Dall’intervista di Limes al viceministro
Giro, che riportiamo sotto, viene chiaro alla luce l’indirizzo di fondo dell’imperialismo
italiano in Africa. Imperialismo che è attivo anche su tanti altri fronti ma su
questo il governo ha un programma particolare fatto di aiuti alle imprese per “internazionalizzarle”,
per conquistare e controllare territori sia dal punto di vista strettamente
militare, ma soprattutto per quello economico di cui quello militare è al
servizio.
Sottolineiamo alcune frasi dell’intervista,
mentre ne commentiamo qui alcune che danno il senso della frase del viceministro:
“L’Africa è la nostra profondità strategica”. Ciò vuol dire che l’imperialismo
italiano, che partecipa a questa nuova “spartizione dell’Africa”, continuerà ad
investire moltissimo su questo fronte. Il viceministro si vanta del proprio
governo perché è “riuscito a invertire la tendenza all’approccio settoriale, armonizzando cooperazione allo sviluppo,
diplomazia, sicurezza e imprenditorialità”.
Che ci facciamo dunque in Africa?
Complimentandosi per l’impegno generale degli altri paesi imperialisti Giro
dice però chiaramente: “Siamo in
competizione economica con gli altri europei nel settore privato, ma ben
venga se è indirizzata allo sviluppo dell’Africa.” Questa “competizione”, nascosta
sempre dietro lo “sviluppo” del paese, è il normale sbocco della contraddizione
tra paesi imperialisti per la conquista dei “mercati” che di tanto in tanto
sfocia in aperte guerre interimperialiste.
In Libia, dice Giro: “Vi sono almeno centocinquanta milizie
le quali, oltre a usare i traffici per fare economia e sostentarsi, si sono
trasformate in Consigli rivoluzionari con un potere locale di cui non intendono
privarsi.” Questa frase, insieme a quest’altra domanda e risposta: “La drastica
diminuzione dei flussi migratori verso l’Italia – di circa un terzo nel 2017 –
è contingente o strutturale? Contingente” (!), rende carta straccia le
chiacchiere propagandistiche dell’onnipresente Ministro dell’Interno Minniti
che ha sbandierato gli accordi in Libia come risolutivi del “controllo” dei
flussi dei migranti!
Ma il viceministro Giro deve
continuare a fare propaganda e perciò alla domanda sulle condizioni attuali in
Libia e in particolare nella capitale risponde così: “A Tripoli vigono ormai condizioni
di vita accettabili.” Un’affermazione così inverosimile che il giornalista è
costretto a dire ancora: “Eppure, l’Italia è l’unico paese occidentale ad aver
riaperto un’ambasciata nella capitale libica.”
Giro risponde con questa frase di
chiusura confermando la “visione” dell’imperialismo italiano sull’Africa: “Il
mondo ha uno sguardo rassegnato sulla Libia, simile a quello riservato alla
Somalia.” Ma… “Visti gli interessi in
gioco e la nostra sicurezza nazionale, l’Italia però non può permetterselo.
Perciò abbiamo moltiplicato gli sforzi, nonostante la farraginosità del
processo sotto l’egida dell’Onu. Ma l’impulso decisivo deve provenire dai
locali. Il futuro della Libia e nelle loro mani.”
“La nostra sicurezza nazionale” è
un’affermazione in perfetto stile Minniti che serve solo ad alimentare le “paure”
e rafforzare l’apparato repressivo dello Stato contro le masse popolari interne
ed esterne. Mentre la frase di chiusura dell’intervista, dopo l’elenco lungo e
articolato della presenza imperialista in Africa, prova ancora sfacciatamente ad
ingannare chi legge: “Il futuro della Libia e nelle loro mani” (!) Certo, è
nelle mani dei libici, del popolo libico, ma solo se questo riesce ad
organizzarsi per spazzare via dalla Libia l’imperialismo italiano e ogni altro
imperialismo.
‘La nostra profondità̀
strategica in Africa’
Conversazione con Mario GIRO,
viceministro degli Esteri.
LIMES Guardando
la carta geopolitica dell’Africa da
Roma, qual è per noi il centro di quel continente? Qual è il perimetro dell’«Africa
italiana», quella che ci interessa più da vicino?
GIRO Le priorità
del nostro paese sono la Libia e
il suo retroterra strategico. Prima di approfondire quest’area, così importante
per la nostra sicurezza e non solo, vorrei però concentrarmi su quelle aree e
quei paesi dove vi sono maggiori opportunità di crescita, per noi e per i paesi
africani. Non dimentichiamo che nel 2016 l’Italia è divenuta terza fonte di investimenti nel
continente, dopo Cina ed Emirati Arabi Uniti. Il passaggio dalla
ventunesima posizione del 2014 a quella attuale testimonia gli sforzi che hanno
portato società come Enel ad acquisire quote rilevanti del mercato
africano tout court. Senza contare la presenza di Eni, fondamentale già prima del 2014 con la scoperta
di giacimenti come quelli di Zohr in Egitto e Agulha in Mozambico. Molte
imprese si stanno cimentando con il continente. L’incremento portentoso degli
investimenti italiani evidenzia come Eni non costituisca un unicum e
dunque come le imprese nostrane si stiano internazionalizzando anche in Africa.
Con risultati evidenti, malgrado tutte le difficoltà del caso.
LIMES Quali sono i paesi e i settori
chiave per noi, in quest’ambito?
GIRO Costa d’Avorio e Kenya. Rispettivamente plaque tournante [centro nevralgico,
ndr] dell’Africa occidentale e di quella orientale. Paesi di precipuo interesse
economico, e non solo, per l’Italia. Ampliando la prospettiva, sono tre gli
ambiti che offrono maggiori opportunità al nostro paese. Quelli delle energie
rinnovabili – con l’Italia (ed Enel) leader del settore - delle grandi
infrastrutture e dell’agroalimentare. Non dimentichiamo che l’Africa è l’ultimo continente con terre
libere coltivabili, oltre 200 milioni di ettari. Nello specifico, ad
esempio, dobbiamo essere presenti massicciamente con logistica e infrastrutture
nel terminale portuale di Mombasa. Trainato dagli investimenti cinesi, il porto
keniano sarà lo hub dell’Asia in Africa, continente che la Cina ha riportato al
centro del gioco internazionale. Sarà il crocevia di nuove reti ferroviarie,
lungo due direttrici. Una collegherà l’Africa orientale a quella del Nord; l’altro
– a cui già lavora la Cina – connetterà le due sponde oceaniche del continente.
Un tessuto connettivo al quale assommare la boucle
Bolloré: un anello ferroviario che dalla tratta già esistente fra Abidjan e
Ouagadougou scenderà in direzione Nigeria, Benin e Togo, connettendo il Sahel
alle economie di paesi rivieraschi. Tenendo conto che al centro della boucle
Bolloré c’è la Costa d’Avorio, la quale costituisce metà della massa monetaria
del franco Cfa occidentale. È al contempo il paese più prospero della regione e
quello con il maggior potenziale di espansione economica, assieme al Ghana. Sosteniamo
il mantenimento del franco Cfa, il quale – nonostante le critiche di alcuni
paesi sulle sue conseguenze inflattive, essendo una moneta unica agganciata
all’euro – assicura la stabilità monetaria. Singolarmente, occorre altresì rivedere
l’approccio economico alla Nigeria: il livello intergovernativo (govern to govern), utile in ambito
energetico, va integrato con quello privato (business to business). La Nigeria è il paese con il tasso più
elevato di imprenditori africani. Perciò il settore privato nigeriano deve
esser coinvolto e responsabilizzato. È un tema che ho esposto già durante la
visita dell’allora primo ministro Renzi ad Abuja nel 2016. Parimenti va
monitorato il Sudafrica, malgrado attraversi una congiuntura nient’affatto
propizia.
LIMES
Che cosa dobbiamo imparare dalla Cina in Africa? E come valutare in
questo contesto le nuove vie della seta di Xi Jinping?
GIRO
Pechino ha rinnovato lo scramble for
Africa [spartizione dell’Africa, ndr] superando il tradizionale paradigma
coloniale. Naturalmente, al pari di ogni altro attore esterno, la Repubblica Popolare
Cinese persegue in Arica il proprio interesse nazionale. Ma una connessione di
interessi è proficua per tutti, a partire dagli africani. Perciò guardiamo
positivamente ai nuovi progetti infrastrutturali cinesi. Ai corridoi economici
e all’interconnessione crescente tra Asia, Europa e Occidente in generale, che
si svilupperà anche attraverso il continente africano. E sosteniamo accordi
commerciali quali Ceta, Ttip, Tpp. Anzi, dovremmo pensare a stipularne uno
analogo con l’Africa. Prima di tutto dovremmo però superare l’approccio
bifronte degli europei e anche di noi italiani all’Africa, ancora percepita
come un continente “speciale”. Il Vecchio Continente si pone in un’ottica
fintamente ravvicinata, mentre è stato tentato di lasciare l’Africa a sé stessa
prima della penetrazione cinese, negli anni Novanta. Dobbiamo pensare l’Africa
come ogni altro continente, magari con alcuni problemi peculiari ma con immense
opportunità. L’Africa è la nostra profondità
strategica.
LIMES
Ma quale Africa? E soprattutto. Quali Stati possono essere definiti tali in
Africa?
GIRO
La struttura statale ha dato prova di resilienza in Senegal, Costa
d’Avorio, Ghana, Benin, Nigeria (malgrado i problemi legati al terrorismo nella
regione nordorientale), Marocco, Algeria, Sudafrica, Kenya, Tanzania, Namibia,
Ruanda, Uganda, Mozambico, Malawi e Zambia.
Gli Stati saheliani attraversano
invece una crisi profonda. Dobbiamo guardare la crisi migratoria con gli
occhi dei paesi del Sahel, dove i flussi migratori sono commisti a terrorismo,
traffici illegali e criminalità internazionale. La percezione generale è che
tali paesi traggano profitto dai flussi migratori, mentre in realtà, essi
minano la tenuta stessa dello Stato. Il rischio è funzione del nesso tra narcos latinoamericani - i quali
sbarcano droga davanti le coste dell’Africa occidentale per poi instradarla su
due direttrici, verso l’Asia e l’Europa, lungo le stesse rotte che percorrono i
migranti - e trafficanti di armi, uomini
e altre attività lucrose (come il traffico di medicinali illegali). Questi
fenomeni si sono globalizzati e interconnessi, sino a costituire una forza
alternativa a quella degli Stati. I quali perdono il controllo di territorio e frontiere,
soppiantati dal legame tra mafia e terroristi. Sono fenomeni radicati al punto
di minare le basi della statualità e minacciano di produrre una pletora di jihadistan. Rischiamo altre Libie. È
molto preoccupante, per esempio, l’inculturazione jihadista nel Sahel; nel 2012
ne enucleavo i rischi, quando si crearono i primi nuclei jihadisti nella
regione. Specie in contesti ad alta instabilità come in Libia e Ciad. Oggi è
possibile l’emersione di un jihad peul o tuareg. Quanto accade nel Nord del
Mali è allarmante, non soltanto per la questione dei tuareg. I terroristi non
sono stati sconfitti dopo la guerra condotta da Francia e Ciad nel 2012. Si sono
dispersi e riorganizzati, facendo leva sul malcontento delle popolazioni
locali, quelle tradizionalmente tenute ai margini del processo di costruzione
degli Stati unitati postcoloniali. Le popolazioni saheliane sono state
protagoniste di un’inculturazione per opera di quelli che erano inizialmente
terroristi algerini o mediorientali. È la saldatura tra gli interessi di alcune
popolazioni locali e l’offerta jihadista, che si declina in una ricreazione identitaria
– radicata sul territorio e dunque molto più pericolosa della presenza di mere
cellule terroristiche - di popolazioni bistrattate dai propri Stati. Quali
appunto i peul o i tuareg, marginalizzati durante il processo di State-building e ancora oggi.
LIMES
Qual è il rapporto tra jihad e traffici? Il jihadismo ne costituisce la
copertura ideologica?
GIRO
Spesso i terroristi sono anche trafficanti. Il jihadismo si instaura sul
territorio, funge oramai più da copertura identitaria che ideologica. È un
fenomeno più rischioso dello spostamento di una “setta”, come i combattenti dello
stato Islamico di ritorno dal teatro mediorientale, installatisi in Libia e poi
spinti verso sud dopo essere stati cacciati da Sirte. Oppure il fenomeno dei foreign fighters che tornano in Tunisia
o in Europa. In questo caso il radicamento territoriale e l’inculturazione
forgiano un’identità, per quanto posticcia, facendo perno sugli errori dei
governi come le politiche di marginalizzazione etnica. E debellare un’identità
fatta propria dai locali è un’operazione molto più complessa.
LIMES
Lei pensa che sia giusto per Roma guardare alla geopolitica africana
soprattutto dalla prospettiva securitaria e migratoria?
GIRO
L’emergenza migratoria va affrontata senza farne un’ossessione. Urge
innanzi tutto ricostruire lo stato in Libia. Non che quello di Gheddafi fosse
un modello virtuoso, ma almeno garantiva stabilità. L’ossessione migratoria
deve convertirsi in proattività per evitare che altri paesi - quali Niger,
Ciad, Mali, Mauritania, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan –
conoscano derive simili a quella libica. Va altresì ridimensionata
l’ossessione demografica. La verità è che il continente africano, a
eccezione della Nigeria, è ancora sottopopolato. Per stabilizzare i fenomeni migratori
occorre anche investire nel sistema scolastico pubblico, mentre abbiamo
lasciato che l’istruzione in Africa si privatizzasse. Arginare peculiari forme
di radicalizzazione, come in Somalia, dove si costruiscono università islamiche
private, tendenzialmente fondamentaliste. E impedire che falliscano le città,
oltre agli Stati. Kinshasa e Lagos, per esempio, sono enormi conglomerati nei
quali nasce la liaison fra
trafficanti di vario genere e migrazioni. Senza dimenticare le campagne, da
sostenere con elettrificazione, sviluppo tecnologico e dell’agro-business. La
produzione di cibo è interesse nostro e dei grandi investitori internazionali,
a partire dai cinesi. Nell’immenso mondo rurale africano va combattuto
l’effetto spillover dei fenomeni
climatici (come nella regione del Lago Turkana, nel Kenya del Nord o quella del
Lago Ciad), delle pandemie e della deforestazione selvaggia.
LIMES
L’Italia gode di una qualche influenza nel Corno d’Africa? Quali sono le
preoccupazioni maggiori nella regione?
GIRO
Su tutte, la mai terminata guerra tra Eritrea ed Etiopia. Malgrado lo status di
ex potenza coloniale non ci avvantaggi, abbiamo una relazione stretta con l’Etiopia,
la quale si percepisce capitale d’Africa. È uno Stato plurinazionale dalla
forte personalità, sede dell’Unione Africana, che intende ergersi a modello,
con tutti i rischi e i difetti del caso.
Siamo altresì tra i pochi che
dialogano con l’Eritrea, ma non riusciamo a sbloccarne l’impasse con l’Etiopia.
Benché moderatamente aperti verso l’Italia, gli eritrei non intendono discutere
il dossier etiope, anche perché lamentano la mancanza di un sostegno
internazionale – Italia compresa – dopo che la Corte internazionale di
giustizia ne ha riconosciuto le ragioni nel contenzioso frontaliero. Con la guerra
in Yemen c’è stata un’apertura agli investimenti dei paesi del golfo e alla
loro influenza eppure chiudono le scuole coraniche. Forte della propria
identità e impermeabilità, l’Eritrea mira a l’edificazione di uno stato laico,
una rarità nella regione, anche se consigliamo più moderazione ad esempio nelle
relazioni con le religioni. Nel dossier della pace cerchiamo una maggiore flessibilità
da parte di tutti.
Permangono irrisolte anche le
tragiche questioni del Sud Sudan, dove imperversa una guerra etnica in cui si assiste
a una recrudescenza delle violenze. La Somalia, malgrado un’economia funzionante,
è in bilico tra le ipotesi unitaria e federale. Quest’ultima ha ripreso piede,
giacché i rischi maggiori si concentrano nella zona Sud, in particolare a
Mogadiscio, dove è attivo al_Šabāb. Le altre regioni non vogliono rimanerne
ostaggio.
LIMES
La geopolitica italiana in Africa la fa il ministro dell’Interno?
GIRO
Il nostro governo è riuscito a invertire la tendenza
all’approccio settoriale, armonizzando cooperazione allo sviluppo, diplomazia,
sicurezza e imprenditorialità. Abbiamo riaperto ambasciate e
rappresentanze diplomatiche importanti, come quelli di Niamey e Conakry. E
abbiamo implementato iniziative in ambito economico, in cooperazione allo
sviluppo, connettendole fra loro. Prova ne sia il bando della cooperazione
per il settore privato vocato all’Africa. La Libia è un discorso
parzialmente a sé stante. La vicenda è stata affrontata, soprattutto negli
ultimi due anni, come una questione migratoria e quindi è rientrata nella sfera
di competenza del ministero dell’interno. In questi anni abbiamo riorientato la
cooperazione allo sviluppo per la creazione di lavoro in Africa, tramite la
cooperazione stricto sensu ma anche
gli investimenti. È fondamentale proseguire su questo sentiero di sinergia
tra diplomazia, aiuti pubblici allo sviluppo e imprenditoria privata. La
questione migratoria va affrontata concentrandosi sui paesi da dove originano i
migranti. È un lavoro che va sviluppato coinvolgendo pienamente il settore
privato, con cultura d’impresa e del lavoro, know how e occupazione. La
connessione d’interessi è profittevole per tutti. In tal senso, l’Italia ha
vinto la sua battaglia nell’Unione europea, con il Migration compact e l’External
investment plan: un novo modo di concepire la cooperazione allo sviluppo.
LIMES
Con quali paesi europei collaboriamo più strettamente in Africa?
GIRO
Anzitutto con la Germania, mentre scontiamo qualche difficoltà con gli amici
nordici, restii a combinare fondi pubblici e privati. Con la Francia abbiamo
avuto problemi di posizionamento, in parte, superati, sulla Libia. La grande
esperienza che Parigi vanta in Africa occidentale sta diventando appannaggio
dell’Europa tutta.
LIMES
Si può ancora parlare di Françafrique?
GIRO
Soltanto in termini di reti, conoscenze e comunanza culturale. Sono assets che l’Europa sta ereditando. La Françafrique,
nella sua concezione tradizionale, non esiste più. È oramai troppo complicato
controllare un paese tramite un’élite dirigente impiantata nella capitale. Ne è
riprova l’operazione militare francese contro i terroristi in Mali, avviata d’intesa
con il Ciad nel 2012. Parigi ha in seguito chiesto e ottenuto il supporto
europeo. È altrettanto emblematica l’esperienza del G5-Sahel. Cinque paesi
africani – Niger, Ciad, Mali, Mauritania e Burkina Faso – decidono di
costituire una forza militare congiunta per contrastare i fenomeni che flagellano
la regione, con il sostegno di Francia, Germania, spagna, Italia e altri. Siamo in competizione economica con gli altri europei
nel settore privato, ma ben venga se è indirizzata allo sviluppo dell’Africa.
LIMES
E’ possibile riedificare uno Stato in Libia?
GIRO
Sarà un processo lento, le cui redini spettano ai libici. La vulgata giornalistica
dipinge un quadro composto quasi esclusivamente dai due fronti di Sarraj e
Haftar – in realtà, lungi dall’essere monolitici. Senza considerare le altre
parti del contendere, meno conosciute ma altrettanto determinanti. Vi sono almeno centocinquanta milizie le quali, oltre a
usare i traffici per fare economia e sostentarsi, si son trasformate in Consigli
rivoluzionari con un potere locale di cui non intendono privarsi. Per
ricucire questa trama spezzata, oltre a ricomporre le faglie interne alla
Libia, occorre responsabilizzare gli attori esterni coinvolti. Troppi paesi
intendono profittare delle contingenze: non soltanto europei ma russi,
qatarini, emiratini, egiziani, turchi… un’intesa tra le potenze che esercitano
un’influenza sarebbe propedeutica a un accordo tra fazioni libiche. Una conferenza
sulla Libia tra relevant powers
sconta ostacoli e controversie sugli eventuali partecipanti. Come in occasione
del tentativo fatto in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando è
stata contestata la presenza del Qatar.
LIMES
Perché la Libia attrae un tale volume di interessi?
GIRO
Per le sue risorse e soprattutto perché rappresenta un vuoto geopolitico
che, in quanto tale, finisce sempre per essere colmato. L’Egitto cerca di
riacquisire l’influenza che esercitava in Cirenaica prima della colonizzazione
italiana. Italia e Francia, rispettivamente, in Tripolitania – sulla scia
dell’apogeo coloniale – e nel Fezzan, regione frontaliera delle ex colonie
francesi. Il quadro è intricato dalla pluralità di attori dalle dispute fra élite
sunnite. In Libia, esemplificando, si assiste anche a uno scontro sul ruolo dei
Fratelli musulmani. Mentre Haftar, una delle anime del negoziato libico, si è
presentato ai media occidentali come colui che in solitaria potrebbe unificare
il paese. Ma né lui né Sarraj né il consiglio rivoluzionario di Misurata né le
milizie di Tripoli possono unificare la Libia da soli o in assenza di una
concertazione tra gli interessi delle controparti.
LIMES
La nascita di uno Stato in Libia si tradurrebbe nella stabilizzazione dell’area
e nell’emersione di un unico referente politico. È pensabile raggiungere il
medesimo risultato erigendo un sistema non statuale?
GIRO
E’ un piano alternativo sul quale dovranno esprimersi i libici che però non è
confortato dall’esperienza della Somalia, alla quale la Libia somiglia per
suddivisione strutturale in clan e tribù. Il neoinviato dell’Onu, Ghassan
Salamé, sta cercando da tre mesi di aprire un nuovo round negoziale dopo gli accordi
di al-Sahirat, i quali hanno prodotto risultati concreti bloccando gran parte
degli scontri. Scaramucce a parte, la situazione nel paese si è stabilizzata.
Anche nel Fezzan, dove tribù e tuareg hanno smesso di combattersi apertamente.
GIRO
Contingente, qualora non si raggiungesse un
accordo politico – non imponibile dall’esterno – che porti stabilità in Libia.
Non è un caso che l’Unhcr chieda invano ai libici di svuotare i centri di
detenzione. La statualità avrebbe portata risolutiva. Le milizie e gli altri
soggetti devono concordare gli assetti della Libia futura. Invece, ognuna delle
parti cerca di avvantaggiarsi affidandosi a partner esterni. È un gioco molto
pericoloso, nel quale i mediatori divengono parti in causa. Da qui la rilevanza
di un’intesa tra le potenze influenti nella regione. Un accordo parziale è già
visibile e ha impedito, anche grazie all’azione italiana, che in Libia
arrivassero armi pesanti capaci di accentuare l’intensità del conflitto. A Tripoli vigono ormai condizioni di vita accettabili.
LIMES
Eppure, l’Italia è l’unico paese occidentale ad aver
riaperto un’ambasciata nella capitale libica.
LIMES 11/2017
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