di non volere le bandiere, ma sul fatto che il divieto illegittimo della Questura di manifestare al Tribunale non si può e non si deve accettare, tanto che i lavoratori Slai cobas di fatto non lo accettano, occupano la strada e rendono difficile il traffico.
Rispetto alla marcia organizzata da azienda e capi, questi lavoratori Slai cobas fanno una forzatura sulla polizia per consegnare un esposto in Tribunale contro l’iniziativa dell’azienda. Con l’esposto si chiede alla magistratura di perseguire gli organizzatori della marcia per “iniziativa illegale e sediziosa”.
Alla manifestazione filo aziendale solo i lavoratori iscritti allo Slai cobas dicono di non andare; la situazione più significativa avviene al porto, dove gli operai apertamente rifiutano di uscire dal reparto, capeggiati proprio da Aldo Ranieri che all’epoca stava nel cobas Ilva e poi diventerà massimo esponente dei “Liberi e pensanti”
I sindacati confederali il 30 marzo sono o silenti o si inventano dei convegni.
La responsabilità dei sindacati confederali all’Ilva è altissima, la loro politica e azione ha permesso che si arrivasse a questo punto, in una fabbrica che già ha il primato dei morti sul lavoro: 47 solo per infortuni nei 17 anni di gestione Riva. L’Ilva è diventata, anche per questi sindacati, una fabbrica in cui è quasi normale morire, ammalarsi di tumore, di fatto avallando l’idea di padron Riva degli infortuni come “accidenti normali” in una fabbrica di quasi 20 mila persone: “non succedono gli incidenti anche in un paese di 20 mila abitanti?”, dice in un intervista patron Riva. Tant’è che Emilio Riva, che non si è mai presentato nei processi, molti, a suo carico, si è voluto presentare al processo, su sua querela, contro la rappresentante dello Slai cobas considerata “mandante” di una scritta alla fabbrica “Riva assassino”, perché riteneva “sinceramente” ingiusto che lo si chiamasse “assassino”, lui che, come imprenditore, aveva solo il problema di produrre acciaio e non quello di badare alla città…
A livello nazionale, mentre noi facciamo un’analisi di classe su ciò che sta accadendo, molte forze, anche rivoluzionarie, dopo il 30 marzo assumono una posizione moralista verso gli operai.
Riva non sta fermo. Organizza una campagna mediatica: “Ilva ha un mondo dentro”. Al di là del risultato relativo della campagna, questa ha effetti sulla stampa e sulla politica, allora si era in campagna elettorale. Il ‘braccio pubblico’ di Riva, Archinà, poi sotto inchiesta per aver corrotto, “guidato” verso gli interessi di Riva, rappresentanti di Enti, Istituzioni, politici, sindacalisti, stampa, e anche magistrati, distribuisce soldi a giornali, partiti, dà indicazioni di voto, ecc. E nessuno dice nulla su questo.
Questa iniziativa offensiva dell’Ilva, in realtà mostra un Riva sulla difensiva, una situazione in cui gli operai, se organizzati, avrebbero potuto prendere l’iniziativa. Noi facciamo i soliti ‘Davide contro Golia’, che dicono a tutti che Golia si può colpire.
Il nascente cobas Ilva è ancora troppo giovane e da organizzare, attrezzare stabilmente perché possa svolgere un ruolo effettivo in questa “guerra di classe”, e ne viene in parte sfiduciato e disorganizzato.
L’azione congiunta Riva/capi è il vero “inquinamento”, la “tempesta perfetta” creata dall’azienda di cui liberarsi e, se gli operai non si impongono per fermare Riva, è Riva che mette a rischio la fabbrica.
A inizio estate 2012 avviene il cambio tattico del gruppo dirigente in Ilva, con la nomina di Ferrante a cui corrisponde a una posizione più interlocutoria verso la magistratura e le Istituzioni. Questa posizione ha un effetto verso le Istituzioni sia locali che nazionali che sempre più cominciano a parlare dell’Ilva come una sorta di “istituzione oggettiva”, in cui non ci sono responsabilità di Riva, ma solo la grande fabbrica e le sue implicazioni a livello di economia nazionale e internazionale.
La contrapposizione dei due fronti, cittadino/ambientalista e di fabbrica/aziendalismo, scompagina anche la situazione in fabbrica per quanto riguarda il tessuto sindacale: i sindacati confederali, in particolare Fim e Uilm, per non perdere presa sulla fabbrica e il rapporto coi padroni, diventano forma sindacale mediata del ruolo che l’azienda in prima persona, attraverso capi e struttura dirigenziale, svolge in fabbrica.
La Fiom quasi sparisce dalla fabbrica, alcuni suoi ex delegati, che sono andati maturando una profonda sfiducia vero i loro compagni di lavoro – e la stessa marcia del 30 marzo glielo conferma – passano armi e bagagli sulle posizioni degli ambientalisti. Assistiamo qui al singolare fenomeno di operai di avanguardia che dicono che il sindacato in quanto tale non è cosa buona e che loro non possono considerarsi operai ma “cittadini”, e in quanto cittadini hanno una missione da compiere: la salvezza della città, dato che proprio con quella marcia gli operai hanno anzi dimostrato di essere dei complici, corresponsabili di quanto accaduto in fabbrica e provocato dalla fabbrica. Questi ex delegati diventano dal 2 agosto 2012 i principali esponenti del ‘Comitato lavoratori cittadini liberi e pensanti’.
Ma c’è da sgomberare subito una falsa immagine. Non è vero che gli operai non avrebbero lottato sul terreno della sicurezza e della salute, e quindi, come dicono i ‘Liberi e pensanti’, dovrebbero sentirsi colpevoli verso la popolazione, verso i bambini, ecc.; gli operai Ilva negli anni hanno fatto molte lotte, anche dure, ma sono statati schiacciati e sconfitti grazie a un sistema di cogestione dei sindacati confederali e di isolamento da parte della città, Istituzioni, e della stessa magistratura.
Questa situazione toglie terreno al sindacalismo di classe, e lo Slai cobas che è l’unica struttura sindacale di base esistente in fabbrica, anche se con una presenza molto debole e contrastata attivamente, rimane schiacciato fra questi due fuochi. Se vuoi parlare con gli operai devi partecipare ad iniziative in cui ci sono gli aziendalisti, lì c’è il grosso degli operai, se invece sposi la causa cittadina/ambientalista, diventi sostenitore non solo della chiusura ma dell’azzeramento della storia non solo della fabbrica ma della classe operaia, delle sue lotte.
Questo tipo di schieramento produce un fenomeno significativo: Aldo Ranieri, ex delegato Fiom, che si era iscritto allo Slai cobas, scrive allo Slai cobas una lettera a metà luglio in cui dice: subisco troppe pressioni, non riesco a difendermi, non si riesce a fare il cobas in fabbrica.
Francesco Rizzo, ex delegato e distaccato Fiom, fa anche di più e di peggio, se Ranieri si espone in prima persona, parla come operaio amato e rispettato da altri operai, Rizzo ragiona come burocrate sindacale che sposta pacchetti di tessere. Dopo aver promesso lo spostamento di queste tessere verso lo Slai cobas, che gli ricorda sempre che la costruzione di un sindacato di classe non è un problema di tessere ma di partecipazione degli operai, va nella sua sede e dice: “mi sono consultato con la famiglia, mi dicono che così finisco licenziato, la Fiom sta per espellermi... posso trovarmi da un giorno all’altro allo scoperto, quindi mi iscrivo alla Fim” e si porta in dote 200 iscritti (La stessa cosa che fa dopo con il passaggio all’USB); ma va oltre, affermando anche sui giornali nazionali che la Fiom è un sindacato dove non c’è democrazia perché “comunista – stalinista”, e che, invece, è nella Fim che ha trovato la “vera democrazia”.
Tra gli operai, lo Slai cobas per il sindacato di classe fa una campagna perchè riconoscano chi sono i loro veri amici e i veri nemici, e pone con forza la questione centrale dell’autonomia di classe, di linea, di organizzazione, di lotta. Evidenzia l’incompatibilità oggettiva non tra lavoro e salute, ma tra salute-lavoro e produzione capitalista (“nocivo è il capitale non la fabbrica”), il cui sistema fondato sul profitto sempre e comunque, in tutte le fabbriche, occorre rovesciare.
L’inchiesta intanto va avanti, a livello cittadino scoppia una vera fan-mania verso il giudice che finalmente ha colpito l’Ilva, ma intanto in fabbrica la cosa è vissuta con terrore: gli operai fanno le vedette a sorvegliare che non arrivino i carabinieri a sequestrare gli impianti.
I due giorni di blocchi e rivolta del 26/27 luglio... (CONTINUA)


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