Modena, 9 gennaio 1950: il sangue della classe operaia
di Franco Astengo
Una tragedia nella storia del movimento operaio che non deve essere dimenticata.
Questi i nomi degli uccisi dalla “Celere”, in quel giorno fatidico per la storia d’Italia.
Angelo Appiani [30 anni, partigiano, metallurgico] colpito in pieno petto. Immediatamente dal terrazzo della fabbrica altri carabinieri spararono con la mitragliatrice sulla folla di lavoratori che si trovava sulla Via Ciro Menotti oltre il passaggio a livello chiuso per il transito di un treno.
Arturo Chiappelli [43 anni, partigiano, spazzino] e Arturo Malagoli [21 anni bracciante] vennero colpiti a morte, molti furono feriti, alcuni gravemente. La gente scappava, cercava riparo dai colpi
della mitraglia che continuava a sparare, altri cercavano di assistere i feriti con medicazioni improvvise e li trasportavano al riparo.
Roberto Rovatti [36 anni, partigiano, metallurgico] si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti, aveva una sciarpa rossa al collo. Mezz’ora era passata dalla prima sparatoria e veniva circondato da un gruppo di carabinieri, scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del fucile, un linciaggio mortale.
Ennio Garagnani [21 anni, carrettiere] veniva assassinato in Via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblinda che sparava sulla folla.
Lo sciopero generale partì spontaneamente appena si diffuse la notizia del massacro. Un’automobile della Cgil con l’altoparlante avvertiva i lavoratori di concentrarsi in Piazza Roma. Poco dopo mezzogiorno Renzo Bersani [21 anni metallurgico] attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti, all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Montegrappa, un graduato dei CC distante oltre un centinaio di metri s’inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e sparò per uccidere.
E’ necessario ricostruire qual’era il clima sociale dell’epoca, in un’Italia uscita in ginocchio dalla seconda guerra mondiale, nel periodo di avvio della guerra fredda, con la ripresa della tracotanza padronale, all’indomani del trionfo elettorale della DC del 18 aprile 1948 e dell’ingresso nella NATO.
La CGIL, poche settimane dopo l’eccidio pubblicò un supplemento al numero 3 di “Lavoro”, che riportava su pagine di carta povera i fatti e i documenti, le foto e le testimonianze dal vivo di quei giorni cruenti che non è possibile dimenticare.
Nel solo 1948, l’anno del 18 aprile e della DC trionfante, sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti, 14.573 gli arrestati (tra essi 77 segretari di Camere del lavoro). L’impiego della polizia nelle vertenze sindacali è una prassi costante.
Al potere padronale ripreso in pieno dopo la parentesi dei giorni immediatamente seguenti la Liberazione, il potere politico democristiano affiancò quello che fu definito “scelbismo”, dal nome del ministro dell’Interno, Mario Scelba.
Ogni agitazione di lavoratori, che vivevano in condizioni di precarietà e di sfruttamento insostenibili nel quadro di un Paese affamato, con le case distrutte, le vie di comunicazione tutte da ricostruire, era vista come la lunga mano della cospirazione comunista in agguato e le “forze dell’ordine” erano chiamate a sparare sui braccianti e sugli operai per difendere una presunta “libertà” minacciata.
Indelebile, sotto questo aspetto, l’eccidio perpetrato da mafia e poteri occulti il 1 maggio 1947 a Portella della Ginestra.
Nei soli due mesi prima di Modena, ci sono tre eccidi – Melissa, Torremaggiore, Montescaglioso – poveri braccianti stroncati dal piombo sul lungo, sanguinoso cammino dell’occupazione delle terre.
Ma non ci sono metodi meno pesanti nel Nord delle industrie, sono considerati illegittimi e perseguibili a colpi di fucile anche gli scioperi a scacchiera o a singhiozzo, il picchettaggio delle fabbriche “serrate” dai padroni, persino la propaganda sindacale. 185mila militi tra poliziotti, carabinieri, guardie di finanza sono pronti in campo, 50mila in più che sotto il regime fascista.
Il massacro di Modena è però come una deflagrazione che scuote tutta Italia. Le Fonderie Riunite sono il cuore della città operaia e il conte Adolfo Orsi – ex boss fascista, pezzo grosso della Confindustria, proprietario di altre fabbriche metalmeccaniche, di grandi imprese commerciali, di cave nel Bresciano, di vasti possedimenti terrieri – è un vero padrone delle ferriere. Vuole mano libera di cacciar fuori tutti i 565 dipendenti e assumerne quanti gli pare e piace e quando vuole lui; la Commissione interna non gli va e non la vuole; i sindacalisti devono stare fuori dai piedi; la lettera di licenziamento per tutti parte il 3 dicembre e il 5 dello stesso mese con un’altra missiva fa presente che ne riassumerà nemmeno la metà. Il 19 gennaio parte lo sciopero provinciale, i cortei degli operai marciano con le bandiere, le Fonderie Riunite in “serrata” sono presidiate dalla Celere in armi: 800 militi di rinforzo sono stati chiamati da Bologna.
“Affoga nel sangue il governo del 18 aprile” titola a tutta pagina l’Avanti! del giorno dopo. Il governo del 18 aprile: quello dell’atlantismo, della divisione sindacale, della soggezione agli USA, della crociata anticomunista. Il fondo a firma di Pietro Nenni (PSI e PCI sono ancora legati da una Giunta di intesa, che però si scioglierà di lì a pochi anni) è un violentissimo attacco, politico e morale: «Il governo cattolico di De Gasperi e Scelba non ha neppure la comprensione umana e sociale di un Giolitti. La logica interna della sua politica di fame,di odio,di paura lo ha ormai condotto al delitto in permanenza».
Il servizio da Modena è gridato con gli stessi accenti di esecrazione. «Il gonfalone del Comune di Modena, medaglia d’oro della lotta di liberazione, sventola a mezz’asta dal balcone del palazzo municipale. Il più brutale massacro che sia avvenuto dopo la liberazione, massacro paragonabile soltanto agli indiscriminati eccidi compiuti dai nazisti, ha gettato nel lutto la popolazione modenese».
E Fernando Santi (socialista, segretario generale della CGIL) dalle stesse colonne non esita a dichiarare: «La verità è che a Modena – centro proletario per eccellenza – da due anni le autorità stanno svolgendo un’azione di intimidazione e di illegalità allo scopo di indebolire quel formidabile schieramento proletario».
“Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!” è il titolo a 8 colonne dell’Unità dello stesso giorno, 10 gennaio. Lo sciopero generale è in atto in tutta Italia, i metallurgici di tutta Italia sono in sciopero per 24 ore, informa il giornale; e il fondo di Pietro Ingrao, sotto il titolo accusatore “Premeditazione” ha questa conclusione: «Bisogna fermare la mano degli assassini e far intendere a chi ne fosse tentato che sulla strada di Crispi e di Mussolini non si torna. I pazzi sono avvertiti».
Non sono soltanto i giornali della sinistra a condannare, Modena è una visione inquietante. Sulla Stampa prendono posizione contro l’eccidio Vittorio Gorresio e Luigi Salvatorelli. «Già sentiamo incalzanti – scrive Gorresio – le interpretazioni che ci parlano di piani di agitazioni nella provincia rossa modenese. Sono frusti argomenti che non esauriscono il problema». Rampognato dal Popolo per aver rilasciato nientemeno che una dichiarazione al settimanale comunista Vie Nuove, Gorresio risponde sul Mondo: «È un ragionamento da caporali e non da uomini politici. Fu concepito dai caporali zaristi il 9 gennaio 1905, quando spararono contro gli operai davanti al palazzo d’inverno di Pietroburgo».
Gaetano Baldacci sul Corriere della Sera ha così commentato la pratica delle cariche di polizia: «C’è una realtà disonorevole per il nostro Paese: la rivoltante uccisione di contadini affamati, la Celere come capitolo della scienza economica, mentre i proprietari di immense terre se ne stanno a Roma o a Capri, a intrigare con la politica o con l’alta società».
“Il mitra facile e la poltrona comoda” è il titolo del Giornale della Sera.
“Ai vivi in nome dei morti ” così il fondo di Sandro Pertini sull’Avanti il giorno prima dei funerali: «Cristo per opera di costoro è oggi nuovamente crocifisso».
Mercoledì 11 gennaio è il giorno dei funerali. Il quotidiano del PCI invia Gianni Rodari, uno scrittore e un poeta più che un cronista. “300 mila lavoratori ai funerali delle sei vittime” è il titolo. «La città gloriosa, ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze…».
Dalle otto del mattino alle 8 di sera, tanto è lunga la giornata del grande lutto di Modena: «I sei caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere; uno per uno essi avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta a un sogno angoscioso e passeggero… Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile».
Il discorso di Togliatti muove onde di commozione, si piange tra la folla. Da Modena, da quei funerali di popolo, si leva l’appello per una nuova politica.
Anche dall’estero arrivavano giudizi significativi, come quello espresso da Elisabetta Wiskermann sulla rivista inglese Illustratect: «Il governo democristiano ha creato una polizia organizzatissima e violenta (arruolando molti degli appartenenti alla polizia di Mussolini) e così la classe dei ricchi si è sentita sicura“.
Il dopoguerra è stato quello del “centrismo” di De Gasperi, con la pacificazione postfascista e l’approvazione di una Costituzione ancor oggi da applicare in alcune parti fondamentali, la ricostruzione sotto la tutela a stelle e strisce del Piano Marshall, la politica deflazionistica e di contenimento della spesa pubblica di Luigi Einaudi, la polizia del ministro degli Interni Mario Scelba.
Ma è stato anche quello degli operai delle grandi fabbriche del Nord e dei braccianti del Sud.
Non dobbiamo dimenticare questo pezzo della storia del nostro popolo. La memoria di questi avvenimenti è ancora parte essenziale della nostra ricerca di convivenza solidale, civile, di profonda trasformazione democratica. Rispetto a questo ricordo incancellabile noi che intendiamo ostinatamente mantenerlo non ci sentiamo per nulla superati dalla storia: anzi, proprio la capacità di conservare la memoria ci offre occasioni, anche adesso, di progettare il futuro.
UNA NOTA DELLA “BOTTEGA”
Ci fu un processo per quei morti di Modena ma … imputati furono gli operai. Con poliziotti e carabinieri assolti in partenza. Nel ’54 caddero le accuse e iniziò la causa civile. Le famiglie delle vittime ottennero due milioni di lire, ma l’Avvocatura dello Stato ribadì che “le forze dell’ordine” avevano usato legittimamente le armi da fuoco: una conclusione infame che è stata raccontata raramente. Negli ultimi due anni in “bottega” abbiamo segnalato le iniziative a Modena in ricordo di quanto accadde nel 1950 ma apertamente collegate con la repressione di oggi, in particolare due concerti della Banda POPolare dell’Emilia Rossa (composta da operai metalmeccanici delle principali aziende di Modena): uno degli obiettivi era raccogliere fondi per sostenere le spese legali e processuali del bassista della Banda – nonché delegato Fiom in Ferrari auto, Matteo Parlati – e di altri 3 antifascisti condannati in primo grado a 9 mesi per aver partecipato a una manifestazione contro le celebrazioni della marcia su Roma nel 2011 organizzate dal movimento neofascista Fiamma Tricolore. Casomai qualcuno dubitasse dell’orientamento di gran parte dell’attuale magistratura, il reato di apologia del fascismo non viene quasi mai perseguito dai tribunali mentre fioccano le denunce sulle manifestazioni antifasciste. Abbiamo segnalato in “bottega” anche due recenti libri sulla strage: «All’alba della repubblica. Modena 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite» (edizioni Unicopli) di Lorenzo Bertucelli e «Era il vento non era la folla. Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950» (Bebert edizioni) di Francesco Tinelli. [db]
Una tragedia nella storia del movimento operaio che non deve essere dimenticata.
Questi i nomi degli uccisi dalla “Celere”, in quel giorno fatidico per la storia d’Italia.
Angelo Appiani [30 anni, partigiano, metallurgico] colpito in pieno petto. Immediatamente dal terrazzo della fabbrica altri carabinieri spararono con la mitragliatrice sulla folla di lavoratori che si trovava sulla Via Ciro Menotti oltre il passaggio a livello chiuso per il transito di un treno.
Arturo Chiappelli [43 anni, partigiano, spazzino] e Arturo Malagoli [21 anni bracciante] vennero colpiti a morte, molti furono feriti, alcuni gravemente. La gente scappava, cercava riparo dai colpi
della mitraglia che continuava a sparare, altri cercavano di assistere i feriti con medicazioni improvvise e li trasportavano al riparo.
Roberto Rovatti [36 anni, partigiano, metallurgico] si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti, aveva una sciarpa rossa al collo. Mezz’ora era passata dalla prima sparatoria e veniva circondato da un gruppo di carabinieri, scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del fucile, un linciaggio mortale.
Ennio Garagnani [21 anni, carrettiere] veniva assassinato in Via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblinda che sparava sulla folla.
Lo sciopero generale partì spontaneamente appena si diffuse la notizia del massacro. Un’automobile della Cgil con l’altoparlante avvertiva i lavoratori di concentrarsi in Piazza Roma. Poco dopo mezzogiorno Renzo Bersani [21 anni metallurgico] attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti, all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Montegrappa, un graduato dei CC distante oltre un centinaio di metri s’inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e sparò per uccidere.
E’ necessario ricostruire qual’era il clima sociale dell’epoca, in un’Italia uscita in ginocchio dalla seconda guerra mondiale, nel periodo di avvio della guerra fredda, con la ripresa della tracotanza padronale, all’indomani del trionfo elettorale della DC del 18 aprile 1948 e dell’ingresso nella NATO.
La CGIL, poche settimane dopo l’eccidio pubblicò un supplemento al numero 3 di “Lavoro”, che riportava su pagine di carta povera i fatti e i documenti, le foto e le testimonianze dal vivo di quei giorni cruenti che non è possibile dimenticare.
Nel solo 1948, l’anno del 18 aprile e della DC trionfante, sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti, 14.573 gli arrestati (tra essi 77 segretari di Camere del lavoro). L’impiego della polizia nelle vertenze sindacali è una prassi costante.
Al potere padronale ripreso in pieno dopo la parentesi dei giorni immediatamente seguenti la Liberazione, il potere politico democristiano affiancò quello che fu definito “scelbismo”, dal nome del ministro dell’Interno, Mario Scelba.
Ogni agitazione di lavoratori, che vivevano in condizioni di precarietà e di sfruttamento insostenibili nel quadro di un Paese affamato, con le case distrutte, le vie di comunicazione tutte da ricostruire, era vista come la lunga mano della cospirazione comunista in agguato e le “forze dell’ordine” erano chiamate a sparare sui braccianti e sugli operai per difendere una presunta “libertà” minacciata.
Indelebile, sotto questo aspetto, l’eccidio perpetrato da mafia e poteri occulti il 1 maggio 1947 a Portella della Ginestra.
Nei soli due mesi prima di Modena, ci sono tre eccidi – Melissa, Torremaggiore, Montescaglioso – poveri braccianti stroncati dal piombo sul lungo, sanguinoso cammino dell’occupazione delle terre.
Ma non ci sono metodi meno pesanti nel Nord delle industrie, sono considerati illegittimi e perseguibili a colpi di fucile anche gli scioperi a scacchiera o a singhiozzo, il picchettaggio delle fabbriche “serrate” dai padroni, persino la propaganda sindacale. 185mila militi tra poliziotti, carabinieri, guardie di finanza sono pronti in campo, 50mila in più che sotto il regime fascista.
Il massacro di Modena è però come una deflagrazione che scuote tutta Italia. Le Fonderie Riunite sono il cuore della città operaia e il conte Adolfo Orsi – ex boss fascista, pezzo grosso della Confindustria, proprietario di altre fabbriche metalmeccaniche, di grandi imprese commerciali, di cave nel Bresciano, di vasti possedimenti terrieri – è un vero padrone delle ferriere. Vuole mano libera di cacciar fuori tutti i 565 dipendenti e assumerne quanti gli pare e piace e quando vuole lui; la Commissione interna non gli va e non la vuole; i sindacalisti devono stare fuori dai piedi; la lettera di licenziamento per tutti parte il 3 dicembre e il 5 dello stesso mese con un’altra missiva fa presente che ne riassumerà nemmeno la metà. Il 19 gennaio parte lo sciopero provinciale, i cortei degli operai marciano con le bandiere, le Fonderie Riunite in “serrata” sono presidiate dalla Celere in armi: 800 militi di rinforzo sono stati chiamati da Bologna.
“Affoga nel sangue il governo del 18 aprile” titola a tutta pagina l’Avanti! del giorno dopo. Il governo del 18 aprile: quello dell’atlantismo, della divisione sindacale, della soggezione agli USA, della crociata anticomunista. Il fondo a firma di Pietro Nenni (PSI e PCI sono ancora legati da una Giunta di intesa, che però si scioglierà di lì a pochi anni) è un violentissimo attacco, politico e morale: «Il governo cattolico di De Gasperi e Scelba non ha neppure la comprensione umana e sociale di un Giolitti. La logica interna della sua politica di fame,di odio,di paura lo ha ormai condotto al delitto in permanenza».
Il servizio da Modena è gridato con gli stessi accenti di esecrazione. «Il gonfalone del Comune di Modena, medaglia d’oro della lotta di liberazione, sventola a mezz’asta dal balcone del palazzo municipale. Il più brutale massacro che sia avvenuto dopo la liberazione, massacro paragonabile soltanto agli indiscriminati eccidi compiuti dai nazisti, ha gettato nel lutto la popolazione modenese».
E Fernando Santi (socialista, segretario generale della CGIL) dalle stesse colonne non esita a dichiarare: «La verità è che a Modena – centro proletario per eccellenza – da due anni le autorità stanno svolgendo un’azione di intimidazione e di illegalità allo scopo di indebolire quel formidabile schieramento proletario».
“Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!” è il titolo a 8 colonne dell’Unità dello stesso giorno, 10 gennaio. Lo sciopero generale è in atto in tutta Italia, i metallurgici di tutta Italia sono in sciopero per 24 ore, informa il giornale; e il fondo di Pietro Ingrao, sotto il titolo accusatore “Premeditazione” ha questa conclusione: «Bisogna fermare la mano degli assassini e far intendere a chi ne fosse tentato che sulla strada di Crispi e di Mussolini non si torna. I pazzi sono avvertiti».
Non sono soltanto i giornali della sinistra a condannare, Modena è una visione inquietante. Sulla Stampa prendono posizione contro l’eccidio Vittorio Gorresio e Luigi Salvatorelli. «Già sentiamo incalzanti – scrive Gorresio – le interpretazioni che ci parlano di piani di agitazioni nella provincia rossa modenese. Sono frusti argomenti che non esauriscono il problema». Rampognato dal Popolo per aver rilasciato nientemeno che una dichiarazione al settimanale comunista Vie Nuove, Gorresio risponde sul Mondo: «È un ragionamento da caporali e non da uomini politici. Fu concepito dai caporali zaristi il 9 gennaio 1905, quando spararono contro gli operai davanti al palazzo d’inverno di Pietroburgo».
Gaetano Baldacci sul Corriere della Sera ha così commentato la pratica delle cariche di polizia: «C’è una realtà disonorevole per il nostro Paese: la rivoltante uccisione di contadini affamati, la Celere come capitolo della scienza economica, mentre i proprietari di immense terre se ne stanno a Roma o a Capri, a intrigare con la politica o con l’alta società».
“Il mitra facile e la poltrona comoda” è il titolo del Giornale della Sera.
“Ai vivi in nome dei morti ” così il fondo di Sandro Pertini sull’Avanti il giorno prima dei funerali: «Cristo per opera di costoro è oggi nuovamente crocifisso».
Mercoledì 11 gennaio è il giorno dei funerali. Il quotidiano del PCI invia Gianni Rodari, uno scrittore e un poeta più che un cronista. “300 mila lavoratori ai funerali delle sei vittime” è il titolo. «La città gloriosa, ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze…».
Dalle otto del mattino alle 8 di sera, tanto è lunga la giornata del grande lutto di Modena: «I sei caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere; uno per uno essi avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta a un sogno angoscioso e passeggero… Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile».
Il discorso di Togliatti muove onde di commozione, si piange tra la folla. Da Modena, da quei funerali di popolo, si leva l’appello per una nuova politica.
Anche dall’estero arrivavano giudizi significativi, come quello espresso da Elisabetta Wiskermann sulla rivista inglese Illustratect: «Il governo democristiano ha creato una polizia organizzatissima e violenta (arruolando molti degli appartenenti alla polizia di Mussolini) e così la classe dei ricchi si è sentita sicura“.
Il dopoguerra è stato quello del “centrismo” di De Gasperi, con la pacificazione postfascista e l’approvazione di una Costituzione ancor oggi da applicare in alcune parti fondamentali, la ricostruzione sotto la tutela a stelle e strisce del Piano Marshall, la politica deflazionistica e di contenimento della spesa pubblica di Luigi Einaudi, la polizia del ministro degli Interni Mario Scelba.
Ma è stato anche quello degli operai delle grandi fabbriche del Nord e dei braccianti del Sud.
Non dobbiamo dimenticare questo pezzo della storia del nostro popolo. La memoria di questi avvenimenti è ancora parte essenziale della nostra ricerca di convivenza solidale, civile, di profonda trasformazione democratica. Rispetto a questo ricordo incancellabile noi che intendiamo ostinatamente mantenerlo non ci sentiamo per nulla superati dalla storia: anzi, proprio la capacità di conservare la memoria ci offre occasioni, anche adesso, di progettare il futuro.
UNA NOTA DELLA “BOTTEGA”
Ci fu un processo per quei morti di Modena ma … imputati furono gli operai. Con poliziotti e carabinieri assolti in partenza. Nel ’54 caddero le accuse e iniziò la causa civile. Le famiglie delle vittime ottennero due milioni di lire, ma l’Avvocatura dello Stato ribadì che “le forze dell’ordine” avevano usato legittimamente le armi da fuoco: una conclusione infame che è stata raccontata raramente. Negli ultimi due anni in “bottega” abbiamo segnalato le iniziative a Modena in ricordo di quanto accadde nel 1950 ma apertamente collegate con la repressione di oggi, in particolare due concerti della Banda POPolare dell’Emilia Rossa (composta da operai metalmeccanici delle principali aziende di Modena): uno degli obiettivi era raccogliere fondi per sostenere le spese legali e processuali del bassista della Banda – nonché delegato Fiom in Ferrari auto, Matteo Parlati – e di altri 3 antifascisti condannati in primo grado a 9 mesi per aver partecipato a una manifestazione contro le celebrazioni della marcia su Roma nel 2011 organizzate dal movimento neofascista Fiamma Tricolore. Casomai qualcuno dubitasse dell’orientamento di gran parte dell’attuale magistratura, il reato di apologia del fascismo non viene quasi mai perseguito dai tribunali mentre fioccano le denunce sulle manifestazioni antifasciste. Abbiamo segnalato in “bottega” anche due recenti libri sulla strage: «All’alba della repubblica. Modena 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite» (edizioni Unicopli) di Lorenzo Bertucelli e «Era il vento non era la folla. Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950» (Bebert edizioni) di Francesco Tinelli. [db]
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