un contributo di Daniela Leonardi *
Un approfondimento e una cronologia sulla “sicurezza urbana”
Con
l’abbassamento delle temperature, l’inverno ormai alle porte, i media
riscoprono come di consueto l’esistenza delle persone senza dimora.
Questa stagione è iniziata, contrariamente al solito, con articoli
diversi dal racconto del pericolo di vita per chi è costretto a dormire
all’aperto. Verso fine novembre abbiamo letto la notizia
dell’applicazione del Daspo Urbano – previsto dal decreto
Minniti-Orlando, convertito nella legge 48 del 2017 – comminato a una
decina di persone homeless nella città di Bologna. Con la loro presenza
queste persone avrebbero ostacolato il passaggio dei pedoni; sono state,
quindi, forzatamente costrette ad andarsene in nome del decoro e della
sicurezza urbana. Cosa si intende per sicurezza urbana? «Per
sicurezza urbana si intende il bene pubblico che afferisce alla
vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso
interventi di riqualificazione e recupero delle aree, l’eliminazione dei
fattori di
marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile».
Successivamente è il turno di un altro sindaco, questa volta della città di Como, che con un’ordinanza rende illegale «mendicare in forma dinamica ponendo in essere forme di accattonaggio molesto ed invasivo tali da coartare l’autodeterminazione delle persone a compiere atti di liberalità; mendicare in forma statica occupando spazio pubblici anche con l’utilizzo di cartoni, cartelli ed accessori vari che arrecano disagio al passaggio dei pedoni».
A suo dire la città da tempo manifesta bisogno di decoro e contrasto all’accattonaggio molesto. Mi colpiscono il linguaggio e di conseguenza le rappresentazioni che tale linguaggio suggerisce: l’accattonaggio viene descritto come molesto e invasivo al punto da costringere, limitare l’autodeterminazione delle persone. In che modo potrebbe realmente limitare l’autodeterminazione delle persone? Anche il termine persone è indicativo: viene utilizzato solo per “gli altri”, non per chi mendica. E l’autodeterminazione di chi si trova a chiedere l’elemosina? O di chi vuol portare cibo e bevande a chi si trova per strada e non può perché è stato dichiarato illegale? La solidarietà, la gentilezza sono illegali durante il periodo dello shopping natalizio. Essere poveri e farsi vedere, è illegale durante il periodo dello shopping natalizio, è quel che si evince leggendo che è vietato mendicare il forma statica. I poveri devono sparire dalla vista.
Al di là della cronaca proviamo, dunque, a fare qualche prima riflessione che successivamente andrà senz’altro sviluppata e ampliata.
Il rapporto complesso tra disagio abitativo e disagio sociale caratterizza le politiche a contrasto della povertà in Italia e, nello specifico, le politiche rivolte alle persone senza dimora. Storicamente nel nostro paese “il diritto alla casa” per chi non ha un tetto sopra la testa ha occupato un posto estremamente marginale nel dibattito politico istituzionale mentre il concetto di esclusione sociale ha avuto senza dubbio un ruolo di primo piano. Tale concetto viene spesso usato in maniera impropria senza essere problematizzato. Castel (e.g. 2007), ad esempio, ha sempre messo in evidenza, tra gli altri, il rischio che la nozione di esclusione porti a ragionare in termini di condizioni e stati determinati anziché di processi. In tempi recenti a dire il vero anche alcune politiche di contrasto alla povertà stanno timidamente muovendo qualche passo nella direzione del superamento della dicotomia inclusi/esclusi ma si tratta ancora, appunto, di primi passi.
Riflettere sul rapporto tra disagio abitativo e sociale è fondamentale poiché a seconda dell’accento posto sul primo o sul secondo termine le soluzioni attivate nella pratica differiscono significativamente le une dalle altre. Se si parte dal presupposto che le persone abbiano un disagio legato alla mancanza di un’abitazione, gli interventi implementati andranno nella direzione di colmare questa mancanza fornendo materialmente un tetto sopra la testa a chi ne è sprovvisto. Diversamente, se si mette in evidenza il disagio sociale che caratterizzerebbe gli individui senza dimora, si giustifica la messa in moto della macchina dell’accoglienza. Le persone vengono esposte (relegate?) alla “presa in carico sociale” ovvero dormitori, container provvisori allestiti nei mesi invernali, mense ecc. In questa concezione chiamata modello a gradini la casa è il traguardo finale di un lungo percorso di rieducazione. «Per la sua stessa strutturazione il modello può configurarsi come un dispositivo di controllo ancor più che un attivatore di diritti; la casa, collocata alla fine del percorso, risulta essere il “premio” al termine di un lungo percorso in salita, anziché un diritto di base» (Porcellana, 2016, p. 50). Nella letteratura anglosassone questo sistema di intervento viene definito treatment first e può essere contrapposto alla concezione housing first i cui fautori sostengono che si debba partire dal fornire alla persona una casa per farle recuperare sicurezza e da lì ripartire.
Non è mia intenzione negare che il disagio sociale e problematiche sanitarie, psicologiche, psichiatriche spesso affliggano le persone senza dimora, ma la domanda che ritengo sia importante porre è se tali problematiche siano la causa o la conseguenza della vita in strada.
Bisogna, inoltre, richiamare all’attenzione il fatto che per coloro che rifiutano, o non sono in grado di rapportarsi con l’assistenza sociale, è prevista l’espulsione. Sapersi orientare e relazionare con la galassia variegata di attori e realtà che compongono il sistema d’accoglienza è tutt’altro che facile. Ci sono parecchie regole che vanno apprese, strategie di resistenza da saper inventare e attuare, relazioni da costruire, ruoli da saper giocare (Meo, 2000).
La volontà di espulsione, seppure non sia una condizione generalizzata che riguarda tutte le città, è una tendenza che si sta manifestando in diverse realtà urbane di cui gli ultimi due esempi recentemente sulle cronache dei giornali si sono verificati a Bologna e Como. In nome del “decoro”, termine passepartout, si giustificano misure di una violenza inaudita e si criminalizzano delle persone non perché stanno compiendo atti criminosi, ma in quanto senza dimora.
Il fenomeno dell’homelessness è complesso – la popolazione che vive questa condizione è estremamente variegata – e si può analizzare usando diverse chiavi interpretative: dall’ottica delle disuguaglianze sociali a quella dell’accesso ai diritti di cittadinanza. In questa riflessione si è scelto di focalizzarsi sui processi di governo della povertà.
In questa prospettiva l’obiettivo è di andare oltre il discorso sull’esclusione, che può essere considerato un meccanismo d’occultamento dei dispositivi di controllo sociale (Castel, 2007), per far emergere alcuni tratti essenziali delle forme di governamentalità neoliberale che investono le persone marginalizzate. Parlare di esclusione, quando si definiscono con termini negativi gli individui esclusi, equivale a cancellare lo spazio sociale in cui tali individui sono inseriti (Baroni, Petti, 2014). Dando risalto esclusivamente alla loro presunta desocializzazione, alla minaccia potenziale al decoro, si dà l’avvio a un pericoloso processo di criminalizazione (Sahlin, 2004). Esempio perfetto purtroppo sono le persone senzatetto, senza visibilità né voice (Hirschman, 1970). Allo stesso tempo non si vuol descrivere l’homelessness come una traiettoria individuale, invece che come una figura attraverso la quale si organizza il controllo politico dei gruppi sociali marginalizzati (Baroni e Petti, 2014).
Per far questo è necessario mettere in relazione le politiche sulla sicurezza urbana, che sono parte della gestione dell’homelessness, con la ridefinizione delle modalità di azione dello stato. Smantellamento del sistema di welfare, ruolo sempre più importante degli enti del Terzo Settore, delle fondazioni, degli enti caritatevoli nel sistema di accoglienza che sanciscono il passaggio dal diritto al paternalismo discrezionale, rafforzamento dello stato penale: queste trasformazioni sono il risultato della conversione della classe dirigente all’ideologia neoliberale e sono «le componenti di un nuovo macchinario istituzionale per la gestione della povertà» (Wacquant, 2006, p. 273).
La legge 48 del 2017 e le sue applicazioni pratiche ad opera di alcuni sindaci dichiarano guerra aperta ai poveri anziché alla povertà.
Daniela Leonardi
da Effimera
Bibliografia
Baroni, W., Petti, G., (2014), Cultura della vulnerabilità. L’homelessness e i suoi territori, Torino, Pearson.
Castel, R., (2007), “Inquadrare l’esclusione”, in G. Covoli (a cura di), Gli esclusi, Macerata, Quodlibet, pp. 47-65.
Hirschman, A., (1970), Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge, Harvard University Press, trad. it., Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato, Milano, Bompiani, 2002.
Meo, A., (2000), Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Napoli, Liguori Editore.
Porcellana, V., (2016), Dal bisogno al desiderio. Antropologia dei servizi per adulti in difficoltà e senza dimora a Torino, Milano, FrancoAngeli.
Sahlin, I., (2004), “Enclosure or Inclusion? Urban Improvement and Homelessness Policies”, in Open House International ,29, 2, pp. 24-31.
Wacquant, L., (2006), Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi.
Questa vaghezza darà ai sindaci ampio spazio di manovra, consentendo loro di sanzionare i comportamenti più diversi, arrivando a una arbitrarietà tale da costringere la Corte costituzionale, nel 2011, a porre un freno con una sentenza che stigmatizza alcune ordinanze come incompatibili «con il quadro costituzionale che tutela la libertà individuale da limitazione e abusi». Ma se la legge libera il potere dei sindaci di tutte le appartenenze politiche e produce una mole immensa di ordinanze, l’onda repressiva contro alcuni gruppi sociali data da ben prima, dagli anni Novanta del Novecento, quando il tema della sicurezza urbana entra nelle agende politiche soprattutto del Nord e del Centro Italia: il Comitato Città Sicure nasce a Bologna nel 1992, all’inizio cerca – anche grazie al contributo di studiosi e criminologi non certo adepti del securitarismo – soluzioni di tipo partecipativo e negoziale e ancorate a una idea di welfare capace di includere rispettando i diritti di tutti, «una sicurezza dei diritti di tutti voleva significare la priorità data a politiche locali inclusive, dove la prevenzione sociale si coniugasse sì ad azioni di controllo territoriale – la cosiddetta prevenzione situazionale – ma rimanesse centrale nel disegno degli interventi» (Pitch, 2013).
Buona intenzione franata molto rapidamente sotto i colpi del declino del welfare stesso, che selezionava e non includeva più, e gli imperativi della politica locale, dove, è bene ricordarlo, i sindaci vengono ora eletti direttamente dai cittadini. Politica locale basata su due concetti cardine, l’insicurezza percepita, che via via perde l’appiglio con i dati di realtà, alimentando paure pur smentite dai fatti, per esempio dai dati (in quegli anni decrescenti) della microcriminalità; e il decoro urbano, concetto anch’esso vago, che chiama in causa non reati o comportamenti aggressivi, ma il disturbo, la nuisance anglosassone, che può essere visivo, uditivo, fisico, morale (la decenza). Sempre Pitch: «Da quando i sindaci vengono eletti direttamente, il loro protagonismo si è moltiplicato e il loro impegno più visibile, soprattutto negli ultimi anni (non a caso quelli in cui le risorse per le politiche sociali sono drasticamente diminuite) si esplica attraverso ordinanze volte a ripulire la città in nome del decoro». E che cos’è una città pulita? «Per loro una città decorosa è una città dove miseria e marginalità non si vedono, dove germi e batteri portatori di contagio si identificano nei rom, nei mendicanti, nei lavavetri, nei venditori abusivi di strada, nelle prostitute, nel proliferare di negozi di cibo etnico» (Pitch, 2013).
Le metafore della pulizia entrano nella scena politica, si bonificano i quartieri dalle persone, si puliscono le strade dai corpi ingombranti, si vietano luoghi e spazi, si caccia e si confina.
Sindaci securitari. Cronologia del potere sulla sicurezza urbana
L’assunzione da parte della città del potere di penalizzare le povertà e “ripulirsi” dal disturbo fisico (all’ambiente) e sociale (relativo ai comportamenti) ha una storia che include sperimentazioni autonome, negoziazioni con il potere centrale, ampliamento di poteri locali, censure da parte dell’Alta Corte.
Queste le tappe principali:
In realtà, se è vero che i più poveri e i più marginali sono il “nemico perfetto”, apripista delle ordinanze, prima, e oggetto privilegiato dei Regolamenti di polizia locale, poi, è anche vero che l’approccio securitario investe comportamenti di massa quali quelli giovanili e le loro modalità di uso dello spazio pubblico, che la politica non è in grado (o non vuole) di governare con strumenti sociali e partecipativi. Leggendo, infatti, i dati relativi alla prima ondata di ordinanze che fece seguito ai nuovi poteri dei sindaci (2008), se il bersaglio principale sono le prostitute (il 15% delle ordinanze) e i mendicanti (l’8,4%), le ordinanze contro i giovani non sono da meno: consumo di bevande alcoliche e schiamazzi (la movida) e vandalismo (i graffiti) assommano a circa il 30% delle ordinanze (Cittalia-ANCI, 2009). Ma il restante 70% delle ordinanze e delle sanzioni è destinato a loro, quelli che sporcano le città: prostitute, tossicodipendenti, mendicanti, immigrati, questi ultimi in parte inclusi trasversalmente nei diversi target, in parte come attori di comportamenti specifici di sopravvivenza: commercianti abusivi e/o di merce contraffatta, venditori di bevande in strada, gestori di negozi etnici.
Se il boom delle ordinanze appartiene al 2008-2009, e i due anni successivi vedono un calo complessivo tra tutti gli 8094 Comuni italiani, le grandi città continuano invece a utilizzare la deliberazione locale come strumento emergenziale, e su questo non a molto è valsa la censura della Corte costituzionale, che dal 2011 vieta loro di fare delle ordinanze uno strumento ordinario di governo. Il fatto è che nell’approccio securitario l’emergenza (inclusa la sua temporaneità) è l’ordinario. La “pulizia” di luoghi e spazi pubblici attraverso l’espulsione di gruppi sociali e individui indesiderati è predominante nelle ordinanze comunali: all’interno di 500 provvedimenti esaminati da una ricerca di Cittalia-ANCI sull’anno 2010, vi sono 700 divieti o prescrizioni (che dunque implicano sanzioni) relativi a ciò che viene definito ordine sociale (le cui lesioni si chiamano inciviltà contro l’ordine sociale), che null’altro sono se non comportamenti umani, individuali o collettivi che urtano la sensibilità e la paura sociale e che, non essendo reati, vengono normati dalle ordinanze comunali. Colpiscono «comportamenti e condotte che possono violare, o favorire la violazione degli standard di convivenza concernenti lo spazio pubblico e una certa regolazione convenzionale del tempo sociale nonché standard di cura e mantenimento del territorio» e riguardano «nel 68% dei casi, il mercato dell’intrattenimento e l’uso dello spazio pubblico da parte delle masse giovanili, le richieste dei questuanti, i comportamenti non penalmente rilevanti di tossicodipendenti, spacciatori, prostitute di strada, nonché vagabondi» (Giovannetti, 2012).
Il fatto che comportamenti non penalmente rilevanti diventino sanzionabili significa che i Comuni si fanno ormai stabilmente protagonisti di un processo pervasivo di penalizzazione della società e dei suoi gruppi più fragili.
da contropiano
marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile».
Successivamente è il turno di un altro sindaco, questa volta della città di Como, che con un’ordinanza rende illegale «mendicare in forma dinamica ponendo in essere forme di accattonaggio molesto ed invasivo tali da coartare l’autodeterminazione delle persone a compiere atti di liberalità; mendicare in forma statica occupando spazio pubblici anche con l’utilizzo di cartoni, cartelli ed accessori vari che arrecano disagio al passaggio dei pedoni».
A suo dire la città da tempo manifesta bisogno di decoro e contrasto all’accattonaggio molesto. Mi colpiscono il linguaggio e di conseguenza le rappresentazioni che tale linguaggio suggerisce: l’accattonaggio viene descritto come molesto e invasivo al punto da costringere, limitare l’autodeterminazione delle persone. In che modo potrebbe realmente limitare l’autodeterminazione delle persone? Anche il termine persone è indicativo: viene utilizzato solo per “gli altri”, non per chi mendica. E l’autodeterminazione di chi si trova a chiedere l’elemosina? O di chi vuol portare cibo e bevande a chi si trova per strada e non può perché è stato dichiarato illegale? La solidarietà, la gentilezza sono illegali durante il periodo dello shopping natalizio. Essere poveri e farsi vedere, è illegale durante il periodo dello shopping natalizio, è quel che si evince leggendo che è vietato mendicare il forma statica. I poveri devono sparire dalla vista.
Al di là della cronaca proviamo, dunque, a fare qualche prima riflessione che successivamente andrà senz’altro sviluppata e ampliata.
Il rapporto complesso tra disagio abitativo e disagio sociale caratterizza le politiche a contrasto della povertà in Italia e, nello specifico, le politiche rivolte alle persone senza dimora. Storicamente nel nostro paese “il diritto alla casa” per chi non ha un tetto sopra la testa ha occupato un posto estremamente marginale nel dibattito politico istituzionale mentre il concetto di esclusione sociale ha avuto senza dubbio un ruolo di primo piano. Tale concetto viene spesso usato in maniera impropria senza essere problematizzato. Castel (e.g. 2007), ad esempio, ha sempre messo in evidenza, tra gli altri, il rischio che la nozione di esclusione porti a ragionare in termini di condizioni e stati determinati anziché di processi. In tempi recenti a dire il vero anche alcune politiche di contrasto alla povertà stanno timidamente muovendo qualche passo nella direzione del superamento della dicotomia inclusi/esclusi ma si tratta ancora, appunto, di primi passi.
Riflettere sul rapporto tra disagio abitativo e sociale è fondamentale poiché a seconda dell’accento posto sul primo o sul secondo termine le soluzioni attivate nella pratica differiscono significativamente le une dalle altre. Se si parte dal presupposto che le persone abbiano un disagio legato alla mancanza di un’abitazione, gli interventi implementati andranno nella direzione di colmare questa mancanza fornendo materialmente un tetto sopra la testa a chi ne è sprovvisto. Diversamente, se si mette in evidenza il disagio sociale che caratterizzerebbe gli individui senza dimora, si giustifica la messa in moto della macchina dell’accoglienza. Le persone vengono esposte (relegate?) alla “presa in carico sociale” ovvero dormitori, container provvisori allestiti nei mesi invernali, mense ecc. In questa concezione chiamata modello a gradini la casa è il traguardo finale di un lungo percorso di rieducazione. «Per la sua stessa strutturazione il modello può configurarsi come un dispositivo di controllo ancor più che un attivatore di diritti; la casa, collocata alla fine del percorso, risulta essere il “premio” al termine di un lungo percorso in salita, anziché un diritto di base» (Porcellana, 2016, p. 50). Nella letteratura anglosassone questo sistema di intervento viene definito treatment first e può essere contrapposto alla concezione housing first i cui fautori sostengono che si debba partire dal fornire alla persona una casa per farle recuperare sicurezza e da lì ripartire.
Non è mia intenzione negare che il disagio sociale e problematiche sanitarie, psicologiche, psichiatriche spesso affliggano le persone senza dimora, ma la domanda che ritengo sia importante porre è se tali problematiche siano la causa o la conseguenza della vita in strada.
Bisogna, inoltre, richiamare all’attenzione il fatto che per coloro che rifiutano, o non sono in grado di rapportarsi con l’assistenza sociale, è prevista l’espulsione. Sapersi orientare e relazionare con la galassia variegata di attori e realtà che compongono il sistema d’accoglienza è tutt’altro che facile. Ci sono parecchie regole che vanno apprese, strategie di resistenza da saper inventare e attuare, relazioni da costruire, ruoli da saper giocare (Meo, 2000).
La volontà di espulsione, seppure non sia una condizione generalizzata che riguarda tutte le città, è una tendenza che si sta manifestando in diverse realtà urbane di cui gli ultimi due esempi recentemente sulle cronache dei giornali si sono verificati a Bologna e Como. In nome del “decoro”, termine passepartout, si giustificano misure di una violenza inaudita e si criminalizzano delle persone non perché stanno compiendo atti criminosi, ma in quanto senza dimora.
Il fenomeno dell’homelessness è complesso – la popolazione che vive questa condizione è estremamente variegata – e si può analizzare usando diverse chiavi interpretative: dall’ottica delle disuguaglianze sociali a quella dell’accesso ai diritti di cittadinanza. In questa riflessione si è scelto di focalizzarsi sui processi di governo della povertà.
In questa prospettiva l’obiettivo è di andare oltre il discorso sull’esclusione, che può essere considerato un meccanismo d’occultamento dei dispositivi di controllo sociale (Castel, 2007), per far emergere alcuni tratti essenziali delle forme di governamentalità neoliberale che investono le persone marginalizzate. Parlare di esclusione, quando si definiscono con termini negativi gli individui esclusi, equivale a cancellare lo spazio sociale in cui tali individui sono inseriti (Baroni, Petti, 2014). Dando risalto esclusivamente alla loro presunta desocializzazione, alla minaccia potenziale al decoro, si dà l’avvio a un pericoloso processo di criminalizazione (Sahlin, 2004). Esempio perfetto purtroppo sono le persone senzatetto, senza visibilità né voice (Hirschman, 1970). Allo stesso tempo non si vuol descrivere l’homelessness come una traiettoria individuale, invece che come una figura attraverso la quale si organizza il controllo politico dei gruppi sociali marginalizzati (Baroni e Petti, 2014).
Per far questo è necessario mettere in relazione le politiche sulla sicurezza urbana, che sono parte della gestione dell’homelessness, con la ridefinizione delle modalità di azione dello stato. Smantellamento del sistema di welfare, ruolo sempre più importante degli enti del Terzo Settore, delle fondazioni, degli enti caritatevoli nel sistema di accoglienza che sanciscono il passaggio dal diritto al paternalismo discrezionale, rafforzamento dello stato penale: queste trasformazioni sono il risultato della conversione della classe dirigente all’ideologia neoliberale e sono «le componenti di un nuovo macchinario istituzionale per la gestione della povertà» (Wacquant, 2006, p. 273).
La legge 48 del 2017 e le sue applicazioni pratiche ad opera di alcuni sindaci dichiarano guerra aperta ai poveri anziché alla povertà.
Daniela Leonardi
da Effimera
Bibliografia
Baroni, W., Petti, G., (2014), Cultura della vulnerabilità. L’homelessness e i suoi territori, Torino, Pearson.
Castel, R., (2007), “Inquadrare l’esclusione”, in G. Covoli (a cura di), Gli esclusi, Macerata, Quodlibet, pp. 47-65.
Hirschman, A., (1970), Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge, Harvard University Press, trad. it., Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato, Milano, Bompiani, 2002.
Meo, A., (2000), Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Napoli, Liguori Editore.
Porcellana, V., (2016), Dal bisogno al desiderio. Antropologia dei servizi per adulti in difficoltà e senza dimora a Torino, Milano, FrancoAngeli.
Sahlin, I., (2004), “Enclosure or Inclusion? Urban Improvement and Homelessness Policies”, in Open House International ,29, 2, pp. 24-31.
Wacquant, L., (2006), Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi.
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L’Italia
ha vissuto il boom del protagonismo delle città sulla sicurezza con
l’ondata delle ordinanze seguite a un’innovazione legislativa nazionale,
quella legge n. 125 del 2008 che all’articolo 54 attribuisce ai sindaci
il potere di deliberare in difesa della incolumità pubblica e della sicurezza urbana.
Per la prima volta questo termine è accreditato in una legge dello
Stato, per altro rimanendo nel limbo di una definizione vaga, o meglio,
come sottolinea la criminologa Tamar Pitch, tautologica: «Bene pubblico
da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle
comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile,
per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la
convivenza civile e la coesione sociale» (Pitch, 2013).Questa vaghezza darà ai sindaci ampio spazio di manovra, consentendo loro di sanzionare i comportamenti più diversi, arrivando a una arbitrarietà tale da costringere la Corte costituzionale, nel 2011, a porre un freno con una sentenza che stigmatizza alcune ordinanze come incompatibili «con il quadro costituzionale che tutela la libertà individuale da limitazione e abusi». Ma se la legge libera il potere dei sindaci di tutte le appartenenze politiche e produce una mole immensa di ordinanze, l’onda repressiva contro alcuni gruppi sociali data da ben prima, dagli anni Novanta del Novecento, quando il tema della sicurezza urbana entra nelle agende politiche soprattutto del Nord e del Centro Italia: il Comitato Città Sicure nasce a Bologna nel 1992, all’inizio cerca – anche grazie al contributo di studiosi e criminologi non certo adepti del securitarismo – soluzioni di tipo partecipativo e negoziale e ancorate a una idea di welfare capace di includere rispettando i diritti di tutti, «una sicurezza dei diritti di tutti voleva significare la priorità data a politiche locali inclusive, dove la prevenzione sociale si coniugasse sì ad azioni di controllo territoriale – la cosiddetta prevenzione situazionale – ma rimanesse centrale nel disegno degli interventi» (Pitch, 2013).
Buona intenzione franata molto rapidamente sotto i colpi del declino del welfare stesso, che selezionava e non includeva più, e gli imperativi della politica locale, dove, è bene ricordarlo, i sindaci vengono ora eletti direttamente dai cittadini. Politica locale basata su due concetti cardine, l’insicurezza percepita, che via via perde l’appiglio con i dati di realtà, alimentando paure pur smentite dai fatti, per esempio dai dati (in quegli anni decrescenti) della microcriminalità; e il decoro urbano, concetto anch’esso vago, che chiama in causa non reati o comportamenti aggressivi, ma il disturbo, la nuisance anglosassone, che può essere visivo, uditivo, fisico, morale (la decenza). Sempre Pitch: «Da quando i sindaci vengono eletti direttamente, il loro protagonismo si è moltiplicato e il loro impegno più visibile, soprattutto negli ultimi anni (non a caso quelli in cui le risorse per le politiche sociali sono drasticamente diminuite) si esplica attraverso ordinanze volte a ripulire la città in nome del decoro». E che cos’è una città pulita? «Per loro una città decorosa è una città dove miseria e marginalità non si vedono, dove germi e batteri portatori di contagio si identificano nei rom, nei mendicanti, nei lavavetri, nei venditori abusivi di strada, nelle prostitute, nel proliferare di negozi di cibo etnico» (Pitch, 2013).
Le metafore della pulizia entrano nella scena politica, si bonificano i quartieri dalle persone, si puliscono le strade dai corpi ingombranti, si vietano luoghi e spazi, si caccia e si confina.
Sindaci securitari. Cronologia del potere sulla sicurezza urbana
L’assunzione da parte della città del potere di penalizzare le povertà e “ripulirsi” dal disturbo fisico (all’ambiente) e sociale (relativo ai comportamenti) ha una storia che include sperimentazioni autonome, negoziazioni con il potere centrale, ampliamento di poteri locali, censure da parte dell’Alta Corte.
Queste le tappe principali:
- 1994-1998: pressione dei sindaci per l’utilizzo delle polizie locali in funzione anticriminalità, conflitto con i poteri centrali di Prefetture e Interni;
- 1998-1999: si apre il dialogo con il governo centrale, è l’epoca dei protocolli d’intesa tra Comuni e Prefetture e dei progetti per la sicurezza a livello comunale; ● 1998-2001: anni di negoziazione tra Comuni e Stato centrale, si approda alla riforma del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, in cui entrano di diritto sindaci e presidenti delle Province;
- 2000-2005: a livello centrale approvazione del Pacchetto sicurezza, che inasprisce le pene sui reati predatori, incentiva operazioni di ordine pubblico sui territori e stipula di accordi di programma sulla sicurezza urbana tra città e Stato centrale;
- 2006-2008: una vera escalation del discorso securitario nelle città, stipula dei Patti per la sicurezza tra governo e alcune città metropolitane (ne saranno firmati 70);
- 2008, la svolta: nuovi poteri ai sindaci con il Pacchetto sicurezza del 2008 (Legge 24 luglio 2008, n. 125 di conversione del Decreto Legge 23 maggio 2008, n. 92, recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”) che decreta i poteri dei sindaci in materia di: comportamenti di spaccio e consumo di droghe, prostituzione, accattonaggio, fenomeni di violenza, sfruttamento di minori e disabili, danneggiamento al patrimonio pubblico e privato, incuria, degrado, occupazioni abusive, pubblica viabilità, decoro urbano;
- 2011: la Corte costituzionale (sentenza 7 aprile 2011, n. 115, sollevata dal TAR del Veneto) dichiara che il sindaco quale ufficiale del governo non può emanare dei provvedimenti in maniera che non sia contingibile e urgente, cioè non possono essere norme permanenti, perché creerebbero diseguaglianza di trattamento tra cittadini sul territorio nazionale e potrebbero essere in contraddizione con le leggi dello Stato. Tuttavia, l’emergenza continua a legittimare ordinanze securitarie che vengono adottate e reiterate con continuità, soprattutto nei Comuni più grandi;
- dopo il 2011, nel processo di messa a regime delle politiche urbane securitarie, assumono crescente rilevanza i Regolamenti di polizia municipale, alla cui riforma ad hoc – a oggi non attuata – si rimanda per ovviare in via ordinaria ciò che le ordinanze possono fare solo extra legem e temporaneamente (Giovannetti, 2012).
In realtà, se è vero che i più poveri e i più marginali sono il “nemico perfetto”, apripista delle ordinanze, prima, e oggetto privilegiato dei Regolamenti di polizia locale, poi, è anche vero che l’approccio securitario investe comportamenti di massa quali quelli giovanili e le loro modalità di uso dello spazio pubblico, che la politica non è in grado (o non vuole) di governare con strumenti sociali e partecipativi. Leggendo, infatti, i dati relativi alla prima ondata di ordinanze che fece seguito ai nuovi poteri dei sindaci (2008), se il bersaglio principale sono le prostitute (il 15% delle ordinanze) e i mendicanti (l’8,4%), le ordinanze contro i giovani non sono da meno: consumo di bevande alcoliche e schiamazzi (la movida) e vandalismo (i graffiti) assommano a circa il 30% delle ordinanze (Cittalia-ANCI, 2009). Ma il restante 70% delle ordinanze e delle sanzioni è destinato a loro, quelli che sporcano le città: prostitute, tossicodipendenti, mendicanti, immigrati, questi ultimi in parte inclusi trasversalmente nei diversi target, in parte come attori di comportamenti specifici di sopravvivenza: commercianti abusivi e/o di merce contraffatta, venditori di bevande in strada, gestori di negozi etnici.
Se il boom delle ordinanze appartiene al 2008-2009, e i due anni successivi vedono un calo complessivo tra tutti gli 8094 Comuni italiani, le grandi città continuano invece a utilizzare la deliberazione locale come strumento emergenziale, e su questo non a molto è valsa la censura della Corte costituzionale, che dal 2011 vieta loro di fare delle ordinanze uno strumento ordinario di governo. Il fatto è che nell’approccio securitario l’emergenza (inclusa la sua temporaneità) è l’ordinario. La “pulizia” di luoghi e spazi pubblici attraverso l’espulsione di gruppi sociali e individui indesiderati è predominante nelle ordinanze comunali: all’interno di 500 provvedimenti esaminati da una ricerca di Cittalia-ANCI sull’anno 2010, vi sono 700 divieti o prescrizioni (che dunque implicano sanzioni) relativi a ciò che viene definito ordine sociale (le cui lesioni si chiamano inciviltà contro l’ordine sociale), che null’altro sono se non comportamenti umani, individuali o collettivi che urtano la sensibilità e la paura sociale e che, non essendo reati, vengono normati dalle ordinanze comunali. Colpiscono «comportamenti e condotte che possono violare, o favorire la violazione degli standard di convivenza concernenti lo spazio pubblico e una certa regolazione convenzionale del tempo sociale nonché standard di cura e mantenimento del territorio» e riguardano «nel 68% dei casi, il mercato dell’intrattenimento e l’uso dello spazio pubblico da parte delle masse giovanili, le richieste dei questuanti, i comportamenti non penalmente rilevanti di tossicodipendenti, spacciatori, prostitute di strada, nonché vagabondi» (Giovannetti, 2012).
Il fatto che comportamenti non penalmente rilevanti diventino sanzionabili significa che i Comuni si fanno ormai stabilmente protagonisti di un processo pervasivo di penalizzazione della società e dei suoi gruppi più fragili.
da contropiano
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