L’IDEOLOGIA
DEI ‘SAPERI’ E GLI APOLOGETI DEL CAPITALISMO (COGNITIVO)
Francesco
Macheda, 2008 - Università Politecnica delle Marche
I.
Il contro-potere dei knowledge workers.
Il
‘Frammento sulle macchine’ contenuto in un’opera di Marx
rappresenta l’appiglio radicale col quale gli aderenti alla scuola
del capitalismo cognitivo, che vede in Antonio Negri il suo
principale esponente, si sono proposti di aggiornare il pensiero
marxista alla società occidentale odierna. Citando pedissequamente
poche righe (1) e tralasciando il resto dell’imponente, e ben più
completa, produzione dello scienziato di Treviri, essi giungono alla
conclusione che la produzione di plusvalore – il valore della
forza-lavoro non retribuita di cui il capitalista si appropria nel
processo di produzione – non sarebbe relegata al mero orario
lavorativo, ma si estenderebbe lungo tutta la giornata. Inoltre,
poiché il controllo del e sul capitale è il prerequisito della
produzione di plus-valore, la soggettività dei lavoratori, in quanto
fonte di plusvalore, sarebbe plasmata durante l’intero arco della
giornata. Da ciò, consegue che il plusvalore sarebbe prodotto ed
espropriato nel momento in cui viene formata la soggettività del
lavoratore, indipendentemente dalla coincidenza o meno con l’orario
di lavoro propriamente detto (Lazzarato e Negri 1992).
L’estensione
del tempo di lavoro fino a coprire l’intera esistenza dei
lavoratori deriverebbe dal
mutamento del regime d’accumulazione, da
fordista a post-fordista. Se il primo richiedeva una forza-lavoro
direttamente applicabile ai mezzi di produzione, il secondo, invece,
controllerebbe il processo produttivo e quindi dovrebbe essere in
grado di prendere decisioni indipendenti assumendosi responsabilità,
anche se sempre entro i confini specifici postigli dal ‘Capitale’.
Stando così le cose, il processo lavorativo dipenderebbe sempre più
dalla conoscenza dei lavoratori (oramai divenuti knowledge workers),
formata principalmente al di fuori dell’orario lavorativo. Per
questo, gli imprenditori avrebbero la necessità di organizzare e
controllare i lavoratori non solo nel tempo di lavoro, ma anche e
soprattutto nel tempo di non lavoro – al fine di permettere loro
quell’ampiezza di (limitate) scelte e responsabilità.
Tuttavia,
le qualità e la centralità delle facoltà cognitive dei lavoratori,
applicate al modello di produzione “post-fordista”, schiuderebbe
nuove opportunità. La soggettività dei lavoratori, infatti, oltre a
costituire la fonte del profitto del capitalista, sarebbe al contempo
all’origine della loro “auto-valorizzazione culturale”, facendo
pertanto del lavoro una forza rivoluzionaria.
Scrivono
Lazzarato e Negri (1992: 38) «La forza-lavoro diventa sociale e
autonoma, capace di organizzare il suo proprio lavoro e le sue
relazioni con l’azienda [...]. Il rapporto che questa nuova forza
lavoro intrattiene con il capitale [...] è al di là
dell’antagonismo, esso è alternativo, costitutivo di una realtà
sociale differente. Nella società post-industriale, dove il general
intellect è egemone, non c’è più posto per il concetto di
“transizione”, ma soltanto per il concetto di “potere
costituente”». Siamo, dunque, alla fondazione di un fantomatico
soggetto costituente che, in totale autonomia e indipendentemente dai
rapporti sociali esistenti, non stabilisce neppure una relazione
antagonistica con essi.
Ma
c’è di più: i knowledge workers dovrebbero essere anche creativi.
Ciò varrebbe non solo per i lavoratori qualificati (skilled) ma
anche per quelli meno qualificati (unskilled), per lo meno
tendenzialmente. Per questi ultimi, tale capacità sarebbe «puramente
virtuale [...] ancora indeterminata, ma essa compartecipa già a
tutte le caratteristiche della soggettività produttiva
post-industriale» (Ibid.).
In
breve, secondo i teorici del lavoro immateriale la divisione sociale
e tecnica del lavoro tenderebbero verso la creazione di lavori
qualificati, trasformando il lavoro da lavoro diretto industriale a
knowledge labour. Tale mutazione ricomprenderebbe la possibilità di
un nuovo tipo di rapporto tra capitale e lavoro poiché quest’ultimo
sarebbe in grado di usare la (limitata) creatività e cooperazione
come un primo passo verso la riorganizzazione del general intellect,
alternativo a quello del capitale. Anche in questo caso, si prendono
a prestito frammenti del lessico di Marx, che definiva general
intellect il sapere sociale diffuso che il Capitale valorizza per i
suoi scopi, in particolare ai fini dello sviluppo tecnologico.
Tuttavia, nelle società post-fordiste il general intellect non
coinciderebbe più con il capitale fisso, ossia con il sapere
rappreso nel sistema di macchine, ma farebbe tutt’uno con la
cooperazione di una moltitudine di soggetti.
II.
La rottura con il Marxismo.
Seguendo
le linee di pensiero della scuola del capitalismo cognitivo, il primo
errore emerge dalle inesattezze riguardanti la teoria marxiana del
valore. Come noto, secondo tale teoria un oggetto costituisce un
valore in conseguenza del lavoro in esso contenuto. La grandezza di
tale valore, infatti, è determinata dal tempo di lavoro socialmente
necessario per la produzione dell’oggetto stesso, mentre «il
plusvalore, e rispettivamente il profitto, consiste […]
nell’eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella
merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene»
(Marx 1978, p. 68 Libro III). Ciò significa che se il valore è
riconducibile al momento della produzione, anche il plusvalore deve
necessariamente essere estorto nella sfera della produzione
lavorativa. (2)
Come
abbiamo visto, invece, i post-operaisti rigettano questo schema,
cosicché il valore delle merci (tra cui quello della forza-lavoro),
esula dal momento della loro produzione. Ciò significa che, se è
vero che l’impegnarsi nello studio può servire a diventare
lavoratori che concorrono a una maggior produzione oraria di valori
d’uso, non è altrettanto vero che si è lavoratori produttivi
quando si studia, in particolare perché non si producono né valori
d’uso, né di scambio. Ad esempio, se l’operaio vero e proprio
perde un braccio a causa di un incidente a fine turno, il lavoro di
quella giornata si realizza comunque in merci di un certo valore di
cui si appropria il capitalista. Ma se, dopo una giornata passata sui
libri, lo studente dimentica tutto, vuol dire che ha arrecato un
danno al capitalista? No, significa soltanto che lasocietà ha speso
del lavoro inutilmente per farlo studiare, per riprodurlo come
lavoratore cognitivo. Seguendo la logica degli intellettuali
post-operaisti, potremmo anche voler dimostrare che alcune sostanze
psicotrope possono aumentare la produttività del singolo lavoratore.
Tuttavia, se il padrone fa entrare il loro consumo nelle spese
necessarie al mantenimento del suddetto lavoratore, non per questo
l’assunzione di tali sostanze psicotrope diviene lavoro produttivo
di valore! (3)
La
seconda stramberia della scuola cognitiva consiste nel fatto che il
massimo grado di libertà alla base dell’instaurazione del
contro-potere dei lavoratori cognitivi s’invererebbe in coincidenza
della sua massima alienazione, ossia nel momento in cui il capitale
sussume qualsiasi aspetto dell’esistenza umana al fine di una sua
maggiore valorizzazione. Qui, la rottura con la scuola cui i
post-operaisti pretendono di rifarsi – l’operaismo – è netta.
Per gli studiosi dei Quaderni Rossi, infatti, la divisione sociale
del lavoro tende a contrapporre in misura crescente le potenze
intellettuali del processo di produzione ai lavoratori. In altri
termini, i progressi della scienza e lo sviluppo tecnologico che
avvengono all’interno del processo capitalistico di produzione
rinforzano la dipendenza del lavoratore verso il capitale. Come
scriveva Panzieri (1978: 55-56): «Le nuovi basi tecniche via via
raggiunte nella produzione costituiscono per il capitalismo nuove
possibilità di consolidamento del suo potere…La cooperazione –
il rapporto reciproco fra i lavoratori – comincia soltanto nel
processo lavorativo, ma nel processo lavorativo, i lavoratori hanno
già cessato di appartenere a se stessi.
Entrando,
sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, sono essi stessi
soltanto un modo particolare di esistenza del capitale». Un minimo
di coerenza e continuità con l’operaismo, pertanto, vorrebbe che
la soggettività del lavoratore incontrasse crescenti difficoltà a
consolidare il proprio antagonismo da contrapporre al Capitale
(ossia, il sistema economico, sociale e politico vigente) tanto più
se, come loro stessi sostengono, nell’attuale fase post- fordista
quest’ultimo metterebbe a valore qualsiasi attimo della sua vita.
Ciononostante, lo stravolgimento della teoria del valore-lavoro e
l’inconciliabilità con la scuola verso cui pretenderebbe di
rifarsi (l’operaismo) sono gli aspetti meno gravi. La terza, e
forse più drammatica, rottura con il marxismo riguarda il problema
della produzione di conoscenza dei lavoratori sotto il capitalismo. A
differenza di Karl Marx, degli operaisti e dei teorici del labour
process, infatti, il de-skilling non sarebbe una tendenza insita allo
sviluppo capitalistico. (4) Come noto, per questi ultimi la divisione
sociale e tecnica del lavoro tende verso la polarizzazione dei
compiti di concepimento e progettazione da un lato, e semplice
esecuzione dall’altro. In aggiunta, le mansioni diventerebbero
sempre più parcellizzate e quindi dequalificate. La dequalificazione
delle mansioni e la polarizzazione dei compiti d’ideazione ed
esecuzione non sono traiettorie accidentali, bensì due necessità
proprie del modo di produzione capitalistico. Da una parte, se tale
sistema poggia sul conflitto capitale-lavoro, sostanziato
dall’antiteticità profitti-salari, la tendenza verso la
dequalificazione professionale significa innanzitutto deprezzamento
medio della manodopera. Ad esempio, se l’operaio studia per
diventare lavoratore cognitivo e gli imprenditori richiedono un
maggior numero di “lavoratori cognitivi”, ciò farà aumentare il
prezzo medio della forza-lavoro. La dinamica domanda-offerta, quindi,
farà sì che l’operaio istruito avrà la possibilità di vendersi
meglio.
Questo
è il motivo che ha spinto storicamente i capitalisti a semplificare
le mansioni, rendendole facilmente apprendibili: perché il tempo di
apprendimento è un costo (infatti, nel caso citato aumenta non solo
il prezzo ma anche il valore della forza lavoro), che può essere
conveniente solo per il singolo capitalista. Ma se è vero che
l’apprendimento aumenta la produttività del lavoro poiché
permette la possibilità di maneggiare macchine complesse, è pur
vero che l’apprendimento generalizzato rende quella produttività
oraria del lavoro produttività oraria media: un’ora di lavoro,
rispetto alle altre ore di lavoro, torna a valere un’ora di lavoro.
Ne
segue che come l’incremento dei costi di un macchinario può
convenire al singolo capitalista fino a quando il suo impiego non è
generalizzato, un incremento dei costi in termini di operai istruiti
(divenuti oramai lavoratori cognitivi) può convenire al capitalista
singolo. Tuttavia, a livello medio, questa spesa è un costo
aggiuntivo che deve essere abbattuto.
D’altra
parte, la polarizzazione dei compiti d’ideazione ed esecuzione
significa controllo del (e sul) processo produttivo di una parte
della società – quella che possiede i mezzi di produzione e dei
suoi agenti – sull’altra. Al contempo, ciò si traduce
nell’imposizione di ritmi di lavoro sempre più frenetici che
favoriscono la massima estorsione di plus-valore relativo a cui
spesso segue una maggiore richiesta di plus-lavoro assoluto, (5) dal
momento che sono i rapporti di produzione che determinano i rapporti
di forza tra le classi sociali da cui sorgono le sovrastrutture
istituzionali, tra cui la regolamentazione dei rapporti lavorativi.
III.
L’apologia del capitalismo.
Anche
soprassedendo a queste critiche e concedendo una coerenza logica che
non ha, il risultato pratico della speculazione post-operaista è
quello di levare da sotto i piedi qualsiasi substrato oggettivo alla
lotta dei lavoratori. Grazie all’aumento tendenziale della
qualificazione della forza-lavoro, la società produrrebbe una
quantità crescente di sapere (anzi, saperi) e quindi di plus-valore
che, in ultima istanza, vanificherebbe qualsiasi tentativo di
rivoluzionare il sistema da parte della classe lavoratrice. Detto
altrimenti: il capitalismo tenderebbe verso una crescente
incorporazione di conoscenza nella soggettività della forza-lavoro
che sfocerebbe nell’aumento della ricchezza sociale. Il capitalismo
rappresenterebbe, pertanto, un sistema razionale tendente alla
crescita economica e alla creazione di una forza-lavoro sempre più
qualificata piuttosto che, come in Marx, un sistema irrazionale
tendente alla crisi – generata dalla contraddizione tra lo sviluppo
delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione – e alla
dequalificazione e polarizzazione della forza-lavoro.
Nonostante
il lavoro sia oppresso e sfruttato, esso sarebbe impiegato nella
riproduzione di un sistema razionale, e quindi oppressione e
sfruttamento diventano essi stessi razionali. A questo punto, Negri e
i suoi seguaci obiettano che i lavoratori cognitivi potrebbero
utilizzare la loro conoscenza e creatività come un contro-potere da
anteporre al dominio del capitale. Ma giacché questa teoria postula
un sistema tendente verso la crescita economica raggiunta grazie
all’impiego di una forza-lavoro sempre più qualificata, la lotta
dei lavoratori diventa sia irrazionale – perché mira a superare un
sistema presumibilmente razionale – sia un atto di puro
volontarismo – perché non è la manifestazione cosciente della
tendenza oggettiva del sistema verso le crisi (dato che il sistema
non tende verso le crisi).
La
vera obiezione al post-operaismo non è tanto di allontanarsi dal
marxismo (anche se la pretesa di interpretare Marx dalle poche pagine
del cosiddetto ‘Frammento sulle macchine’ a fronte delle migliaia
della sua produzione, è a dir poco un azzardo) quanto che,
discostandosene, prende partito per il capitale, propagandandone una
versione altamente ideologica e incoerente sia con i suoi stessi
fini, sia con gli interessi della classe e dei soggetti che
pretenderebbe di sostenere.
NOTE
1
Il passo ritualmente citato è questo: «Il furto del tempo di lavoro
altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base
miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel
frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non
appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande
forma della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di
essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di
essere misura del valore d’uso. Il plusvalore della massa ha
cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza
generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere
condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con
ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo
di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma
della miseria e dell’antagonismo» (Marx 1978: 41).
2
Nel Capitale – l’opera di cui i Grundrisse costituiscono solo un
abbozzo, Marx è chiaro al riguardo: il fatto che «il valore creato
durante una giornata dall’uso di essa (la
forza-lavoro) superi […] il suo proprio valore giornaliero, è
una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto
un’ingiustizia verso il venditore» (p. 228 Libro I).
3
Anche le associazioni imprenditoriali confutano con forza tali
teorie. Altrimenti, non si spiegherebbe perché esse continuino a
imporre ritmi di lavoro crescenti e spingano per l’allungamento
della giornata lavorativa.
4
Braverman (1974) approfondisce la tesi marxiana della degradazione
del lavoro operaio e impiegatizio. Tuttavia, letture semplicistiche
operate prevalentemente in ambito accademico non hanno colto il
nocciolo della questione: degradazione del lavoro non significa
semplificazione assoluta delle mansioni, bensì sempre maggiore
distanza tra il processo d’ideazione ed esecuzione al fine di
aumentare il controllo, e quindi il potere, del capitale sul lavoro.
5
Sia Basso (1998) sia l’Eurofound (2006), mostrano come dalla crisi
del 1973 l’orario di lavoro abbia iniziato a risalire nonostante il
contemporaneo aumento della produttività del lavoro. Usando una
terminologia marxista, si direbbe che il capitale ha bisogno di
estrarre maggiore plus-valore assoluto.
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