Lavoro gratuito e
«volontario»: verso una forma legalizzata di schiavitù
Con l’improvvisa e disastrosa alluvione di Firenze
della scorsa settimana è salita nuovamente agli onori delle cronache una di
quelle proposte che dovrebbe far accapponare la pelle, provocando un moto
generalizzato di rifiuto: quella di mettere a lavorare gratis – apparentemente
come «volontari» – i cosiddetti «profughi» (o, usando una sineddoche, gli
«immigrati»). Fautori della proposta – che tra l’altro si è concretizzata nei
giorni successivi – sono stati questa volta il governatore della Toscana Enrico
Rossi e il sindaco di Firenze Dario Nardella, un renziano di ferro. I due,
subito dopo l’alluvione, hanno esaminato varie ipotesi, tra le quali c’era «anche
la possibilità di utilizzare i
profughi ospitati in Toscana per i primi interventi di pulizia e ripristino, utilizzando anche la convenzione attivata con Inail per l’assicurazione per lavori di pubblica utilità» (leggi). Poche ore dopo, Nardella ha dichiarato che «i profughi ospiti della Regione Toscana, e in particolare quelli che sono a Firenze e nei comuni limitrofi, da domani potranno essere di supporto alla Protezione Civile di Firenze […] e saranno utilizzati in particolare per il ripristino del verde pubblico» (leggi).
Nei giorni successivi, mentre alcuni immigrati si offrivano volontari per aiutare nel ripristino della normalità a Firenze, Rossi in un’intervista si spingeva oltre:
profughi ospitati in Toscana per i primi interventi di pulizia e ripristino, utilizzando anche la convenzione attivata con Inail per l’assicurazione per lavori di pubblica utilità» (leggi). Poche ore dopo, Nardella ha dichiarato che «i profughi ospiti della Regione Toscana, e in particolare quelli che sono a Firenze e nei comuni limitrofi, da domani potranno essere di supporto alla Protezione Civile di Firenze […] e saranno utilizzati in particolare per il ripristino del verde pubblico» (leggi).
Nei giorni successivi, mentre alcuni immigrati si offrivano volontari per aiutare nel ripristino della normalità a Firenze, Rossi in un’intervista si spingeva oltre:
“In cambio dell’accoglienza – dice ancora Rossi – ci
deve essere la disponibilità a prestare attività di carattere volontario a
vantaggio della comunità”. Qualcuno l’ha già fatto. A Torrita di Siena i
profughi accompagnano, sotto l’egida della locale Misericordia, i bambini a
scuola e aiutano gli anziani a salire sui pulmini dei servizi sociali. A
Monteriggioni lavorano per un associazione creata dal parroco garantendo l’apertura
di spazi pubblici. A Prato spazzano e puliscono i giardini. A Firenze hanno
offerto il loro aiuto nel dopo-nubifragio dei giorni scorsi. “Ma con le due
delibere approvate di recente dalla giunta regionale – conclude Bugli – è
ancora più semplice. Abbiamo infatti sciolto gli ultimi problemi burocratici e
normativi, a partire dall’assicurazione obbligatoria, che potevano creare un
ostacolo”.
L’idea di mettere a lavoro gratuitamente gli
immigrati, in realtà, non è nuova, ma anzi costituisce un vecchio cavallo di
battaglia di Alfano. Una circolare del ministero dell’Interno della
fine del 2014, intitolata Volontariato per l’integrazione dei richiedenti
asilo (n. 14290/2014), infatti, ha richiesto agli enti locali, prendendo
spunto da una discutibile iniziativa della Caritas di Bergamo, di
favorire il lavoro gratuito (volontario?) dei richiedenti asilo dietro il
ridicolo pretesto dell’«integrazione»:
Gli importanti flussi migratori che hanno interessato
l’Italia a partire dalla fine del 2013, e per tutto il 2014, hanno determinato
una significativa presenza di cittadini stranieri extracomunitari ospitati in
tutte le province del nostro territorio. A seguito di ciò da più parti è stato
evidenziato che una delle criticità connesse all’accoglienza è quella relativa
alla “inattività dei migranti” che si riverbera negativamente sul tessuto
sociale ospitante. Per ovviare a tale situazione si ritiene che, come già
avviato con successo dalla Prefettura dl Bergamo, le SS.LL. potrebbero
sottoscrivere protocolli d’Intesa con gli EE.LL., anche costituiti in
consorzio, volti a porre in essere percorsi finalizzati a superare la
condizione di passività dei migranti ospitati nelle province di rispettiva
competenza attraverso l’individuazione di attività di volontariato. Tali
iniziative appaiono meritevoli di ogni considerazione in quanto, coinvolgendo i
migranti in attività volontarie di pubblica utilità svolte a favore delle
popolazioni locali, si assicurano loro maggiori prospettive di integrazione nel
tessuto sociale del nostro Paese, scongiurando un clima di contrapposizioni nei
loro confronti. Le attività oggetto dei protocolli d’intesa devono essere
rivolte, esclusivamente ai richiedenti asilo e a coloro che sono in attesa
della definizione del ricorso in caso di impugnativa della decisione negativa
della competente Commissione Territoriale e ciò nella considerazione che per i
titolari di Protezione internazionale sono previsti altri percorsi di
inserimento lavorativo. Pertanto le attività di volontariato svolte dai
richiedenti asilo devono rispondere ai seguenti requisiti:
1) Devono essere svolte esclusivamente su base
volontaria e gratuita;
2) Devono essere finalizzate al raggiungimento di uno
scopo sociale e non lucrativo;
3) Deve essere sottoscritta un’adeguata copertura
assicurativa per la responsabilità civile verso terzi e contro gli infortuni,
non a carico di quest’Amministrazione;
4) Deve essere assicurata una formazione adeguata alle
attività che saranno svolte dai migranti volontari;
5) Gli stranieri devono aderire, in maniera libera e volontaria, ad un’associazione e/o ad un’organizzazione di volontariato.
5) Gli stranieri devono aderire, in maniera libera e volontaria, ad un’associazione e/o ad un’organizzazione di volontariato.
Questa circolare ministeriale, in quanto atto amministrativo
e non fonte (neanche secondaria) di diritto, non ha alcun valore prescrittivo
e, inoltre, la sua applicazione si potrebbe configurare come violazione di una
legge effettiva, quella che prevede che qualsiasi lavoro subordinato debba
essere retribuito, a meno che non si tratti di volontariato. E, quest’ultimo, è
ovviamente un’attività a cui nessuno può essere costretto né per legge (leggi) né per supposti obblighi morali («in
cambio dell’accoglienza», dice Rossi: gli si potrebbe rispondere
facilmente che l’accoglienza è il minimo, «in cambio del colonialismo e delle
guerre imperialiste»…). Essa è stata, quindi, messa in pratica da pochissimi
enti locali. Non soddisfatto dei risultati, a maggio Alfano è ritornato sulla
questione, spronando i comuni ad applicare la suddetta circolare che, parole
sue, «autorizza il lavoro gratuito degli immigrati» (leggi e leggi). Una richiesta senza alcun senso,
perché appunto nessuno può essere costretto al volontariato. Tra l’altro, Alfano
soffre evidentemente di un disturbo della personalità: solo poche settimane
dopo, infatti, ha affermato – giusto per dare un po’ di
soddisfazione alla retorica degli «immigrati che ci rubano il lavoro» – che «immaginare
che un immigrato tolga lavoro ad un italiano è impensabile, gli italiani non
vedranno rubati posti di lavoro dagli immigrati»: quello che vuole mettere
gli immigrati a fare gratis lavori che qualsiasi persona (anche gli stessi
immigrati «volontari») potrebbe fare dietro retribuzione, come può lamentarsi
della disoccupazione e del supposto «furto» di posti di lavoro? Il caso toscano
– secondo quanto emerge dall’articolo riportato sopra – è emblematico: le
attività di «volontariato» in cui sono impegnati gli immigrati sono
prevalentemente quei servizi sociali e di pubblica utilità a cui gli enti
locali e il governo hanno tagliato fondi e finanziamenti. Per non veder franare
completamente il sistema di welfare, quindi, vengono impiegate
gratuitamente delle persone per svolgere compiti che dovrebbero essere invece
svolti – come avveniva in passato – da personale qualificato e, soprattutto, contrattualizzato.
A spalare il fango di un’alluvione dovrebbero essere i vigili del fuoco e la
protezione civile. Ad aiutare bambini e anziani dovrebbero essere degli
operatori sociali, non dei volontari: a questi ultimi, invece, vengono affidati
quei «lavori di cura» a cui lo stato sociale non provvede più. Quello che per
anni è stato un compito da attribuire alle donne, ora viene «appaltato» a
un’altra categoria priva (o, per meglio dire, privata) di diritti e
aspettative, quella dei «volontari», siano essi immigrati o italiani (magari
disoccupati…). È molto significativo che Rossi – ma esperienze simili si sono già registrate anche nelle
Marche – elenchi tra le attività volontarie degli immigrati quella di «spazzare
e pulire i giardini» a Prato, un’attività che dovrebbe essere svolta dai
lavoratori retribuiti delle aziende municipali che si occupano dei servizi
ambientali e della gestione dei rifiuti. È significativo perché basta poco per
fare un paragone con il caso di Roma: dopo che è emerso come il Servizio
giardini del Comune fosse uno degli snodi attraverso cui passavano gli appalti truccati poi affidati alle cooperative di
Buzzi e Carminati e alla cricca di Mafia Capitale, il blocco delle sue attività
ha comportato una situazione di stallo in cui tale servizio ha praticamente
smesso di funzionare. Il risultato sono stati parchi sporchi, erbe
alte, rischio di incendi. Una situazione a cui il Comune ha pensato
«brillantemente» di far fronte impiegando per tre mesi «14 soggetti
condannati, sottoposti a misure alternative al carcere» nei lavori di cura
del verde, pulizia e manutenzione di strade, parchi e giardini a Ostia, dopo
una convenzione tra l’Uepe (Ufficio locale di esecuzione penale esterna di Roma
e Latina) e il X Municipio di Roma (leggi). Non che non sia giusto trovare
un’occupazione ai detenuti e puntare così al loro reinserimento – anzi – ma
essi non dovrebbero essere visti come manodopera a basso costo con cui tamponare
i buchi di enti locali che non investono più sui servizi pubblici. Immigrati,
condannati, carcerati – in pratica i soggetti più ricattabili della società –
non possono costituire il bacino di «disperati» a cui rivolgersi per supplire
alle mancanze dello stato sociale. La questione è, ovviamente, molto delicata:
non si può pensare, infatti, che gli immigrati siano soggetti passivi di tutte
le decisioni che vengono prese su di loro e che si adattino supinamente a
prestarsi come «volontari». In questo senso, va tenuto in considerazione il
legittimo desiderio di rendersi utili – o anche semplicemente di sfuggire
all’inattività e all’abbrutimento a cui essa potrebbe condurre – anche con
attività volontarie, soprattutto in occasione di catastrofi naturali come
quelle di Firenze, che smuovono certamente le commozione e spronano all’azione.
Del resto, anche alcuni immigrati volontari, ad esempio in provincia di Pisa,
dopo cinque mesi (!!) di volontariato come pulitori di giardini, hanno
cominciato a chiedere una retribuzione (leggi): va bene il desiderio di rendersi
utili, ma alla lunga emerge chiaramente la catena di sfruttamento dietro la
pretesa degli enti locali di far lavorare gratis le persone. Il fatto che
questo lavoro «volontario» sia non solo previsto ma anche richiesto a gran voce
dal governo, tuttavia, va tematizzato e contestualizzato nella complessiva
ristrutturazione dei rapporti di lavoro che sta prendendo corpo tanto in Italia
quanto, come è ovvio, in tutta l’Ue. Innanzitutto, è necessario chiarire a
quali «immigrati» ci si riferisca facendo questo appello al lavoro volontario
che dovrebbe superare – l’espressione è contenuta nella circolare di Alfano – «l’inattività
dei migranti». Non certo agli oltre 5 milioni di immigrati regolari in
Italia, che in quanto tali devono avere un contratto di lavoro e quindi sono
tutto tranne che «inattivi». Ovviamente, neanche agli immigrati clandestini
(difficilmente quantificabili, ma si stima che siano circa 300mila) che, oltre
a non essere di certo inattivi, non sono censiti e non hanno alcuna possibilità
di rendersi «visibili» in attività di supposto volontariato che gli
costerebbero il rimpatrio. Quelli a cui si fa appello per il lavoro gratuito –
come recita anche il titolo della circolare ministeriale – sono quindi i
richiedenti asilo. Veniamo ai numeri: nel 2014 sono state presentate
63.456 domande di protezione internazionale (al giugno scorso, ne risultavano
esaminate 36.270 e circa 24.000 erano state respinte), a cui se ne aggiungono
altre 22.118 fino al giugno 2015 (respinte 7.437 delle 15.780 esaminate). Un
totale, quindi, di circa 34mila persone: sono questi che – esclusi, speriamo, i
bambini o gli anziani – dovrebbero dare la loro disponibilità per il lavoro
gratuito. Una quantità di persone – sul numero totale di immigrati – a dir poco
irrisoria: tuttavia utile tanto per fare propaganda politica sugli immigrati
che se ne starebbero tutto il giorno senza far nulla a spese «nostre», quanto
per testare le tattiche di ricatto più efficaci per garantirsi un esercito di
«lavoratori volontari» a cui non assegnare alcuna retribuzione. Ma perché
parlare di ricatto? E perché i richiedenti asilo sono così «inattivi»?
C’è un’epidemia di pigrizia tra di loro? Ovviamente la risposta è no. I
richiedenti asilo sono inattivi perché le leggi in vigore li costringono a
esserlo. Infatti, al momento della domanda di protezione internazionale, ai
richiedenti asilo viene concesso un permesso di soggiorno temporaneo, non
valido per lavoro: esso dura tre mesi, entro i quali le autorità
dovrebbero pronunciarsi sulla loro richiesta. In questi tre mesi, i richiedenti
asilo non possono lavorare perché non hanno la documentazione per farlo: o,
almeno, per farlo in modo legale. Inoltre, come evidente dai dati sopra sulle
domande del 2014 e del 2015 già esaminate, i tempi della risposta si allungano
per mesi e per anni, spingendo persone «non clandestine» e dotate di un
permesso di soggiorno (anche se temporaneo) nel circuito dell’illegalità del
«lavoro nero»: del resto, non si capisce come potrebbero mantenersi per mesi
senza poter lavorare.
Inoltre, la richiesta di asilo deve essere giudicata da una Commissione territoriale composta da quattro membri: un rappresentante della prefettura, un funzionario di polizia, un rappresentante di un ente territoriale (comune, provincia, regione) e un rappresentante dell’Unhcr (Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati). Tra i membri di questa commissione giudicatrice figura, quindi, un rappresentante degli stessi enti locali per i quali i richiedenti asilo dovrebbero prestare lavoro volontario e gratuito. La situazione è grottesca: ai richiedenti asilo viene impedito di lavorare (perché non gli viene fornita la documentazione che li legittima a farlo) e, mentre sono inattivi in attesa di una risposta dalla commissione giudicatrice, gli viene chiesto di lavorare «volontariamente» e «gratuitamente» per quegli stessi enti locali un cui esponente è membro proprio di tale commissione. Non sappiamo definirlo in altro modo che come ricatto: anche considerando il desiderio che potrebbe avere un immigrato di aiutare la comunità in cui vive, infatti, ci chiediamo quanto ci possa essere di «volontario» dove sussiste un rapporto di potere così ineguale e asimmetrico. Difficile, infatti, pensare che gli immigranti non si sentano anche in dovere fare bella figura agli occhi di chi deve decidere del loro futuro. Se poi i richiedenti asilo non possono lavorare dietro retribuzione, perché invece possono farlo gratis? E con quali tutele sindacali e contrattuali lo farebbero? Chi decide il loro orario di impiego e i giorni di riposo, chi gestisce la catena di comando che li coordina? Quanto a lungo dovrebbe durare questa attività di volontariato? Quali sono i doveri di questi «volontari» e quali i loro diritti? Quali sono le visite mediche a cui vengono sottoposti prima di iniziare lavori di fatica quali pulire giardini o sgomberare le strade dalle macerie di un’alluvione? Qual è la loro preparazione e quali le loro competenze per compierli? Quali corsi di sicurezza sul lavoro hanno seguito prima di mettersi all’opera in attività comunque pericolose («da domani collaboreranno con la protezione civile», ha detto Nardella: basta un giorno per essere preparati?) e chi vigila sul rispetto delle procedure di prevenzione degli infortuni? Non penseremo mica in un’ottica neocoloniale – per non dire schiavista – che chi proviene da paesi più poveri sia «naturalmente» idoneo ai lavori di fatica e li possa fare senza alcuna istruzione e formazione? Il caso dell’alluvione di Firenze, tra l’altro, mostra tutte le contraddizioni di questa richiesta di lavoro volontario: come riportato in un comunicato dei compagni del Cpa, infatti, molti di coloro che si sono subito messi a disposizione per poter contribuire attivamente alla pulizia del quartiere «sono stati ripresi e fermati perché non erano autorizzati a farlo». Evidentemente, gli italiani sono considerati un po’ meno «volontari» degli immigrati.
La messa al lavoro volontario dei richiedenti asilo – costretti a un’inattività forzata e allungata dei tempi biblici di svolgimento delle pratiche – costituisce la nuova frontiera dello sfruttamento degli immigrati, dopo che le politiche securitarie e repressive hanno costretto i lavoratori stranieri ad accettare ogni tipo di condizione lavorativa, diminuendo così nel lungo periodo le tutele per tutti. Infatti, il lavoro volontario/gratuito apre le porte a una diminuzione dei diritti lavorativi di tutti, abbassa il costo del lavoro, legittima gli enti pubblici a non investire nella creazione e nel mantenimento di posti di lavoro: dove ci sono persone che fanno gratis un lavoro per il quale potrebbero essere retribuite, infatti, la destrutturazione dei rapporti lavorativi in atto da anni segna un punto a suo favore. Il dibattito politico degli ultimi mesi in più occasioni ha riguardato proprio questi temi. Da Jovanotti a Luca Sofri, infatti, si sono sentiti diversi appelli sul «gratis è bello»: sarebbe bello perché fa fare «esperienza», perché è «divertente» o perché fa provare «delle soddisfazioni più varie che non sono necessariamente monetizzate». Così dicono quelli che non si devono preoccupare la mattina di come arrivare alla fine del mese… Si tratta, a ben vedere, di un ricatto non diverso da quello a cui sono sottoposti i richiedenti asilo: in un momento di altissima disoccupazione, soprattutto giovanile (che supera il 40%), cosa c’è di meglio di offrire, al posto di una retribuzione, l’aspettativa di un miglioramento della propria condizione differita nel tempo e proiettata nel futuro? Se lavori gratis – si dice – fai esperienza: un’esperienza che ti potrai vendere sul curriculum per ottenere, poi, un lavoro migliore (oppure, «se lavori gratis la commissione territoriale vedrà che ti interessi alla comunità e, poi, ti concederà la protezione internazionale»). Mica vorrai rimanere a casa «senza fare niente», mica vorrai essere un «neet», no? In realtà, lavorare gratuitamente indebolisce proprio la propria posizione nel mercato del lavoro: un datore di lavoro, vedendo in un curriculum che la persona che ha di fronte non ha problemi a lavorare gratis, non si farà problemi a pensare che posa farlo di nuovo o che sia disponibile a lavorare sottopagata (poco è sempre meglio di niente, no?) e in condizione di sfruttamento. In una realtà in cui gli stage gratuiti sono per i giovani quasi la condizione di normalità, la retorica – o per meglio dire, l’ideologia – del «gratis è bello» ha poi avuto due grandi consacrazioni: una legislativa, prima con il programma Garanzia Giovani e poi con il Jobs Act, e una pratica, con la sua istituzionalizzazione a Expo 2015. Per quanto riguarda Expo, il 23 luglio 2013 Cgil, Cisl e Uil, il Comune di Milano ed Expo 2015 spa hanno firmato un accordo per favorire l’assunzione a termine di 800 lavoratori e l’utilizzo di 18.500 volontari (18.500!!) per l’esposizione, da impiegarsi su turni di cinque ore al giorno, per un massimo di due settimane ciascuno in attività di accoglienza ai visitatori (leggi): si è trattato del primo accordo sindacale che permette il ricorso al lavoro non pagato. A un’azienda (per quanto di proprietà pubblica), la Expo spa, è stato così garantito di fare profitto senza preoccupazioni per il costo del lavoro, ridotto a zero: il sogno di ogni capitalista. In una situazione come questa, è del tutto da rifiutare l’accondiscendenza con la quale vengono accolte proposte come quelle del duo Rossi-Nardella e le conseguenti disponibilità come volontari date dai migranti. Se una visione buonista dell’immigrazione potrebbe portare ad affermare, nel nome di un generico antirazzismo, «avete visto, razzisti? Non è vero che gli immigrati stanno lì senza fare nulla a spese nostre, ma si danno da fare! Ci aiutano!», la diffusione di questa retorica avrebbe effetti deleteri. L’unico modo per superare l’ottica razzista – equamente distribuita tra quelli per i quali gli immigrati ci rubano lavoro e quelli per i quali essi non fanno niente perché sono mantenuti dagli italiani – è la lotta per l’estensione dei diritti sul mondo del lavoro e contro le leggi repressive che legittimano la ricattabilità degli immigrati. Salari e orari uguali per tutti, stessi diritti sindacali, garanzie contrattuali, sicurezza sul lavoro, rifiuto del lavoro gratuito: è questa la strada per un miglioramento della vita di tutti i lavoratori. Ricordandoci che il lavoro gratuito non si chiama volontariato: si chiama schiavitù.
Inoltre, la richiesta di asilo deve essere giudicata da una Commissione territoriale composta da quattro membri: un rappresentante della prefettura, un funzionario di polizia, un rappresentante di un ente territoriale (comune, provincia, regione) e un rappresentante dell’Unhcr (Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati). Tra i membri di questa commissione giudicatrice figura, quindi, un rappresentante degli stessi enti locali per i quali i richiedenti asilo dovrebbero prestare lavoro volontario e gratuito. La situazione è grottesca: ai richiedenti asilo viene impedito di lavorare (perché non gli viene fornita la documentazione che li legittima a farlo) e, mentre sono inattivi in attesa di una risposta dalla commissione giudicatrice, gli viene chiesto di lavorare «volontariamente» e «gratuitamente» per quegli stessi enti locali un cui esponente è membro proprio di tale commissione. Non sappiamo definirlo in altro modo che come ricatto: anche considerando il desiderio che potrebbe avere un immigrato di aiutare la comunità in cui vive, infatti, ci chiediamo quanto ci possa essere di «volontario» dove sussiste un rapporto di potere così ineguale e asimmetrico. Difficile, infatti, pensare che gli immigranti non si sentano anche in dovere fare bella figura agli occhi di chi deve decidere del loro futuro. Se poi i richiedenti asilo non possono lavorare dietro retribuzione, perché invece possono farlo gratis? E con quali tutele sindacali e contrattuali lo farebbero? Chi decide il loro orario di impiego e i giorni di riposo, chi gestisce la catena di comando che li coordina? Quanto a lungo dovrebbe durare questa attività di volontariato? Quali sono i doveri di questi «volontari» e quali i loro diritti? Quali sono le visite mediche a cui vengono sottoposti prima di iniziare lavori di fatica quali pulire giardini o sgomberare le strade dalle macerie di un’alluvione? Qual è la loro preparazione e quali le loro competenze per compierli? Quali corsi di sicurezza sul lavoro hanno seguito prima di mettersi all’opera in attività comunque pericolose («da domani collaboreranno con la protezione civile», ha detto Nardella: basta un giorno per essere preparati?) e chi vigila sul rispetto delle procedure di prevenzione degli infortuni? Non penseremo mica in un’ottica neocoloniale – per non dire schiavista – che chi proviene da paesi più poveri sia «naturalmente» idoneo ai lavori di fatica e li possa fare senza alcuna istruzione e formazione? Il caso dell’alluvione di Firenze, tra l’altro, mostra tutte le contraddizioni di questa richiesta di lavoro volontario: come riportato in un comunicato dei compagni del Cpa, infatti, molti di coloro che si sono subito messi a disposizione per poter contribuire attivamente alla pulizia del quartiere «sono stati ripresi e fermati perché non erano autorizzati a farlo». Evidentemente, gli italiani sono considerati un po’ meno «volontari» degli immigrati.
La messa al lavoro volontario dei richiedenti asilo – costretti a un’inattività forzata e allungata dei tempi biblici di svolgimento delle pratiche – costituisce la nuova frontiera dello sfruttamento degli immigrati, dopo che le politiche securitarie e repressive hanno costretto i lavoratori stranieri ad accettare ogni tipo di condizione lavorativa, diminuendo così nel lungo periodo le tutele per tutti. Infatti, il lavoro volontario/gratuito apre le porte a una diminuzione dei diritti lavorativi di tutti, abbassa il costo del lavoro, legittima gli enti pubblici a non investire nella creazione e nel mantenimento di posti di lavoro: dove ci sono persone che fanno gratis un lavoro per il quale potrebbero essere retribuite, infatti, la destrutturazione dei rapporti lavorativi in atto da anni segna un punto a suo favore. Il dibattito politico degli ultimi mesi in più occasioni ha riguardato proprio questi temi. Da Jovanotti a Luca Sofri, infatti, si sono sentiti diversi appelli sul «gratis è bello»: sarebbe bello perché fa fare «esperienza», perché è «divertente» o perché fa provare «delle soddisfazioni più varie che non sono necessariamente monetizzate». Così dicono quelli che non si devono preoccupare la mattina di come arrivare alla fine del mese… Si tratta, a ben vedere, di un ricatto non diverso da quello a cui sono sottoposti i richiedenti asilo: in un momento di altissima disoccupazione, soprattutto giovanile (che supera il 40%), cosa c’è di meglio di offrire, al posto di una retribuzione, l’aspettativa di un miglioramento della propria condizione differita nel tempo e proiettata nel futuro? Se lavori gratis – si dice – fai esperienza: un’esperienza che ti potrai vendere sul curriculum per ottenere, poi, un lavoro migliore (oppure, «se lavori gratis la commissione territoriale vedrà che ti interessi alla comunità e, poi, ti concederà la protezione internazionale»). Mica vorrai rimanere a casa «senza fare niente», mica vorrai essere un «neet», no? In realtà, lavorare gratuitamente indebolisce proprio la propria posizione nel mercato del lavoro: un datore di lavoro, vedendo in un curriculum che la persona che ha di fronte non ha problemi a lavorare gratis, non si farà problemi a pensare che posa farlo di nuovo o che sia disponibile a lavorare sottopagata (poco è sempre meglio di niente, no?) e in condizione di sfruttamento. In una realtà in cui gli stage gratuiti sono per i giovani quasi la condizione di normalità, la retorica – o per meglio dire, l’ideologia – del «gratis è bello» ha poi avuto due grandi consacrazioni: una legislativa, prima con il programma Garanzia Giovani e poi con il Jobs Act, e una pratica, con la sua istituzionalizzazione a Expo 2015. Per quanto riguarda Expo, il 23 luglio 2013 Cgil, Cisl e Uil, il Comune di Milano ed Expo 2015 spa hanno firmato un accordo per favorire l’assunzione a termine di 800 lavoratori e l’utilizzo di 18.500 volontari (18.500!!) per l’esposizione, da impiegarsi su turni di cinque ore al giorno, per un massimo di due settimane ciascuno in attività di accoglienza ai visitatori (leggi): si è trattato del primo accordo sindacale che permette il ricorso al lavoro non pagato. A un’azienda (per quanto di proprietà pubblica), la Expo spa, è stato così garantito di fare profitto senza preoccupazioni per il costo del lavoro, ridotto a zero: il sogno di ogni capitalista. In una situazione come questa, è del tutto da rifiutare l’accondiscendenza con la quale vengono accolte proposte come quelle del duo Rossi-Nardella e le conseguenti disponibilità come volontari date dai migranti. Se una visione buonista dell’immigrazione potrebbe portare ad affermare, nel nome di un generico antirazzismo, «avete visto, razzisti? Non è vero che gli immigrati stanno lì senza fare nulla a spese nostre, ma si danno da fare! Ci aiutano!», la diffusione di questa retorica avrebbe effetti deleteri. L’unico modo per superare l’ottica razzista – equamente distribuita tra quelli per i quali gli immigrati ci rubano lavoro e quelli per i quali essi non fanno niente perché sono mantenuti dagli italiani – è la lotta per l’estensione dei diritti sul mondo del lavoro e contro le leggi repressive che legittimano la ricattabilità degli immigrati. Salari e orari uguali per tutti, stessi diritti sindacali, garanzie contrattuali, sicurezza sul lavoro, rifiuto del lavoro gratuito: è questa la strada per un miglioramento della vita di tutti i lavoratori. Ricordandoci che il lavoro gratuito non si chiama volontariato: si chiama schiavitù.
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