Lo scorso 16 gennaio la Camera ha approvato in prima lettura il disegno di legge per la riforma costituzionale sulla giustizia voluta dal governo di Giorgia Meloni. È solo il primo dei quattro passaggi parlamentari previsti (due alla Camera e due al Senato) in questi casi, cioè quando si modifica la Costituzione. Inoltre, quando dovesse completare questi passaggi, la riforma quasi sicuramente passerà anche per un referendum confermativo: per evitarlo dovrebbe essere approvata in entrambe le camere con i due terzi dei componenti, che nel caso della Camera significa 267 su 400 (ma in prima lettura il testo è stato invece approvato con 172 voti favorevoli).
La riforma introduce un cambiamento notevole nell’ordinamento della magistratura: la cosiddetta separazione delle carriere, cioè l’introduzione di carriere con concorsi di ammissione diversi e diverse norme interne per i magistrati inquirenti, ovvero i pubblici ministeri che conducono le indagini, e quelli giudicanti, ovvero i giudici che emettono le sentenze.
Questa riforma è presentata come la risoluzione a tutti gli attuali squilibri del processo che,
invece, hanno cause complesse e molteplici: il numero troppo elevato di procedimenti e la conseguente eccessiva durata dei processi; un sistema normativo smisurato e la conseguente incertezza interpretativa di leggi e regolamenti.Un ordine separato di pubblici ministeri, con un proprio organo di autogoverno, rischia di accentuare anziché ridurre i difetti dell’attuale sistema. È, infatti, concreto il rischio che si diffondano e generalizzino atteggiamenti e comportamenti in chiave antigarantista della fase delle indagini preliminari: la logica di risultato, cioè la ricerca della “vittoria” nel processo mediante la condanna dell’imputato; la trattazione di casi con forte impatto mediatico e la diffusione dei risultati delle indagini; il legame con le forze di polizia, con una maggiore difficoltà a svolgere indagini su eventuali comportamenti illegali degli appartenenti alle forze dell’ordine.
Davvero si pensa che il presunto rafforzamento della terzietà del giudice, che si indica come miracolistico risultato della riforma, sia idoneo da solo a far fronte a tali pericoli? Pare proprio di no. Anzi, uno dei pericoli della riforma è proprio quello di determinare un affievolimento delle garanzie di indipendenza del pubblico ministero e creare forme di controllo sul loro operato da parte del potere politico. Si vuole un pubblico ministero in sintonia con la mentalità dominante presso gli organi di polizia giudiziaria, una minore tutela per il cittadino, un magistrato meno autonomo e meno indipendente.
In realtà più che risolvere i problemi della giustizia questo governo sta facendo a gara ad approvare decreti sicurezza ed ogni mese approva nuovi reati sempre diretti verso le fasce sociali dei poveri e degli emarginati, nonché contro le aree del dissenso. Quindi, moltiplicazione dei processi, delle misure cautelari, dell’inefficienza.
La riforma non risolve uno dei problemi reali della giustizia. Non una riga di questa riforma darà sentenze più giuste e più veloci.
Piuttosto questa riforma rappresenta l’ennesimo attacco alla democrazia ed è un fatto che deve preoccupare tutti. Una riscrittura dell’assetto costituzionale, caratterizzato da un manifesto sbilanciamento tra i poteri dello Stato, mira a costituire un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato, munito di ampie risorse investigative che assumerebbe «il ruolo di incontrastato vertice della polizia giudiziaria», rispondendo solo a se stesso del modo in cui esercita il proprio potere.
Di sicuro porterà una moltiplicazione degli organi di autogoverno (quello del pubblico ministero), delle spese per tutte le indennità dei consiglieri ed amministrazioni di supporto, delle procedure e competenze. Si moltiplicheranno gli incarichi non certo l’efficienza. Solo che gli incarichi continueranno ad essere distribuiti dai partiti fra i loro uomini, mentre quelli dei giudici saranno distribuiti a caso (a sorteggio come prevede la riforma).
Nei paesi in cui la carriera del PM è separata da quella del giudice, quasi sempre il PM stesso dipende dall’esecutivo e di certo questo non è un auspicio in termini di democrazia e terzietà ma di favore e tutela per una classe specifica e contro i semplici cittadini.
Per concludere, ci poniamo sempre la stessa domanda: la riforma costituzionale in esame è idonea a risolvere problemi della giustizia quali la lentezza dei processi, l’efficienza dei tribunali o il sovraffollamento delle carceri? No, l’intervento normativo non ha alcun impatto sulla risposta alla esigenza di “giustizia” che viene dalla gente.
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