Da cavallette.noblogs.org
questa documentata ricostruzione della persecuzione giudiziaria nei
confronti di tre compagne da parte dell'avvocato Antonio Valentini -
difensore del militare Francesco Tuccia, di stanza nelle zone
terremotate dell'Abruzzo nel contesto dell'operazione "strade sicure" ed
esecutore di un efferato stupro ai danni di una ragazza del posto. Il
legale, al quale la determinazione delle compagne aveva impedito di
presenziare ad un'iniziativa tenuta presso la Casa Internazionale delle
Donne di Roma, si è reso responsabile di una campagna censoria,
repressiva e persecutoria nei confronti delle tre, dai risvolti
vessatori ed inquietanti. Alle imputate va la solidarietà della
redazione
di Infoaut.org e l'esortazione a non lasciarle sole nel giorno
dell'udienza, il 22 gennaio prossimo al tribunale de L'Aquila, e nel
loro percorso di (auto)difesa legale e non.
***
Il
22 gennaio 2018 si aprirà presso il tribunale dell’Aquila un processo
che vedrà coinvolte tre donne, trascinate sul banco delle imputate
dall’avvocato Antonio Valentini con l’accusa di diffamazione aggravata a
mezzo stampa (articolo 595 c.p). Abbiamo deciso di raccontare questa
vicenda su Cavallette, perché in essa si concentrano temi che ci stanno a
cuore e che da sempre fanno parte del nostro DNA politico:
l’anti-sessimo, l’importanza delle pratiche di lotta femministe e la
capacità di difenderle collettivamente esercitando in maniera radicale
il diritto alla libertà di espressione.
Lo stupro di Pizzoli
Influente
notabile dalle ambizioni politiche prematuramente frustrate – solo un
misero 3,7% raccolto dalla lista Patto per l’Aquila con cui si era
presentato alle amministrative del 2002 -, Antonio Valentini è
considerato da molti quotidiani e portali d’informazione locali come uno
dei “principi del foro” del capoluogo abbruzzese. Nel suo blasone vanta
numerosi procedimenti eccellenti, come il processo Di Orio – dove si è
impegnato nella difesa dell’omonimo ex-rettore e monarca assoluto
dell’ateneo aquilano, cacciato dal trono nel 2012 per le accuse di
concussione – o quello che lo vede come legale di alcuni dei 38
imputati, accusati dalla procura distrettuale antimafia di associazione a
delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione e
dell’immigrazione clandestina. Suo anche l’esposto che ha dato avvio al
processo nei confronti della commisione Grandi Rischi, tacciata di non
aver messo in guardia la popolazione aquilana del rischio sismico
incombente nell’aprile del 2009.
Ma
il caso più noto per cui Valentini è salito agli onori della cronaca è
quello relativo allo stupro avvenuto a Pizzoli (AQ) nel 2012. A
perpetrarlo il militare Francesco Tuccia, originario della provincia di
Avellino e appartenente al 33mo Reggimento Artiglieri Acqui. Di stanza
sul territorio per l’operazione “Strade Sicure” – rivelatasi fin
dall’inizio un enorme esperimento di militarizzazione delle zone colpite
dal sisma del 2009 -, il 12 febbraio Tuccia trascorre una serata di
baldoria tra commilitoni presso la discoteca Guernica, che si conclude
con lo stupro di una studentessa ventenne consumatosi fuori dal locale.
Rosa (nome di fantasia), dopo essere stata violentata dal soldato, viene
abbandonata seminuda e in stato d’incoscienza, nel parcheggio. Buttata
sanguinante sul manto di neve che copriva la zona antistante l’edificio,
la ragazza sarebbe certamente morta per il freddo e i traumi riportati,
se un buttafuori che stava terminando il suo turno non ne avesse
casualmente notato il corpo, accartocciato tra le auto posteggiate.
Il processo
Questo
disprezzo per Rosa diventerà il leit motiv che caratterizzerà tutto
l’iter giudiziario nelle sue differenti fasi. Tuccia viene infatti
arrestato, e Valentini, che ne assume il patrocinio insieme all’avvocato
Alberico Villani, sceglie di ricorrere ad un linea difensiva tanto
orribile quanto purtroppo consueta nei processi per stupro. Per tutta la
durata del procedimento l’avvocato prova infatti a derubricare la
violenza subita da Rosa come “un rapporto finito male” che vedeva il
“reciproco consenso” degli interessati. La dimostrazione, a detta di
Valentini e Villani, sarebbe consistita nel fatto che i due erano stati
visti scambiarsi effusioni amorose all’interno locale, per poi uscirne
mano nella mano in un secondo momento. Un comportamento di cui il pool
difensivo di Tuccia – descritto durante il dibattimento come un ragazzo
di “buona famiglia”, “giovane ed inesperto” e “spinto a pratiche di
sesso estremo” di cui avrebbe perso il controllo – ritiene di dover
chiedere conto a Rosa: “dovrà spiegare il perché e il motivo per il
quale è uscita fuori dal locale con il freddo e la neve insieme al suo
giovane coetaneo”. L’obbiettivo di una simile retorica è duplice. Da un
lato insinuare nella giuria il dubbio che quello consumatosi non sia
stato uno stupro ma un rapporto consenziente. Dall’altro produrre un
ribaltamento delle parti in causa, criminalizzando la vittima –
costretta a dimostrare la violenza subita – e assolvendo il carnefice
dalle sue responsabilità. Non è più quindi Tuccia ad essere chiamato a
rispondere del delitto di cui si è macchiato, ma Rosa, la cui condotta
morale e accondiscendenza avrebbero indotto il militare “in tentazione”.
In
fase di requisitoria Valentini si spinge fino ad addurre motivazioni
“tecniche” che avallerebbero la sua tesi. Tra queste spicca una
dichiarazione secondo cui “la pratica del fisting presuppone una
particolare posizione della donna, assolutamente incompatibile con le
modeste ecchimosi refertate sulla ragazza e soprattutto con il fatto che
aveva, sebbene scesi, i pantaloni addosso”. Le “modeste ecchimosi” cui
l’avvocato fa riferimento consistono in ben 48 punti di sutura e in
profonde lacerazioni dell’apparato genitale e digerente di Rosa,
“ricuciti” solo grazie a diversi interventi chirurgici. Sono ferite
talmente profonde da impressionare anche i medici che prendono in cura
la ragazza, giunta in ospedale in stato di incoscienza ed in preda ad un
grave shock emmorragico. Il dottor Gabriele Iangemma, ginecologo di
turno quella sera e occupatosi di prestare i primi soccorsi a Rosa,
dichiarerà durante una trasmissione televisiva dedicata allo stupro di
Pizzoli di non aver mai visto nulla del genere in trent’anni di
esercizio della professione medica.
Il
clima del processo non viene però inquinato unicamente da un impianto
difensivo smaccatamente misogino e sessista, ma anche da un diffuso
clima intimidatorio. A pochi giorni dallo stupro, l’avvocato Villani
partecipa a due differenti programmi andati in onda su Canale 5: in
entrambe le occasioni rivela la vera identità di Rosa (che nel frattempo
era stata trasferita in una località segreta) mettendone così a
repentaglio la sicurezza e la privacy. Poi, una settimana dopo la
sentenza di primo grado, arrivano anche le minacce. A farne le spese è
l’avvocata Simona Giannangeli – rappresentante del centro anti-violenza
dell’Aquila, costituitosi parte civile nel processo -, che il 5 febbraio
2013 trova sul cofano della sua auto un biglietto anonimo con questo
messaggio: “Ti passerà la voglia di difendere le donne… Stai attenta e
guardati sempre le spalle, da questo momento questo posto non è più
sicuro per te”.
Nonostante nel
gennaio 2015 la Cassazione metta la parola fine alla vicenda processuale
che coinvolge Tuccia (la pena definitiva inflittagli è di 7 anni e 8
mesi), nessuna canta vittoria. Non Rosa, costretta ad un esilio forzato
in un’altra città nel tentativo di riannodare le fila spezzate della sua
vita. Non le parti civili, costrette ancora una volta a constatare come
la denigrazione della donna continui a rappresentare una costante nei
processi per stupro (come dichiarato dall’avvocata Giannangeli dopo
l’ultimo verdetto, “si cerca l’elemento di verità processuale a partire
dalla demolizione della persona offesa e dal suo presunto
comportamento”). Non le centinaia di donne che l’hanno sostenuta durante
tutto il processo, dentro e fuori l’aula di tribunale, consapevoli che
uno stupratore in carcere non rappresenta certo un argine alla violenza
di genere che in tutto il mondo continua a mietere vittime. E, dopo
Rosa, sarà proprio questa rete di solidarietà ad essere messa sotto
accusa dall’avvocato Valentini.
Censura, repressione, sequestri e denunce
Un
territorio completamente militarizzato e devastato. Lo stupro di una
studentessa perpetrato da un militare. Un processo insozzato da
retoriche patriarcali, sessiste e misogine. Intimidazioni e minacce agli
avvocati. A questo quadro, già di per sé vergognoso, nuovi tasselli
sono andati ad aggiungersi, proprio quando la luce dei riflettori
sembrava ormai essersi distolta dalle aule del tribunale dell’Aquila.
Il
13 Novembre 2015 viene infatti organizzato presso la Casa
Internazionale delle Donne di Roma il convegno “Verso la Cassazione”. Si
tratta di un incontro chiamato per discutere delle responsabilità della
commissione Grandi Rischi in merito al terremoto dell’Aquila del 2009 e
del processo, ormai alle battute finali, che ne vede coinvolti diversi
membri. Tra i relatori c’è anche Valentini. Il fatto non passa
inosservato e suscita indignazione. In tante si chiedono come sia
possibile che un personaggio di tale risma possa presenziare in un luogo
da sempre considerato un porto sicuro per le donne. Una compagna
originaria dell’Aquila scrive una lettera in proposito – raccontando chi
fosse Valentini e quale linea difensiva avesse scelto di adottare
durante tutti e tre i gradi del processo di Pizzoli – e la invia ad una
mailing list chiusa. Successivamente, la missiva viene reinoltrata da
una seconda persona all’associazione Ilaria Rambaldi Onlus (responsabile
dell’organizzazione dell’iniziativa) attraverso Facebook Messenger. Nel
frattempo partono giri di telefonate e mail che chiedono la revoca
dell’invito a Valentini. Il tam tam raggiunge il suo scopo e il convegno
si svolge in tutta tranquillità senza la presenza dell’avvocato.
Sembra
una vicenda chiusa, ma non è così. Valentini cerca vendetta. Passano
alcuni mesi, e la sera del 18 Maggio 2016 i carabinieri di Roma,
imbeccati da un’informativa redatta dal Nucleo operativo dell’Aquila,
bussano alla porta della persona che con Facebook Messenger aveva
contattato l’associazione “Ilaria Rambaldi”. Le notificano una denuncia
per diffamazione aggravata a mezzo stampa e un decreto di perquisizione e
sequestro, firmato dal sostituto procuratore Antonietta Picardi. Le
viene contestato di aver diffuso la lettera, il cui contenuto, si legge
nell’atto, sarebbe stato “denigratorio ed offensivo, anche mediante
l’attribuzione di fatti determinati e di rilevanza penale, della
reputazione professionale dell’avvocato Antonio Valentini”. Dopo quattro
ore di perquisizione i carabinieri se ne vanno, portandosi via un
laptop, un tablet, uno smartphone e un hard disk esterno. La stessa
scena si ripeterà dopo alcuni mesi: il 13 settembre la donna autrice
della lettera viene a sua volta denunciata e il suo personal computer
sequestrato. Il 20 dicembre l’indagine si chiude con tre richieste di
rinvio a giudizio per altrettante donne.
“Non ci metterete a tacere”
L’avvocato
Flavio Albertini Rossi, che difenderà due delle tre imputate, rigetta
in toto l’accusa di diffamazione a mezzo stampa. Da una parte perché,
spiega il legale, il semplice fatto di aver utilizzato Facebook
Messenger – ovvero un canale di comunicazione uno a uno – “non rende
fattibile una diffusione del messaggio idonea da integrare il reato”. In
altre parole, affinché l’aggravante della diffusione a mezzo stampa si
configuri come tale, è necessario che un dato contenuto venga fatto
circolare in un pubblico composto da un numero indeterminato di persone.
Circostanza, questa, non verificatasi nel caso in questione.
Al
di là dell’aspetto tecnico, però, aggiunge l’avvocato, “quanto compiuto
dalle mie clienti, lungi dall’essere diffamatorio, esprimeva piuttosto
una preoccupazione per la presenza di Valentini in un luogo che non vede
certo protagoniste persone che hanno rappresentato, difeso e sostenuto
le tesi di un imputato per stupro. Tanto più” aggiunge “se la difesa è
avvenuta nelle modalità che sappiamo”. E proprio su questo aspetto si
concentra una sua riflessione più generale: “Io penso che oggi non sia
più accettabile che qualcuno tenda ad attribuire e a dimostrare una
consensualità di comportamenti tra lo stupratore e la sua vittima.
Questi sono argomenti che possiamo ritrovare in un documentario come
Processo per stupro, girato nel 1979: chi nel 2018 ritiene lecito
continuare a ricorrervi per difendere il proprio assistito deve anche
assumersi l’onere di essere oggetto di aspre critiche”.
Critiche
che, per altro, non sono state espresse solo dalle tre donne che
affronterranno il processo all’Aquila il 22 gennaio, ma anche da
centinaia di altre persone che a gran voce avevano detto un secco “no”
sull’opportunità di far entrare Valentini alla Casa Internazionale delle
Donne. La diffusione di quella lettera non può essere ridotta a una
mera questione di reponsabilità penale ed individuale. Anzi, ci riguarda
tutte. Non solo perché, come ricordava qualche tempo fa una compagna a
Radio Onda Rossa durante una trasmissione dedicata alla vicenda, quel
gesto nasceva da una presa di posizione collettiva: “Solo tre di noi
sono state perseguite penalmente, ma siamo state dieci, venti, trenta a
mandare mail, lettere e fare telefonate in quei giorni”. Ma ci riguarda
tutte anche, e sopratutto, perché l’indifferenza davanti alla cultura
della violenza maschile e maschilista ci rende tutte più vulnerabili. Un
punto questo che sarà ribadito alle 9 di mattina del 22 Gennaio davanti
al tribunale dell’Aquila, durante un presidio di solidarietà convocato
in occasione dell’apertura del processo.
Collettivo A/I
Per approfondire: Il sito della campagna di solidarietà Ci Riguarda Tutte La lettera “incriminata” Una delle trasmissioni di Radio Onda Rossa dedicate a questa vicenda Il documentario Processo per stupro (1979)
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