venerdì 22 agosto 2025

Un appello degli allenatori italiani per escludere Israele da ogni competizione calcistica

Il calcio non è mai stato soltanto un gioco. È uno dei grandi spazi simbolici della società, capace di modellare l’immaginario collettivo e di parlare a milioni di persone in un linguaggio immediato, popolare, universale. 

Ed è proprio per questo che la sua apparente “neutralità” non esiste: quando davanti ad un genocidio, all’apartheid, a occupazioni e a violazioni sistematiche del diritto internazionale si sceglie di non prendere posizione, quel silenzio diventa complicità. 

Oggi il nodo è chiaro: le istituzioni sportive internazionali, UEFA e FIFA in testa, continuano a garantire ad Israele piena legittimità sportiva, come se nulla stesse accadendo. 

Eppure il mondo del calcio non è una bolla avulsa dalla realtà, non può ignorare le macerie, i

bombardamenti e l’oppressione quotidiana di un intero popolo. È inaccettabile. La richiesta, sempre più insistente, di escludere Israele dalle competizioni internazionali non è un vezzo “politicizzante”, ma una questione di giustizia nonché di coerenza. 

Perché la richiesta di esclusione di Israele è coerente con i principi che la FIGC stessa dice di voler tutelare: quelli contro ogni forma di discriminazione e violenza. 

E risuona ancora più forte se pensiamo che in passato lo sport ha già avuto il coraggio di agire: dall’isolamento del Sudafrica dell’Apartheid alle sanzioni adottate in altri contesti di oppressione, guerra e violazione dei più basilari diritti dell’essere umano. Il mondo del calcio, dunque, ha già “trovato la forza” di schierarsi, di fare pressione per influenzare il corso della storia, di difendere la propria credibilità e i propri valori. Tocca farlo anche ora!  

Proprio per questo la lettera/appello dell’AIAC, l’Associazione Italiana Allenatori di Calcio, inviata il 19 agosto scorso alla FIGC rappresenta un atto politico dirompente. 

L’AIAC, guidata dall’ex allenatore tra le altre di Vicenza, Napoli e Bologna, Renzo Ulivieri, ha deciso di chiedere alla FIGC, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, e al suo presidente Gravina (per giunta vicepresidente della UEFA) di mobilitarsi e di inoltrare a UEFA e FIFA la richiesta di sospendere Israele dalle competizioni internazionali. 

Non un gesto retorico, ma un atto che risponde, come si legge nella lettera, a un “imperativo morale”. Ulivieri ha dichiarato che i valori di umanità, che sostengono quelli dello sport, ci impongono di contrastare azioni di sopraffazione dalle conseguenze terribili

E con lui i vicepresidenti dell’Associazione hanno sottolineato la necessità di non fingere che tutto possa continuare come se nulla fosse: Camolese, storico ex allenatore del Torino, ha dichiarato che “non si può pensare soltanto a giocare, fingendo di non vedere”; Vossi ha ricordato “i troppi morti senza colpa”, tra cui gli oltre 400 calciatori, allenatori e lavoratori del mondo del calcio, mentre Perondi ha aggiunto che “l’indifferenza non è ammissibile”. 

La lettera, non a caso, si apre con alcune di quelle questioni che da tempo tifosi, appassionati e solidali con la Palestina, stanno ponendo alle massime Istituzioni del mondo del calcio senza ricevere alcuna risposta. Domande nette, assolutamente non di circostanza o fini a sé stesse. 

Ulivieri nei giorni scorsi si era pubblicamente chiesto se Israele – Italia dovesse essere considerata una partita e basta o si sarebbe dovuto guardare al mondo e quindi agire di conseguenza. Un “dubbio”, o per meglio dire una certezza posta sotto forma di dubbio, che gli allenatori ripropongono all’inizio della lettera: una partita di calcio, preceduta dagli inni nazionali, può essere considerata soltanto una partita di calcio? 

Ovviamente no. E proseguono chiedendosi se “quel che accade nella Striscia di Gaza può essere ridotto a un “conflitto come tanti”, ricordandoci, ancora una volta, che quello del calcio non è un mondo a sé stante, ma è parte della società e delle sue contraddizioni.  

Ed è qui che si apre la battaglia più grande, quella per l’egemonia culturale, nell’accezione gramsciana del termine. Egemonia che non è soltanto il dominio materiale, ma la capacità di rendere “naturale” una visione del mondo, trasformandola in senso comune. 

E il calcio è un campo centrale dove l’egemonia si costruisce: negli stadi, attraverso i mass media, sui social, nei discorsi dei campioni. Il silenzio delle Istituzioni sportive di fronte al genocidio in corso non fa altro che contribuire a normalizzare la violenza e l’occupazione israeliana. Ciò che serve è spezzare la legittimità di quel silenzio. Rendere ovvia, normale, moralmente doverosa la presa di posizione: non un atto eroico, ma un atto di buon senso collettivo. 

E la presa di posizione degli allenatori che chiedono pubblicamente alla FIGC di pretendere l’esclusione di Israele da ogni competizione è un atto politico, una crepa nel discorso culturale dominante che fa paura come dimostra la risposta piuttosto piccata e scomposta del ministro Salvini che ha invitato gli allenatori a fare gli allenatori e a lasciare le questioni di geopolitica agli ambasciatori. Ogni dichiarazione, ogni presa di posizione, ogni gesto, evidentemente, ha la forza di spostare il dibattito. 

Costruire una diversa visione delle cose e del mondo significa, dunque, spostare il baricentro: fare in modo che chiedere giustizia per la Palestina non appaia come una provocazione di minoranza, ma come l’espressione più elementare del buon senso collettivo. 

Le tifoserie, i movimenti e le reti di solidarietà hanno qui un compito preciso: riempire gli stadi e tutti i luoghi (virtuali e non) della passione calcistica con messaggi chiari, visibili, dirompenti. Rendere normale ciò che oggi viene accusato di essere “troppo politico”. Perché in realtà quel che è più politico in assoluto è il silenzio che legittima la violenza. 

Oggi dire che il calcio non può restare indifferente al genocidio in Palestina sembra ancora un atto coraggioso. Ma il compito è far sì che diventi normale, ovvio, innegabile. Che sia senso comune affermare che la vita dei civili conta più di qualsiasi risultato sportivo. 

La storia ci insegna che i simboli, i gesti e le dichiarazioni contano. Ancora di più se fatti o pronunciate da persone conosciute a livello nazionale o mondiale.  

Basti pensare all’effetto che hanno avuto le parole della stella del Liverpool e della nazionale egiziana, Momo Salah che ha ironicamente chiesto alla UEFA chi, come e perché avesse ucciso Suleiman Al-Obeid, il Pelé di Palestina. 

Le sue parole così come le strette di mano negate agli atleti israeliani, i cori che ricordano i morti, le bandiere della Palestina che sventolano negli stadi, gli striscioni “Show Israel the Red Card” che sfidano la censura sono tasselli che sedimentano, che spostano l’orizzonte, che costringono perfino i grandi apparati del potere politico e mediatico a inseguire un cambiamento del senso comune. 

Così funziona l’egemonia: non è un atto singolo, ma la paziente costruzione di una nuova normalità. Altrimenti perché il presidente della UEFA, Alexander Ĉeferin, avrebbe – per la primissima volta – aperto alla possibilità di escludere Israele da ogni competizione? 

O ancora perché prima della partita di Supercoppa Europea tra PSG e Tottenham, sempre la UEFA avrebbe esposto un mega striscione con su scritto “Basta uccidere bambini. Basta uccidere civili” seppur senza mai contestualizzare il tutto o nominare Israele? 

Allora è chiaro che la partita decisiva non si gioca solo in campo ma anche sugli spalti e per le strade delle nostre città e passa dalla capacità di chi ama il calcio di riportarlo ad essere strumento di lotta e di giustizia. 

Fare pressione, non mollare, denunciare l’ipocrisia delle istituzioni, chiamare allo scoperto i calciatori, veri e propri idoli per milioni di bambini, costringere UEFA e FIFA a smettere di nascondersi dietro l’alibi della “neutralità”: tutto questo è parte di una stessa lotta. 

Il calcio non può predicare fair play e accettare un genocidio. Non può esaltare il rispetto delle regole in campo e chiudere gli occhi davanti alla violazione sistematica del diritto internazionale e degli stessi Statuti della FIFA. Non può essere veicolo di educazione popolare e contemporaneamente diventare strumento di propaganda per chi calpesta sistematicamente la vita di un intero popolo. 

Oggi più che mai, il calcio deve scegliere. Il calcio italiano deve scegliere se Israele – Italia è una partita di calcio e basta o meno. In tanti e tante hanno già scelto: quella partita non va giocata! 

Ma ora tocca ai club, ai calciatori e soprattutto a chi governa il mondo del calcio italiano scegliere: o dalla parte della giustizia o dalla parte della complicità. Perché non ci sono zone neutre quando in gioco ci sono milioni di vite umane. 

(nella foto di copertina il mister Ulivieri)

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