martedì 14 ottobre 2025

pc 14 ottobre - Ancora sui profitti italiani macchiati di sangue per la ricostruzione di Gaza. ENI e Buzzi Unicem capofila dei padroni italiani rappresentati dal governo Meloni

Per i loro profitti capitalisti/imperialisti non conta il massacro della popolazione palestinese della Striscia di Gaza, del resto è il genocidio messo in atto dal boia Netanyhau appoggiato da Trump ad avergli dato l'opportunità di poter fare i loro maledetti affari. Con quasi 200mila edifici distrutti, reti idriche ed elettriche da rimettere in funzione, strade da rifare la Striscia, per questi squali del profitto, diventerà un immenso cantiere. La Banca Mondiale ha già aggiornato il conto a 80 miliardi $. Pronti i big Usa, Uk e del Golfo. In Italia si scaldano i gruppi del cemento. E l’ENI, azienda partecipata dallo Stato italiano, potrà attivare le concessioni per esplorare il gas al largo della Striscia vinte ma congelate dal 7 ottobre 2023. 

LE AZIENDE ITALIANE CHE POTREBBERO PARTECIPARE ALLA RICOSTRUZIONE DI GAZA
Tra le aziende italiane che potrebbero avere un ruolo nella ricostruzione di Gaza ci sono:
  • Buzzi, specializzata nella produzione di cemento e calcestruzzo e controllata dall’omonima famiglia;
  • Cementir, attiva nello stesso settore: Francesco Gaetano Caltagirone detiene il 66,7 per cento del capitale;
  • Webuild, gruppo di ingegneria e costruzioni partecipato da Salini (38,5 per cento) e Cdp Equity (16,4 per cento);
  • Saipem, società di infrastrutture energetiche: Eni (21,1 per cento) e Cdp Equity (12,8 per cento) sono i principali azionisti;
  • Ansaldo Energia, società di impianti energetici controllata quasi interamente da Cdp Equity;
  • Maire, gruppo ingegneristico controllato da Glv Capital (51 per cento) di Fabrizio Di Amato.

La pace a Gaza riapre la guerra del gas. I piani di Eni e delle altre big oil 

14 ottobre 2025

Riparte la corsa allo sfruttamento dei giacimenti offshore nel bacino Levantino, che possono garantire più metano all’Europa. Ma a fianco dei maxi-progetti israeliani Leviathan e Tamar, a tenere accese le ostilità c’è il caso del più piccolo Gaza Marine, che l’Autorità Palestinese vorrebbe poter sfruttare. | A Gaza partono le prime gare per la ricostruzione. Corsia preferenziale anche per i gruppi italiani

Gli accordi Israele-Hamas riaprono la corsa allo sfruttamento dei giacimenti offshore israeliani, ma quel fronte è tutt’altro che pacificato. Se il governo di Benjamin Netanyahu punta a rilanciare prima possibile l’esplorazione e la produzione, la Palestina è pronta a rivendicare la titolarità di una risorsa che potrebbe rappresentare la sua unica leva economica: Gaza Marine, il piccolo campo di gas al largo della Striscia mai entrato in produzione e stretto tra i ben più grandi Leviathan e Tamar. Gaza Marine sembra come quei fragili appezzamenti di terreno che provano a resistere agli espropri mentre tutto intorno sorgono opere imponenti.

Da Freedom Flotilla Italia (comunicato del 10 agosto):

Il Gas di Gaza e le manovre illegittime di Israele, con la complicità dell'ENI

Perché Israele mostra tanto interesse per quella piccola striscia di terra rimasta della Palestina, dopo essersi già impadronito di gran parte dei territori occupati?

Un vecchio detto dice: "Se vuoi capire, se vuoi risposte, segui i soldi."

𝗟’𝗮𝗰𝗰𝗼𝗿𝗱𝗼 𝗘𝗴𝗶𝘁𝘁𝗼–𝗜𝘀𝗿𝗮𝗲𝗹𝗲 𝗱𝗮 𝟯𝟱 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗮𝗿𝗱𝗶

Ad agosto 2025, mentre a Gaza infuria il genocidio e la popolazione è sottoposta a carestia indotta, Egitto e Israele hanno siglato un accordo da 35 miliardi di dollari per la fornitura di 130 miliardi di metri cubi di gas fino al 2040, proveniente dal giacimento offshore Leviathan, a pochi chilometri dalla costa gazawi.

Si tratta di risorse che, secondo il diritto internazionale, apparterrebbero in larga parte al popolo palestinese.

L’intesa non solo consolida Israele come esportatore energetico regionale, ma alimenta sospetti: parte di quel gas potrebbe includere anche riserve del giacimento Gaza Marine, bloccato da anni ai palestinesi, per ostacoli imposti da Israele. 

Un pieno controllo israeliano sulla Striscia di Gaza, significherebbe anche il pieno sfruttamento di quelle risorse, in palese violazione del diritto palestinese all’autodeterminazione e delle convenzioni internazionali.

𝗜𝗹 𝗻𝗼𝗱𝗼 𝗘𝗡𝗜 𝗲 𝗹𝗲 𝗹𝗶𝗰𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗶𝗹𝗹𝗲𝗴𝗶𝘁𝘁𝗶𝗺𝗲

Il 29 ottobre 2023 Israele ha concesso a ENI e ad altre compagnie (Dana Petroleum, Ratio Petroleum) licenze per esplorare e sfruttare giacimenti di gas in acque che per il 62% sono giuridicamente palestinesi secondo la Convenzione di Montego Bay e l’accordo Israele–OLP del 1994.

Queste concessioni, rilasciate unilateralmente da Israele, ignorano la sovranità palestinese e sono considerate illegittime dal punto di vista del diritto internazionale.

Secondo la Corte Internazionale di Giustizia, Israele — in quanto potenza occupante — non può sfruttare risorse naturali nei territori occupati a fini propri senza garantire benefici alla popolazione locale. Farlo equivale a un’annessione de facto, vietata dal principio internazionale che proibisce l’acquisizione di territorio con la forza.

Organizzazioni legali palestinesi e ONG internazionali hanno diffidato ENI, avvertendo del rischio di complicità in crimini di guerra e violazioni umanitarie. Il governo italiano, azionista di ENI, ha comunque favorito l’intesa, scegliendo di ignorare queste contestazioni.

𝗜𝗺𝗽𝗹𝗶𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗹𝗲𝗴𝗮𝗹𝗶 𝗲 𝗺𝗼𝗿𝗮𝗹𝗶

Le licenze israeliane a ENI comportano:

•Violazione del diritto internazionale umanitario e consuetudinario.
•Annessione di aree marittime palestinesi, contraria al divieto di acquisizione di territorio con la forza.
•Esclusione della Palestina dallo sfruttamento delle proprie risorse e aggravamento della crisi energetica di Gaza, dove l’unica centrale elettrica funziona a gasolio israeliano sotto pesante razionamento politico.
•Obblighi internazionali di cessazione e riparazione dei danni per gli Stati e le aziende coinvolte.

Giorgia Meloni continua a rifiutare il riconoscimento dello Stato di Palestina, sostenendo che “sarebbe troppo presto”. In realtà, il mancato riconoscimento evita di dover trattare la Palestina come legittimo titolare delle proprie risorse marittime, compreso il gas che ENI estrae in collaborazione con Israele.

Ovviamente è solo una delle ragioni.

È un rifiuto politico che si inserisce in una strategia internazionale — spinta dalle lobby israeliane e statunitensi — volta a impedire la piena sovranità palestinese e a consolidare il controllo israeliano su terra, mare e sottosuolo.

Oggi 147 Stati su 193 membri ONU riconoscono la Palestina entro i confini del 1967, ma gli Stati Uniti, l’Italia e altri alleati di Israele si oppongono ancora. Nel frattempo, Israele prosegue con le colonizzazioni, le dichiarazioni unilaterali di “zone militari” e l’espropriazione sistematica di risorse, calpestando apertamente il diritto internazionale.

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