domenica 25 dicembre 2022

pc 25 dicembre - Gramsci voce della classe operaia/lotta al fascismo/internazionalismo proletario

A 100 anni dalla strage di Torino del 18 dicembre del 1922

La fabbrica Ferrero a Mosca

Antonio Gramsci | Opere Vol. 12 - La costruzione del Partito Comunista (1923-1926)
Trascrizione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

marzo 1924

Articolo scritto da Gramsci su racconto di G. Parodi

È trascorso più di un anno dai dolorosi giorni di terrore che la classe operaia torinese ebbe a subire nel dicembre 1922, quando la bestialità scatenata dal fascismo fece rivivere la barbarie e la malvagità più insensate delle epoche primitive, mostrando anche ai più arretrati e ignoranti lavoratori cosa significhi dominio della borghesia, della classe cioè che presume e si vanta di essere l'ultima e più perfetta sintesi dell'incivilimento umano. Il fascismo era già al potere da circa due mesi.

Tutto l'apparato repressivo dello Stato, magistratura, polizia, esercito, era ormai nelle sue mani e poteva essere messo in movimento per «vendicare» la morte dei fascisti Dresda e Bazzani, caduti in un conflitto di cento contro uno che si difendeva.

Perché scatenare tanta raffinata ferocia, una cosi sadica crudeltà contro operai inermi, contro intere famiglie, contro elementi che di rivoluzionario non avevano che la loro condizione sociale di proletari? Qual è stata la ragione storica - politica e sociale - di questo episodio di frenetico terrore?

Una grande città proletaria

Torino, diventata con lo sviluppo dell'industria automobilistica, una città di grande accentramento proletario aveva dimostrato con tutta una serie di scioperi: - settimana rossa del giugno 1914, sciopero generale contro la guerra del maggio 1915, insurrezione armata dell'agosto 1917, sciopero di solidarietà coi tecnici d'officina dell'aprile 1919, azione in grande stile contro la canaglia nazionalista e militarista del 2 dicembre 1919, grande sciopero dell'aprile 1920 per la libertà d'azione dei Consigli di fabbrica - aveva dimostrato di aver saputo amalgamare e di aver saputo dare una unità rivoluzionaria ai 150.000 operai che lo sviluppo capitalistico aveva concentrato nelle sue fabbriche, attirandoli da tutte le regioni d'Italia.

La Camera del lavoro si è trovata, nel dopo guerra, ad essere affollata dagli operai di tutte le categorie, dal manovale, all'impiegato, all'ingegnere, raggruppati in circa 8o sindacati professionali. Le masse si avvicinavano con entusiasmo alla Camera del lavoro, perché comprendevano essere quella la via per formare un blocco unico e compatto contro il capitalismo, sfruttatore di tutti i lavoratori; ma la massa comprese anche che la Camera del lavoro e l'organizzazione corporativa non erano sufficienti

per condurre l'assalto contro tutti i campi trincerati della borghesia e specialmente per liberare la classe operaia stessa dal controllo soffocante dei riformisti.

Per interessare le grandi masse alla lotta, per infondere anche negli strati più arretrati della classe operaia l'entusiasmo rivoluzionario, per attirare all'avanguardia rivoluzionaria la simpatia dei tecnici e degli specialisti, bisognava trasportare dalla quistione dei salari, alla quistione dell'autonomia industriale il fulcro della lotta di classe; bisognava portare nella fabbrica stessa e negli organismi operai di fabbrica lo spirito di rivolta e la volontà di emancipazione.

Cosi nacque e si sviluppò meravigliosamente il movimento dei Consigli di fabbrica, che riuscì a dare alla massa un'invincibile organizzazione di combattimento, una energia, un coraggio, uno spirito di resistenza che nessun tradimento riuscì a distruggere, nessuna sconfitta riuscì a fiaccare. La Camera del lavoro si rafforzò in conseguenza del movimento innovatore; si rafforzò come complesso di organizzazioni professionali perché ci fu incremento di soci, contro le catastrofiche previsioni della burocrazia riformista e si rafforzò come potenza sindacale, riuscendo cosi a imporre agli industriali patti di lavoro e condizioni morali talmente favorevoli agli operai, da scandalizzare e interrorire gli industriali degli altri centri italiani.

La categoria dei metallurgici, che era diventata il perno di tutto il proletariato torinese, era specialmente odiata sia dagli industriali che dai funzionari riformisti della Confederazione generale del lavoro. Il movimento dei consigli, con le sue assemblee dei commissari di reparto che dimostravano tanto spirito pratico e positivo unito al più fervido entusiasmo rivoluzionario, accentrato nel Comitato di studio, appariva agli industriali e ai funzionari riformisti come una macchina infernale che stava per cacciarli via gli uni dagli uffici di direzione delle fabbriche e gli altri dalle prebende sindacali.

La classe operaia torinese (e specialmente gli operai metallurgici) si trovò cosi di fronte due nemici, che si allearono anche pubblicamente. Nella Conferenza nazionale del Partito socialista, tenuta a Firenze nel gennaio-febbraio 1920, Giuseppe Bianchi pose apertamente la questione, a nome della Confederazione generale del lavoro e implicitamente degli industriali: egli domandò che la direzione del partito proibisse ai torinesi di portare la loro propaganda e l'organizzazione dei consigli oltre le mura della loro città e annunziò quindi agli industriali che gli operai di Torino erano posti fuori legge dalla Confederazione.

Ai primi di marzo, immediatamente dopo, si riunì a Milano la prima Conferenza nazionale dell'industria italiana, che doveva essere la costituente della Confederazione generale dell'industria. Si iniziava cosi ufficialmente in Italia l'offensiva del capitalismo; i capitalisti scissi sulla questione della guerra, si rappacificavano; il gruppo piemontese, sostenitore dell'on. Giolitti, che era stato neutralista e disfattista pur accumulando enormi extra-profitti di guerra, ritornava a dominare il campo industriale, attraverso la persona del suo patrono politico. Ma il gruppo lombardo-ligure-emiliano pose una condizione tassativa alla accettazione del nuovo patto d'alleanza che doveva essere alla base della costituenda Confederazione: la lotta immediata, senza quartiere, contro i Consigli di fabbrica.

Il Partito socialista, prigioniero dei funzionari sindacali riformisti, non volle vedere il pericolo che correva tutta la classe operaia italiana e non solamente Torino proletaria. Lo spirito di frazione, l'angusto odio corporativo dei riformisti ebbe il sopravvento sulla solidarietà e sugli interessi rivoluzionari. Torino fu abbandonata alle iniziative strategiche dell'on. Olivetti e del comando di corpo d'armata, e gli operai metallurgici, dopo un mese di sciopero, culminato in dieci giorni di sciopero generale regionale con la partecipazione dei ferrovieri e di tutte le categorie della città e della campagna, dovettero cedere.

Non fu più possibile convocare il Congresso nazionale delle fabbriche italiane, che il comitato di studio dei Consigli aveva cominciato a organizzare prima del grande sciopero di aprile, non fu più possibile rispondere alle minacce degli industriali e dei funzionari riformisti con l'allargamento del campo di battaglia, con la creazione di un comitato centrale nazionale dei Consigli di fabbrica e delle commissioni interne: nel campo nazionale gli operai torinesi erano stati battuti; alla formidabile organizzazione degli industriali e dei funzionari confederali non erano riusciti a contrapporre neppure una mozione di solidarietà della direzione del Partito socialista; come avviene dopo ogni sconfitta, nel seno stesso della sezione socialista locale, si erano rivelati disaccordi gravi e una parte dei rivoluzionari ondeggiavano verso i riformisti, accettandone le critiche ambigue dello sciopero di aprile.

Ma a Torino il movimento non rallentò la sua marcia ascensionale: la lotta fu ripresa con nuovi metodi; nuovi dirigenti furono dati alle organizzazioni professionali, valorizzando gli elementi operai rivelatisi nei Consigli di fabbrica; la Camera del lavoro di Torino e provincia fu sbarazzata dei vecchi funzionari, servitori fedeli dei grandi mandarini confederali; nella sezione socialista un'azione combinata della frazione astensionista e del gruppo di educazione comunista riuscì a sbloccare il centro staccando gli elementi rivoluzionari dai semi-riformisti e dai serratiani.

L'esperienza torinese

Da allora fino ad oggi, gli spodestati funzionari confederali sistematicamente sabotarono tutte le iniziative della Camera del lavoro, a tutto danno della classe lavoratrice e a beneficio del fascismo nascente e trionfante. Essi, di nascosto e all'infuori delle trattative ufficiali, facevano dei compromessi con gli industriali e col governo, preparando le sconfitte dei movimenti; naturalmente poi gli scacchi erano addebitati alle utopie e ai sistemi di lotta dei dirigenti comunisti.

L'occupazione delle fabbriche e le agitazioni che seguirono furono tutte soffocate non tanto dalla forza del capitalismo, quanto dal sabotaggio esercitato dalla Confederazione generale del lavoro. Tutti questi movimenti, specialmente l'occupazione delle fabbriche, anche se in parte hanno segnato delle sconfitte, lasciarono tracce profonde sia nella classe lavoratrice che nella borghesia.

Gli operai torinesi acquistarono una esperienza sana dell'azione rivoluzionaria di massa. Per le vittorie ottenute non si sono mai esaltati, per le sconfitte non si sono mai scoraggiati. Avevano contro di sé una borghesia abilissima, che è stata sempre indipendente dal dominio straniero ed ha acquistato, attraverso secoli e secoli di esercizio di governo, una capacità straordinaria nel dominare tutte le situazioni e nel disgregare gli avversari: dovevano conquistare un apparecchio industriale dei più perfezionati e accentrati non solo d'Italia ma dell'Europa; perciò non si sono mai illusi che il compito fosse facile e tanto meno che fosse attuabile indipendentemente dal movimento generale rivoluzionario italiano.

Tutta la campagna condotta dai riformisti e dall'«Avanti!» contro Torino - campagna assurda, nella quale per combattere un campanilismo inesistente e che non può storicamente esistere in un centro industriale moderno, si risvegliavano e si acuivano i campanilismi purtroppo esistenti nelle borgate e nei villaggi contadineschi - non ottenne lo scopo che si prefiggeva: scindere le masse, isolare i comunisti, impedire che le simpatie guadagnatesi dal proletariato torinese con le sue epiche lotte creassero un ambiente favorevole all'organizzazione del Partito comunista.

Gli operai torinesi rimasero sempre e tuttora rimangono tenacemente attaccati al Partito comunista, che è nato anche per opera loro, che è carne della loro carne e sangue del loro sangue. Nel mese di novembre 1922, dopo la marcia su Roma delle schiere fasciste, dopo l'avvento di Mussolini al potere, ancora una volta gli operai torinesi vollero dare una prova di questa fedeltà, di questo loro attaccamento al partito della rivoluzione proletaria, riversando la maggioranza dei voti sui candidati comunisti alla Cassa di disoccupazione dei metallurgici.

L'eccidio del dicembre 1922

La borghesia torinese ha ben compreso il significato di tutto ciò, e lo ha compreso il fascismo italiano, che non si è azzardato di attaccare di fronte Torino proletaria, ma ha atteso di avere il potere governativo in mano, di aver vinto su tutta la linea, per vibrare il colpo del sicario.

Molti bravi compagni avevano dovuto abbandonare la città dopo lunghi periodi di disoccupazione, molti altri erano stati arrestati e languivano in carcere. I fascisti allora scatenarono il terrore, per spezzare fino il cuore agli operai torinesi, per annientarli come classe rivoluzionaria, per incutere il panico nelle donne e nei bambini, per farla finita una buona volta con questi uomini che parevano d'acciaio temprato a tutte le avversità e a tutti i colpi della fortuna. I 50 assassinati nello spazio di 48 ore dimostrano la fretta, la paura, la non sicurezza di vincere dei fascisti. Essi temevano le conseguenze dei loro stessi atti e ciò li spingeva ad allargare la strage, ad assassinare qualunque operaio capitasse loro sottomano.

Cominciarono con la fucilazione del compagno Berruti, e con l'abominevole massacro del compagno Pietro Ferrero, che fu torturato, al quale furono strappati gli occhi con furia cannibalesca, che fu legato a un camion e trascinato a grande velocità sul selciato e abbandonato in corso Vittorio, ammasso di carni sanguinolenti irriconoscibili fino alla famiglia: continuarono la loro opera di assassini a casaccio, perché così era necessario, perché ogni operaio dovesse aver paura, perché si spezzasse ogni legame di solidarietà tra proletario e proletario, perché ognuno temesse di vedere nel proprio simile il proprio carnefice.

Ma i fascisti non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi. Essi riuscirono solo a scavare un abisso anche più profondo tra la classe operaia e la borghesia, tra la classe operaia e il regime di Mussolini. Invano il Gran Consiglio fascista biasimò gli autori del massacro, invano i signori Mario Gioda e Massimo Rocca, ex operai, ex anarchici, ex uomini, inviarono corone di fiori ai funerali del compagno Berruti; invano il signor Pietro Gorgolini cercò di scindere le sue responsabilità. Tutti questi signori continuano a stare nello stesso partito con gli assassini e coi loro mandanti, i quali son liberi, godono ancora la luce e il calore del sole, mentre i compagni Ferrero e Berruti, dilaniati, giacciono nella profonda terra e i loro famigliari sono rimasti senza sostegno.

Il regime fascista non ha osato e non ha voluto punire gli assassini. Il sangue dei nostri morti soffocherà tutta questa canaglia antioperaia.

Ferrero

La classe industriale torinese e il mandariname della Fiom ebbero cosi la loro vendetta. Cosa rappresentava il compagno Ferrero? Egli era il rappresentante più volenteroso e onesto della unità rivoluzionaria del proletariato torinese. Anarchico convinto, egli accettò di essere segretario della sezione metallurgica, nella sua stragrande maggioranza composta di comunisti, perché volle a ogni costo evitare una scissione sindacale a sinistra, perché volle con la sua persona, col sacrificio di una parte delle sue idee, evitare che tale iattura si verificasse. Quale insegnamento per tanti piccoli uomini che la loro vanità mettono innanzi agli interessi della classe operaia!

Fu un compagno, un fratello di noi comunisti, che lo ammiravamo e ce lo indicavamo come un modello da imitare; egli lavorava con noi, con grande semplicità, accettando consigli, partecipando anche alle riunioni della Commissione esecutiva del partito, quando vi si discuteva la situazione, le misure da prendere, l'indirizzo da seguire, esprimendo la sua opinione che spesso era accettata e diventava quella della sezione comunista nel suo complesso.

Il sangue di Pietro Ferrero ha suggellato tra comunisti e anarchici torinesi un patto di unità e di fraternità che nessun intrigo di ambizioni riuscirà più a spezzare. Organizzatore onesto e serio, invano gli industriali metallurgici e i mandarini della Fiom tentarono di corromperlo, di farne un funzionario sindacale secondo il conio confederale. Ferrero ha sempre testualmente risposto: - Sono qui per difendere gli interessi e le aspirazioni degli operai metallurgici e li difenderò fino a quando essi vogliono che io rimanga a questo posto. Ritornerò in fabbrica a riprendere il mio mestiere non appena i metallurgici avranno scelto elemento più capace della mia modesta persona.

In molte occasioni il Ferrero seppe sventare intrighi e compromessi che la Fiom e la Confederazione generale del lavoro imbastivano con gli industriali, impedendo cosî che altri tradimenti si verificassero. Gli industriali avevano ben compreso che il Ferrero era l'anima degli operai e che non sarebbe mai diventato un loro collaboratore: perciò lo segnarono nella lista dei condannati a morte consegnata agli esecutori, loro mercenari.

Ciò hanno ben compreso gli operai: essi sanno e ricorderanno sempre perfettamente che se gli uccisori materiali sono stati i fascisti, i mandatari dell'uccisione, i finanziatori dell'orgia scellerata sono stati gli industriali, i padroni. Gli operai metallurgici torinesi non dimenticano questo, come non dimenticano che il giorno della sepoltura del loro segretario dovettero forzatamente rimanere inchiodati ai loro banchi di lavoro, alle loro macchine, senza poter partecipare all'accompagnamento funebre di chi tanto aveva fatto per loro, di chi la vita aveva perduto nella lotta per l'emancipazione proletaria.

Ricordo di aver incontrato, in quei giorni, moltissimi miei vecchi compagni di fabbrica; tutti, col più profondo dolore e coi denti stretti per la più santa collera, dicevano: - Nel giorno della sepoltura del nostro difensore, di Ferrero, siamo rimasti tutti al nostro posto di lavoro, non per viltà, non perché avessimo dimenticato il Ferrero e la sua opera, ma per un fenomeno mai prima provato, di sconforto, di sconcertamento; inoltre, i compagni comunisti e i membri delle commissioni interne erano stati licenziati; passò sulle officine come un'ondata di raccapriccio che paralizzò tutto, come si dice avvenga dopo i terremoti. Ma il nostro pensiero era rivolto a Ferrero e il suo nome correva sulle bocche di tutti. Allora tutti i lavoratori fecero un sacro giuramento: vendicare Ferrero e tutti gli altri compagni massacrati dalla borghesia.

Altri dicevano: - Queste nefandezze non potranno mai essere dimenticate dalla classe operaia. La classe che si è macchiata di delitti così abominevoli è già condannata dalla storia. Noi attendiamo con fede e con ferma volontà il giorno della giustizia.

La fabbrica Ferrero a Mosca

Se per la classe borghese Ferrero è morto, per il proletariato internazionale Ferrero è tuttora vivente. Il suo nome brilla in lettere d'oro, sulla facciata di una grande fabbrica d'automobili; nei solenni cortei della rivoluzione una bandiera rossa fa garrire a tutti i venti della Russia il ricordo del martire; automobili e camion si fregiano del nome di Pietro Ferrero e lo fanno conoscere, fanno conoscere il suo eroismo e il suo sacrifizio agli operai e ai contadini di un territorio che costituisce la sesta parte del globo terrestre.

I lavoratori russi che seguono con passione tutti gli avvenimenti, le agitazioni, le lotte che sono il tessuto quotidiano della grande tragedia mondiale dei giorni nostri, hanno voluto ricordare e perpetuare, con salda solidarietà, la memoria di uno dei martiri del dicembre 1922; hanno dato il nome di Ferrero a una delle migliori fabbriche metallurgiche della Capitale rossa, alla fabbrica di automobili «Amo».

Perché la celebrazione del fatto fosse più solenne, fu scelta come data per il cambiamento del nome della fabbrica il giorno anniversario della rivoluzione di novembre, della grande rivoluzione proletaria.

Il teatro della fabbrica «Amo» era pavesato di rosso. La sala era gremita di operai, accompagnati dalle loro famiglie. Sul palcoscenico stavano i rappresentanti delle altre fabbriche del rione, dei sindacati, del Soviet rionale, del Comitato di Mosca del Partito comunista e un gruppo di emigrati politici italiani. Presiedeva l'assemblea il compagno Lepse, segretario del Consiglio di fabbrica, un operaio energico, attivo, dalla faccia intelligentemente espressiva, un vecchio lottatore della rivoluzione, che gode tutta la simpatia e la fiducia dei suoi compagni di lavoro. La fanfara, dopo le prime parole del presidente, che ricorda i caduti nella guerra civile, suona la marcia funebre dei rivoluzionari russi, che i presenti ascoltano in piedi, a capo scoperto, cantandone le parole: «Voi siete caduti nella lotta fatale, per il vostro incondizionato amore del popolo - Per il popolo avete dato tutto ciò che potevate dare, per la sua vita, per il suo onore, per la sua libertà».

«Il compagno Ferrero fu un vero difensore della classe operaia, e perciò la borghesia lo assassinò. Egli è entrato così nella grande famiglia dei martiri della rivoluzione; Ferrero vive ancora però in mezzo agli operai della nostra fabbrica, nella Russia dei Soviet. Vi invito a levarvi in piedi in onore di Pietro Ferrero e di tutti i caduti della rivoluzione proletaria», aveva detto, con grande commozione il compagno Lepse.

Parlarono quindi molti compagni, ricordando la Rivoluzione di novembre, gli episodi della lotta svoltasi nel rione e intorno alla stessa fabbrica. Il compagno Iaroslavski, a nome del Comitato comunista di Mosca, fece la relazione generale sugli avvenimenti svoltisi nei sei anni di potere soviettista e sullo sforzo che ancora rimane da compiere. Parlò il compagno Smirnoff, vecchio operaio bolscevico dell'«Amo», che ricordò la battaglia sostenuta nella fabbrica per impedire alle guardie bianche di impadronirsi dei camion del magazzino.

La fabbrica Amo rimase per tre giorni tagliata fuori completamente dal centro della città, dove si svolgeva la battaglia risolutiva. Pochi operai con pochissime armi erano rimasti sul posto per difendere la fabbrica dalle guardie bianche che cercavano di impadronirsene per utilizzare il suo deposito di macchine e per sabotarla in caso di sconfitta. La difesa era specialmente costituita di barricate: in più un vecchio fucile e poche rivoltelle. Ma i bolscevichi hanno molte armi a loro disposizione oltre quelle materiali: la più importante lo spirito di classe e la divisione in classi della società. Il compagno Smirnofi fu inviato a parlamentare la resa: era una finta. Gli ufficiali bianchi avevano con sé un reparto di truppe costituito di contadini; il compagno Smirnoff dedicò una maggiore attenzione alle truppe che agli ufficiali, coi quali doveva negoziare. Risultato: le truppe si ribellarono, gli ufficiali dovettero scappare e la fabbrica si rifornì di soldati, di armi, di munizioni.

Parla la compagna Ivarova, una vecchia operaia senza partito, ma ardente rivoluzionaria: essa faceva parte del Comitato di difesa militare della fabbrica, e tutta l'assemblea vuole che dica qualche cosa. «Voglio dire poche parole; noi operai siamo contenti del potere dei Soviet e lo difenderemo fino alla morte».

Parla il compagno Caralief, direttore della fabbrica, che annunzia ufficialmente, fra gli applausi entusiastici dell'assemblea, che dal 7 novembre 1922 la fabbrica «Amo» si chiamerà fabbrica Ferrero e tutte le macchine che usciranno dalla fabbrica porteranno sulla targa il nome di Ferrero.

Il compagno Caralief è un operaio metallurgico, che solo da pochi mesi ha lasciato le fabbriche d'armi di Tula per occupare il nuovo posto. Egli ha trovato la fabbrica «Amo» in pessime condizioni, come mi hanno detto alcuni operai italiani che nell'«Amo» hanno lavorato dal 1921 a questi ultimi tempi: i tecnici del vecchio regime sabotavano, con evidente soddisfazione, ogni tentativo di riorganizzazione fatto dalle autorità soviettiste; essi passavano le giornate a fumare sigarette, passeggiando per i reparti, ridendosi degli operai che volevano lavorare e produrre. È bastato che arrivasse il nuovo direttore, un autentico proletario che veniva da un'altra fabbrica e aveva appena lasciato il suo banco, perché tutto cambiasse. Il deposito delle macchine da riparare in pochi mesi si è quasi vuotato e fervono i lavori per lanciare un nuovo tipo di macchina che sia più perfezionata dei migliori tipi Fiat (la fabbrica Ferrero è costruita e attrezzata sul modello della Fiat-Centro) e che porterà il nome di Ferrero.

Il sottoscritto, a nome dei metallurgici torinesi e di tutta la classe lavoratrice italiana portò il saluto alla maestranza della fabbrica, ai metallurgici e a tutti i lavoratori di Russia. Ricordò la vita di lavoro e di sacrificio e la morte da eroe e da martire del compagno Ferrero, descrisse quali lotte debbano sostenere gli operai e i contadini italiani per non lasciarsi soffocare dalla ondata di barbarie e di criminalità che prende il nome di fascismo, e affermò che intorno ai cadaveri di Ferrero e delle altre migliaia e migliaia di caduti nella lotta contro il terrore fascista i lavoratori italiani si raccolgono, angosciati dal dolore ma con la fede salda in un avvenire migliore, preparandosi, pur tra le grandi difficoltà, ad insorgere contro il capitalismo per abbatterlo ed instaurare la società dei produttori.

La notizia dell'omaggio che i compagni russi hanno voluto rendere al Ferrero sarà un elemento di più per rafforzare lo spirito internazionalista e rivoluzionario delle masse italiane e specialmente del proletariato torinese che si sente oggi più legato al prode popolo russo che ha dato l'esempio e ha aperto la strada per il rinnovamento del mondo.

Rispose il compagno Lepse che prese dalle mie mani la bandiera rossa che i metallurgici di Torino hanno inviato alla fabbrica, mi abbracciò e augurò, tutto commosso e con la voce tremante dalle lacrime, che i lavoratori italiani presto riescano a sbarazzarsi dagli sfruttatori e dagli oppressori, instaurando la Repubblica dei Soviet e vendicando il martire Ferrero, il cui spirito avrebbe continuato a vivere nella fabbrica.

La bandiera è bella e semplice. Da un lato vi è lo stemma dei Soviet con una automobile nel centro e la dicitura: «Viva l'automobile soviettista». In alto «Fabbrica di automobili Ferrero». Nel verso c'è la dicitura in russo e in italiano: «Gli operai delle fabbriche metallurgiche di Torino agli operai della fabbrica Ferrero di Mosca».

Il significato dell'avvenimento

Sotto il regime borghese le fabbriche vengono intestate ai più strani nomi; nomi di sfruttatori e di pescicani dissanguatori del popolo, nomi bizzarri combinati per attirare l'attenzione dei clienti e provocare la domanda di merce. Nella Russia dei Soviet le fabbriche sono del proletariato e i nomi di esse servono a ricordare gli eroi e i martiri della Rivoluzione: le nuove generazioni, che conoscono solo la libertà e l'autogoverno, che non riescono a immaginare cosa fosse un gendarme, uno zar, un capitalista arbitro dell'officina, devono essere educate nel culto dei lottatori che la nuova vita hanno costruito e cementato col loro sangue, coi loro patimenti, con gli anni consumati nelle prigioni e in esilio.

Tutti i lavoratori italiani, sono persuaso, sapranno apprezzare il valore e il significato dell'avvenimento per cui una fabbrica rigenerata e liberata dai parassiti, ha preso il nome di Pietro Ferrero: gli operai metallurgici di Torino sentono già, ho la ferma convinzione, di essere ormai legati con vincoli di sangue ai lavoratori di Mosca. In contraccambio gli operai italiani sapranno dimostrare di saper alzare il capo di fronte all'avversario.

Contro l'attesa inerte

I lavoratori hanno appreso che non è attraverso un periodo di attesa inerte che si possono sperare giorni migliori. Il fascismo non è che l'ultima esperienza fatta dalla borghesia per mantenere il suo potere. Lungi dal dimostrare che l'era delle rivoluzioni è passata, il fascismo dimostra invece che essa si è acuita, è giunta alla sua fase suprema. Illudersi che il fascismo possa essere sgominato con manovre democratiche sarebbe puerile da parte degli operai; illudere gli operai che ciò possa avvenire è l'ultimo delitto dei riformisti.

Prima di abbandonare il potere, i fascisti appiccheranno il fuoco ai quattro angoli d'Italia. Guai se la classe operaia non capisce ciò e non cerca di unirsi, di riorganizzarsi, per essere pronta e disposta a tutto; il terrore che l'Italia ha conosciuto in questi anni sarà nulla in confronto di quello che subirebbe se l'opposizione al fascismo fosse solamente di carattere giornalistico-parlamentare-pacifista-vegetariano come vorrebbero l'on. Turati o gli scrittori della «Stampa», suoi degni alleati. L'esempio della Russia dei Soviet continua a rimanere il faro che illumina il mondo degli sfruttati e degli oppressi.

La bandiera dell'Internazionale comunista è sempre la sola bandiera per la quale è un onore combattere e morire. Sono in Russia da quasi dieci mesi. Cosa ho visto? Una classe operaia che lavora alacremente per rinsaldare la base economica del suo potere politico; delle masse contadine che non sono cosi ignoranti e arretrate come scrivono i giornalisti borghesi, perché comprendono i loro interessi, perché hanno capito che la loro questione è strettamente legata allo sviluppo dell'industria e alla forza dello Stato operaio.

Ho visto migliaia e migliaia di contadini - una bella gioventù robusta, sveglia, avida di sapere e di istruirsi - che marciavano sotto la divisa dell'esercito rosso, col fucile in braccio e la baionetta innestata.

Domando ai denigratori della Russia: perché questi giovani che hanno le armi in mano, non le rivolgono contro gli uomini che sono al potere, se questi li opprimono? E invece essi cantano in coro: «Per il potere dei Soviet, coraggio, andiamo alla lotta e sappiamo morire per esso».

Ho visto sfilare gli squadroni a cavallo e i plotoni dei «poliziotti» rossi, dei cekisti, e gli operai, che assistevano alla sfilata, applaudivano a questi loro compagni che pur compiono un altissimo e nobilissimo dovere rivoluzionario. Nessuno obbligava gli operai ad applaudire, nessuno, umanamente, può costringere centinaia di migliaia di operai a sfilare per le strade e ad applaudire.

Si è mai visto, può mai immaginarsi che in Italia, o in Francia, o in Germania o in qualsiasi altro paese che non sia la Russia la massa operaia possa applaudire gli uomini che più visibilmente incarnano il potere dello Stato? Perché in Russia il potere dello Stato è in mano agli operai e ogni funzione, ogni congegno dello Stato è carne e sangue della classe operaia, serve per difendere gli operai e contadini contro la borghesia straniera e contro la borghesia russa che è aiutata dall'estero e cerca continuamente di risorgere.

I lavoratori di tutto il mondo hanno il dovere di stringersi intorno alla fortezza conquistata e difenderla con tutte le loro forze. Il proletariato d'Italia, che in passato diede cosi belle prove di coscienza e di forza, non mancherà anch'esso di dimostrare che il terrore bianco non è valso ad abbatterlo. Gli operai e i contadini russi hanno dato - coi loro sacrifizi - esempi grandiosi a tutto il proletariato mondiale.

Essi affrontarono innumerevoli attacchi armati dei nemici esterni ed interni; affrontarono la carestia, la fame, il freddo; continuano ancora a combattere e a soffrire. Ma quale entusiasmo nelle loro opere, quale intelligenza e quale fede nelle loro parole, quale indomabile ardore nella loro volontà!

Quali cose grandiose e sublimi può fare l'operaio emancipato, libero dalle catene del capitalismo, che può mettere alla prova la sua intelligenza naturale. E anche noi, compagni metallurgici di Torino, compagni di tutta Italia, faremo tutto il nostro dovere. Anche noi sapremo conquistarci la libertà nonostante tutto e tutti.

L'esperienza fatta ci ha reso più prudenti e più pratici, ma non ha smorzato il nostro entusiasmo; tutt'altro, esso si è rinvigorito di una maggiore comprensione delle cose e degli uomini.

E i nostri morti attendono...

Mosca, febbraio 1924. (Firmato Giovanni Parodi, «L'Ordine Nuovo», marzo 1924, s. III, i, n. I).

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