Engels su Proudhon tratto dal testo "La questione delle abitazioni".
"...E
il troglodita con la sua caverna, l'australiano con la sua capanna
d'argilla, l'indiano con il suo proprio focolare avrebbero mai potuto
compiere una sommossa di giugno e una Comune di Parigi?
Che, da
quando la produzione capitalistica ha cominciato a svolgersi su larga
scala, la condizione degli operai sia divenuta in complesso peggiore dal
punto di vista materiale, non lo mette in dubbio solo il borghese. Ma per questo forse dobbiamo guardare bramosamente indietro
alle (peraltro assai magre) pentole d'Egitto, cioè alla piccola
industria rurale, che produceva solo anime di schiavi, oppure ai
"selvaggi"? Al contrario. Soltanto il proletariato creato dall'industria
moderna, liberato da tutte le catene ereditarie, anche da quelle che lo
inchiodano alla terra, solo il proletariato pigiato nelle grandi città è
in grado di compiere la grande trasformazione sociale che metterà fine
ad ogni sfruttamento di classe e ad ogni dominio di classe. I
tessitori campagnoli di un tempo, con casa e focolare, non sarebbero mai
stati in grado di farlo, non avrebbero potuto concepirne nemmeno il
pensiero, e ancor meno attuarlo.
Per
Proudhon, invece, tutta la rivoluzione industriale degli ultimi
cent'anni, il vapore, la produzione su larga scala, che sostituisce il
lavoro manuale con le macchine e moltiplica la capacità produttiva del
lavoro, è un evento quant'altro mai increscioso, qualcosa che non
avrebbe dovuto mai accadere. Il piccolo borghese Proudhon vuole un
mondo in cui ciascuno porti a compimento un prodotto tutto suo,
autonomo, che sia immediatamente adoperabile e scambiabile; solo se
in tal modo ciascuno recupera il pieno valore del suo lavoro in un altro
prodotto, si sarà soddisfatto all'"eterna giustizia" e realizzato il
migliore dei mondi. Ma questo mondo migliore proudhoniano è già stato
schiacciato in boccio dal piede del progressivo sviluppo industriale,
che da tempo ha abolito il lavoro singolo in tutti rami maggiori della
grande industria e va abolendolo giorno per giorno anche nei minori e
minimi; al suo posto mette il lavoro sociale, sostenuto da
macchinari e da forze della natura assoggettate, un lavoro il cui
prodotto, immediatamente scambiabile o adoperabile, è l'opera comune di
più singoli, per le mani dei quali esso ha dovuto passare. Ed è proprio grazie a questa rivoluzione industriale che la capacità produttiva del lavoro umano ha raggiunto un simile apogeo,
che - per la prima volta da quando esistono uomini - è data la
possibilità, con una intelligente ripartizione di lavoro fra tutti, non
solo di produrre a sufficienza per il lavoro abbondante di tutti i
membri della società e per un cospicuo fondo di riserva, ma altresì di lasciare ad ogni singolo sufficiente tempo libero
perché si conservi quanto vale realmente la pena di conservare di ciò
che costituisce la cultura storicamente tradizionale (scienza, arte,
rapporti umani ecc.), e non solo di conservarlo, ma di trasformarlo da
un monopolio della classe dominante in un bene comune della società
intera, e di accrescerlo. E qui sta il punto decisivo.
Non
appena la capacità produttiva del lavoro umano si sviluppa fino a
questo apogeo, sparisce ogni pretesto per l'esistenza di una classe
dominante. La ragione con cui si sosteneva la differenza di classe,
infatti, è stata sempre questa, in fondo: deve sempre esservi una classe
che non sia costretta a tormentarsi per la produzione del proprio
mantenimento quotidiano, per avere tempo di curare il lavoro
intellettuale della società. A questa fanfaluca, che finora ha avuto una
sua grande giustificazione storica, ha tagliato le radici una volta per
tutte la rivoluzione industriale degli ultimi cent'anni. L'esistenza
di una classe dominante diviene ogni giorno di più un ostacolo allo
sviluppo delle forze produttive industriali e, non meno, a quello della
scienza, dell'arte, e segnatamente di ben ordinari rapporti umani.
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